mercoledì 31 marzo 2010

È Pasqua!
Ovunque uova di cioccolato d’ogni dimensione e colore. Scintillio di stagnole, nastri argentati…
La mia mente mi riporta all’infanzia e alla prima giovinezza quando imperava l’uovo di Pasqua, quello vero, prodotto dalle galline.
L’uovo della Pasqua villarosana prima si bolliva per farlo rassodare ben bene, poi veniva immerso in una pasta in genere dolce, arricchita di confettini finissimi quasi come semi di papavero di svariati colori, i diavulicchi. Poi andava infornato. Il tuorlo dell’uovo cotto ancora una volta, liberato dall'albume rappreso, assumeva all’esterno un colore verde chiaro, che dal dopoguerra si denominerà comunemente penicellina. 

Era u canniliri, la gioia dei bimbi. Ma non di tutti, purtroppo; la maggioranza poteva solamente sognarlo.

lunedì 29 marzo 2010

A GRUTTA D’ ANZISI


Il presumibile sito dell’antica Pizarolo, ricco di reperti come cocci di crateri e mozziconi di pezzi architettonici, che per i contadini del luogo erano qualificati con disistima semplicemente come “grasti”, cioè rottami del tempo dei Saraceni, ha da sempre infiammato la fantasia popolare che ha intessuto il tutto di leggende relative a ingenti "truvatura".
Vincenzo De Simone in Bellarrosa, Uomo serio, a pg. 89 parla di streghe che all’Agnelleria venivano evocate da fattucchiere, che si facevano luce con candele fatte col sego dei morti, per conoscere l’ubicazione di tesori smarriti.
Nella zona, immediatamente a sud-est di monte Respica-Giulfo, esiste una piccola elevazione naturale indicata nella Carta d’Italia dell’Istituto Geografico Militare al foglio 268 IV N.E., e denominata rocca Danzise.
La leggenda narra di due compari, cacciatori di Calascibetta, dei tempi antichi quando uno schioppo non era arma di poveri per via dell’alto costo e si andava a caccia di lepri e conigli con lacci e furetti.
Una mattina i due compari avviarono un furetto in un cunicolo davanti al quale avevano notato “rasti” di roditori. L’animale "s’infrittà" e pare che non avesse voglia d’ uscire o forse aveva già tagliato la corda da un’altra apertura, al lato opposto.
Quando si furono spazientiti abbastanza uno dei due infilò un braccio nell’ anfratto per cercare di stanare l’animaletto e la mano si trovò a toccare materiale non confrontabile a semplici ciottoli. Trasse fuori il braccio col pugno chiuso e si ritrovò nel palmo sterro e alcuni dischetti metallici impiastricciati di sporco stratificato che li rendeva indecifrabili. Il fortunato scopritore sputò sopra uno di questi, lo stropicciò fra pollice ed indice e fra l’incrostazione secolare brillò al sole un luccichio riconducibile ad oro.
I compari si guardarono negli occhi e due mani contemporaneamente si scontrarono alla fessura. Una mano alla volta trasse sempre materiale presumibilmente prezioso. Con rami secchi, coltelli ed arnesi impropri, scavando e facendo leva allargarono la breccia fino a poterci entrare uno alla volta. Il primo ad entrare fece grande fatica; vi s’infilò pericolosamente e brancicando a pancia a terra scivolò per anfratti bui su pietre aguzze che gli tormentavano il torace; l’altro fremeva di curiosità interessata per l’inconsueta facilità di trovare monete in metallo prezioso, così, bando ad ogni prudenza, seguì il compare.
Ansimanti, accaldati, sporchi di terriccio e polveri sottili impastate col sudore che colava dal cuoio capelluto attraverso la fronte e le sopracciglia fino ad offendere gli occhi, si ritrovarono dentro un’ampia cavità fiocamente illuminata da un indiretto timido raggio di sole che filtrava attraverso la roccia non assolutamente compatta.
Lo spettacolo che si offrì ai loro occhi era molto più prodigioso di quanto il più fortunato tombarolo potesse immaginare: cofani di legno infracidito che lasciavano scivolare monili e anelli, ceste già robuste ora corrose dal tempo custodivano un tesoro d’antiche monete, vasi, pesanti gioielli in oro e argento d’inestimabile valore, che poteva trovar posto solamente in decine di capienti bisacce, le sole adatte a nascondere a curiosi il reale ed insospettabile contenuto.
I due fortunati rinvenitori non si reggevano in piedi tra l’eccitazione e il turbamento. Uscirono all’aperto, s’abbracciarono e si lasciarono trascinare a terra presi totalmente dall’emozione e dalla stanchezza.
Quando si rialzarono ciascuno dei due rise sonoramente del viso impiastricciato dell’altro.
I cani guardavano curiosi i loro eccitatissimi padroni senza capire.
Si rasserenarono un po’; il sole s’era posto in alto nell’orizzonte e picchiava sulle teste, d’istinto cercarono l’ombra e qui cominciarono a far piani che dovevano rimanere assolutamente segreti.
I due erano cacciatori che oltre a non potersi permettere di possedere un’arrugginita arma da fuoco, altresì non disponevano né di un mulo, né di un macilento asinello.
Cominciarono col calcolare a grandi linee il numero di muli che sarebbero stati necessari per il trasporto e convennero che l’unica soluzione era quella di ricorrere alla "rìtina" di muli di Anzise, che l’ affittava a quanti ne avessero bisogno.
Sulla via del ritorno, dopo essersi lavati alla meglio al primo beveratoio, andarono a contrattare con Anzise adducendo come giustificazione l’acquisto di una partita di grano da rivendere a Castrogiovanni.
Tornati a casa, quando i bambini erano già addormentati, ognuno dei due cacciatori raccontò con emozione e particolari dettagliati alla rispettiva consorte l’incredibile fortunata avventura.
La notizia questa volta sconvolse le donne. Mentre i mariti sul tardi furono sopraffatti dal sonno, le mogli, ognuna nella rispettiva abitazione, rimasero sveglie a rimuginare, architettando, ognuno per proprio conto, un vile progetto: perché dover dare la metà del tesoro all’altro?
All’alba gli uomini s’alzarono: uno dei cacciatori trovò in piedi la moglie che nottetempo aveva preparato due focacce, una carica di veleno per topi l’altra normale destinata al proprio marito; l’altro trovò, pronta e decisa, la consorte che aveva preparato pane con olive e altre conserve, accompagnati da una bottiglia di buon vino messo da parte per occasioni speciali, carico d’uguale prodotto tossico per topi, da destinare esclusivamente al compare, visto che il marito era notoriamente astemio.
Ambedue i mariti non furono entusiasti dell’idea delle rispettive mogli, ma queste alla fine seppero far valere il loro diabolico piano.
Con la "rìtina" di muli di Anzise raggiunsero la grotta del tesoro. La zona intorno era deserta e non vi sorgeva alcuna costruzione, quindi non c’era il rischio d’esser visti da sguardi curiosi.
Come primo atto s’affrettarono ad allargare l’accesso dell’antro e quando furono all’interno cominciarono a riempire le bisacce d’ogni oggetto prezioso, ripulendo il sito, con accuratezza ed avidità, d’ogni più piccolo oggetto metallico. Trascinarono le bisacce fuori, la caricarono sui muli, assicurandole ben bene con corde e "prisagli".
Prima d’affrontare il viaggio di ritorno ed anche per evitare di entrare in paese di giorno, si sedettere a riposare e a consumare l’ultimo pasto da poveri.
Nel giro di qualche ora si consumò la tragedia fra atroci crampi e feroci accuse reciproche, finchè spirarono senza poter ricevere aiuto alcuno.
I poveri muli testimoni inconsapevoli aspettarono inutilmente che si desse loro il comando del rientro.
Quando le bestie cominciarono a sentire i morsi della fame, partita la prima subito fu seguita da tutte le altre lungo i sentieri che portavano alla loro dimora abituale.
Era notte fonda quando "a rìtina" di muli al completo giunse alla masseria d’Anzise e cominciarono a raspuliare con gli zoccoli il terreno per attirare l’attenzione del padrone, sperando che li liberasse al più presto dell’ormai insopportabile basto. Anzise scese giù, diede voce ai suoi clienti che credeva fuori della portata della sua vista e quando appurò che non c’era nessuno, ritenne opportuno disimpegnare al più presto le bestie dall’ insostenibile soma. Capì subito che non si trattava di frumento ma di oggetti metallici, quando aprì la prima bisaccia rimase basito; ripresosi subito pensò per il momento di acquisire il tutto e poi vedere il da farsi.
Nessuno reclamò il carico e quando si scoprì in paese la misteriosa morte dei due compari, ad Anzise si chiarì del tutto il quadro della situazione e rimase il proprietario indiscusso di tutto quel ben di Dio.
La storia raccontatami ha un seguito che potrebbe essere ben confermato o smentito da fatti storici inoppugnabili, io la raccontò così come l’ho avuta raccontata, anche se le mie riserve rimangono moltissime.
Passarono gli anni, Anzise, non avendo eredi, pare che avrebbe fatto testamento lasciando il suo smisurato patrimonio a favore della chiesa che si fosse impegnata a custodire nell’avvenire il suo corpo imbalsamato.
Sempre secondo la mia fonte verbale, abitanti di Castrogiovanni nottetempo avrebbero trafugato le spoglie di Anzise, assicurandosi per la propria comunità la lucrosa rendita. Gli stessi però, nella fretta, avrebbero lasciato a Calascibetta le interiora del defunto, anch’esse imbalsamate.
La controversia sarebbe stata risolta dopo lunghe trattative: la rendita maggiore sarebbe toccata alla chiesa di Castrogiovanni, una quota minore a quella di Calascibetta.
Cosa ci sarà di vero in tutta la storia?
È una semplice coincidenza la denominazione Rocca Danzise riportate in modo inequivoco nella Carta d’Italia?
La leggenda mi fu raccontata, quand’ero bambino e nei termini essenziali, da mio padre; ho letto pure altre versioni provenienti d’altri paesi che differiscono in alcuni particolari.
Invito i lettori, in grado di farlo, a partecipare arricchendo il racconto e possibilmente completandolo di riferimeni storici più precisi.

martedì 23 marzo 2010

U PARRINU BAGASCIU


Scrivere di fatti riguardanti persone viventi o da poco scomparse è sempre difficile. L’ha potuto fare Vincenzo De Simone parlando dei suoi zii parrini, non solo perché trattavasi di cose di famiglia, ma soprattutto perchè su di loro in Villarosa “si raccontavano storielle boccaccesche da farne un libro”, quindi erano di già fattacci pubblici che a tacerli sarebbe stato cumu ammucciari u suli cco crivu.
Lo zio parrino più giovane s’era fatto prete anche perché lo era già il fratello della madre, ma i due risultarono uno più degno dell’altro.
Vissero beffando e ridendo: il più anziano diede maggior scandalo in quanto incauto una volta si fece trarre in una trappola, degna d’essere descritta dalla penna d’Aristofane: fu inseguito nudo e bastonato per le vie del paese, e per poco non ci rimise la pelle.
De Simone conobbe il più giovane degli zii, e lo ricorda “morto, dentro il suo sarcofago scoverchiato, sul catafalco, a pie’ dell’altare maggiore della Matrice, col camice bianco e la pianeta a fiorami d’argento e il calice d’oro fra le mani….”
Già prima di morire, e ben cosciente dell’inevitabile fine, a chi andava a visitarlo e gli chiedeva come si sentisse, rispondeva ridendo di gusto: “Chiccirichì!...”.
Diceva d’aver sette malattie: ad ognuna che elencava seguiva un sonoro “Chiccirichì!...”; dell’ultima diceva che si trovava in un posto che non poteva ripetere… a uàddara.
Non senza un valido motivo mi sono soffermato nel riprendere questa pagina dell’opera del De Simone “Bellarrosa: uomo serio”, perché forse questo stesso personaggio potrebbe essere quello di cui sentivo spesso parlare, al passato, quand’ero ragazzo: u parrinu bagasciu.
Il nomignolo non mi convinceva tanto e così finiva che non chiedevo spiegazioni, temendo di essere considerato un pivello.
Che non doveva essere un qualcosa di buono era per me una certezza, ma trovavo più logico che fosse stato soprannominato “bagasciri”, in quanto nel contesto in cui lo sentivo nominare corrispondeva proprio a questo.
Molto avanti nel tempo, una sera a metà degli anni ’60, mentre mi trovavo in Piazza in compagnia del compianto avv. Adriano Termine di Enna, si avvicinò per salutarlo il signor Pietro Conoscente, che insistette tanto ad offrirci un caffè al Bar Centrale.
Dopo i preamboli d’occasione si cominciò a parlare di antiche cose di Villarosa, delle quali Adriano era ben a conoscenza in quanto il padre era stato, nei tempi d’oro del nostro paese, capo contabile d’un importante miniera.
Il Conoscente fra l’altro ci raccontò come nacque il loro soprannome di famiglia, in verità sempre accettato di buon grado, Liùni.
Glielo aveva appioppato su due piedi al padre quand’era ancora giovane, un prete villarosano, noto in paese per il suo ben noto costume per nulla castigato. Il padre del signor Pietro non si scompose più di tanto e di botto rimandò: “ Va bbeni ì sugnu Liùni, ma vossì jè u Parrinu Bagasciu”
Come avveniva di solito a quei tempi all’istante si formarono “fotograficamente” due nuovi soprannomi, ngiulii nel nostro dialetto: Liùni e Parrinu Bagasciu.
Di quest’ultimo nomignolo non ho trovato nessuna fonte scritta, né altre notizie verbali al di là del soprannome che è tutto un ritratto morale del personaggio.
È lui uno dei due zii “parrini” di Vincenzo De Simone?
Non ci è dato sapere.

domenica 21 marzo 2010

COME DONNA CLOTILDE SALVÒ IL SUO MATRIMONIO - Parte I


PARTE PRIMA

Ricordo che già frequentavo le prime classi della scuola media.
Si festeggiava a casa mia un compleanno; i più grandi, seduti a un angolo della stanza, commentavano un fatto accaduto di fresco in paese. Lo facevano con cautela in modo che io, intento a leggere un album di Topolino, non capissi. In effetti non riuscii a captare nulla.
Quando però zio Peppino, per una certa analogia con l’avvenimento in discussione, introdusse l’argomento di un antico episodio capitato in paese durante la sua prima giovinezza, che fece molto scalpore, la circospezione venne meno.
Quello che ascoltai sul caso mi colpì fortemente tanto che restò impresso nella mia memoria, compreso il cognome del protagonista maschile, un “galantuomo” villarosano, e il nome della moglie.
La storia che mi accingo a esporre nel tempo si è incrociata con una molto simile, quella di Matirda raccontata da Vincenzo De Simone nel suo bellissimo libro di “Bellarrosa: Uomo Serio!”. Notai subito che c’era una forte corrispondenza tra il fatto raccontato da zio Peppino e quello esposto nel libro.
Bella e affascinante la vicenda di Matirda, nella cui novella si leggono bellissime descrizioni dei tempi più antichi; il contrasto di mentalità e religiosità fra i due mondi sociali, il contadino e quello zolfifero; vi sono citati i luoghi originari, le usanze rigide dei matrimoni secondo il ceto degli sposi, e tante altre interessanti notizie. I protagonisti della storia del De Simone non sono borghesi, sono zolfatai e contadini. I tempi dei due fatti appaiono pressoché contemporanei; ma mi sembra poco probabile che si tratti di due episodi diversi, coevi e simili fino a quasi coincidere.
Curioso per tale coincidenza chiesi notizie sull’episodio di Matirda allo zio Peppino che rispose di non aver mai sentito parlare di tale storia con protagonisti popolari e convalidò il mio ricordo di ragazzino, anzi vi aggiunse tanti nuovi particolari. Il vecchietto mi precisò che per tanti anni seguenti si continuò maliziosamente a parlare della crisi matrimoniale, ben risolta, dei personaggi in vista in paese; che essi erano assai più anziani di lui, ma che ebbe modo di conoscere, anche se solo di vista.
Sono anni che mi chiedo: perché il nostro maggior poeta non ha raccontato i fatti reali?
Solo da quando ho cominciato a raccontare fatti di villarosani, ho sperimentato di persona la difficoltà che avrà avuto il poeta a citare un episodio piccante e poco edificante, con precisi riferimenti a protagonisti “galantuomini”, assai influenti nella comunità cittadina.
Per evitare rogne don Vincenzo ha preferito vestirli, opportunamente, con i modesti panni di zolfatai e contadini.
Con la stessa precauzione indicherò i maggiori protagonisti come don Bartolo e donna Clotilde.
Il lettore ha tre possibilità: se vuole leggere una bella novella scritta da un letterato raffinato, assapori la vicenda di Matirda [il volume si trova nella biblioteca comunale]; se vuole conoscere un fatto borghese ma reale si accosti all’antico ricordo di zio Peppino da me rivisitato; se vuole leggerli entrambi, non farà nessun male né sgarbo ad alcuno.
Bartolo unico rampollo maschile di famiglia benestante crebbe un po’ scapestrato e cerca rogne. Amava il lusso, le belle donne e i viaggi. Era stato a Parigi da turista e ne era rimasto incantato tanto che ne parlava a iosa agli amici che non erano stati più lontano di Palermo. Per questo lo chiamavano il “parigino”.
La famiglia era facoltosa ma viveva sobriamente; il padre curava gli interessi delle sue terre, la madre soprintendeva con cura al lavoro delle serve di casa, le sorelle molto ritirate passavano le giornate fra ricamo e Chiesa.
La seducente vita di Bartolo qualche volta riservava qualche triste sviluppo quando ad esempio lasciava a rotta di collo il paese o altre volte era costretto a rimanere a letto o in poltrona per “una caduta per le scale di casa”. Gli amici, e non i soli, traducevano che qualche padre o fratello di una sua conquista o di una destinataria di un tentato malaccorto approccio “cci aviva ammaccatu u ippuni”.
La famiglia tutta temeva il peggio e non faceva sonni tranquilli. A queste paure si aggiungeva il fattore economico; non c’erano soldi che bastassero al “parigino”, così quando non aveva la faccia di andare a bussare al portafoglio di papà o la madre che lo foraggiava sottobanco gli allargava le braccia, firmava cambiali. Tante volte il povero padre, vergognandosi di tale figlio, ne aveva onorate le firme.
Tutti convenivano nell’idea che per lui ci voleva una brava moglie che lo tenesse più vicino al focolare domestico piuttosto che nei luoghi equivoci del lupanare e che lo facesse smettere di andare per tetti come gatto in amore.
Tutto il parentado di Villarosa e di fuori fu informato del loro assillante problema e si chiedeva loro di “ammiari” non solo un buon partito di pari ceto sociale ed economico, ma una donna di polso e intelligente che fosse in grado di tenere vicino a lei lo sposo, allontanandolo dalle indecorose abitudini di gioventù.
La proposta più possibile fu quella degli zii di Castrogiovanni che vedevano nella giovane Clotilde, appartenente a una facoltosa famiglia locale, la donna adatta a tenere a bada uno sfrenato come Bartolo.
Le pari condizioni socio-economiche delle due famiglie favorirono l’intesa, che trovò consenzienti anche i due giovani.
Sia all’uno che all’altra non mancavano doti fisiche attraenti. Quelle di Bartolo erano sperimentate, considerato il successo che aveva avuto con le donne; Clotilde era d’una bellezza tipica della città d’origine, di carnagione chiara, occhi castani, capelli tendenti leggermente al rosso, altezza tale da “stare a spalla” al promesso sposo.
All’aria sbarazzina di Bartolo si contrapponevano la posatezza e lo sguardo vivo della fidanzata. Clotilde aveva avuto precisi ragguagli sulla circostanza che il promesso sposo non aveva rigato dritto in gioventù, ma non si perdette d’animo: si sentiva certa di poter controllare ogni situazione critica.
Ciascuno dei due ebbe come dote dalle rispettive famiglie un ottimo patrimonio, in terre fertili, case e moneta contante: la dote di Bartolo era superiore a quella delle sorelle, messe insieme; eccellente anche quella di Clotilde perché i suoi genitori non avevano avuto la benedizione di un figlio maschio che perpetuasse il cognome di famiglia.
Il matrimonio si celebrò sfarzosamente a Castrogiovanni e fu un avvenimento non comune per quella città; l’eco che ebbe a Villarosa fu strabiliante: tutto il paese fremeva di vedere a passeggio la coppia di cui tanto si favoleggiava.
I villarosani dovettero aspettare un bel po’ perché gli sposi partirono subito per il viaggio di nozze che li portò per le più belle città d’Italia e d’Europa, ovviamente con una più lunga sosta a Parigi.
Al rientro gli sposi furono avari di mostrarsi in pubblico, ma non potevano sottrarsi allo sguardo dei cittadini la domenica all’uscita dalla Chiesa dopo la Santa Messa. I commenti dei villarosani furono benevoli nei riguardi di donna Clotilde che col portamento signorile e maestoso sbalordì i semplici paesani. Il commento dei più maliziosi fu orientato verso Bartolo che per la prima volta si vedeva uscire dalla chiesa, lui che frequentava di solito luoghi innominabili. Qualcuno scommetteva che quell’idilliaco quadretto sarebbe durato qualche mese, altri erano certi che con una donna tanto bella quel rompicollo avrebbe messo la testa a posto.
Le famiglie degli sposi di mese in mese aspettavano il gioioso annuncio di “nova rreda”. Passavano i mesi e non succedeva niente.
Al Circolo dei Civili Bartolo non si vide per più di un mese; poi cominciò a frequentare ma si accostava poco ai tavoli da gioco.
A casa la notte rientrava tardi e giustificava tali orari inconsueti per un novello sposo con le lunghe e accese discussioni con gli amici al Circolo, d’inverno attorno alla stufa, d’estate fra le frescure del giardino del Circolo. [Il ritrovo dei Civili in quel tempo sorgeva dove oggi c’è il Municipio; negli anni ’30 il Circolo fu requisito, abbattuto e sull’area fu costruita la Casa del Fascio, che nel ’43, con la caduta del Fascismo, divenne il Municipio della Città; l’annesso giardino iniziava a ridosso del fabbricato e si estendeva dall’odierna Piazza Umberto I, all’area del plesso scolastico “Silvio Pellico” e fino alla piazza “Vittorio Veneto” dov’è sistemato il busto di Vincenzo De Simone].
Don Bartolo giustificava la sua freddezza sessuale col fatto che trovava la moglie addormentata. In effetti la poverina fingeva di dormire.
[continua]

COME DONNA CLOTILDE SALVO' IL SUO MATRIMONIO - Parte II

PARTE SECONDA

Donna Clotilde dalla gente comune era considerata felice perché ricca e rispettata da tutti. Non tutti conoscevano il suo dramma. I suoceri quasi le attribuivano la colpa di non saper dare loro un nipotino; la credevano sterile poiché il figlio era maschio riconosciuto per via dei suoi trascorsi di don Giovanni.
La sventurata moglie intuiva che il trattenersi al circolo era una scusa e che la sua freddezza sessuale era dovuta a sfoghi fuori di casa. Avrebbe voluto fare una pazzia: uscire da casa di notte per andare a cercare il marito al circolo e controllare la veridicità della sua affermazione; capiva bene però che tanto sarebbe stata una pura pazzia, perché gesto molto sconveniente per una signora perbene.
Guardava dal balcone di casa sua la torre di Federico, che al tempo era l’unica costruzione che troneggiava sull’acrocoro della sua città natale, e bagnava le rosee gote di calde lacrime. Vedeva stormi di rondini svolazzanti davanti ai suoi occhi che quasi volessero farle dispetto col fatto che esse potevano raggiungere Castrogiovanni e lei no. Nella città sulla montagna che le appariva di fronte c’erano gli affetti più cari, avrebbe voluto raggiungerli volando per confidarsi con loro, per chiedere consiglio, per dare sfogo alla rabbia che teneva in corpo e poi piangere, piangere e piangere ancora.
In paese non si parlava d’altro se non dell’infedeltà di don Bartolo che aveva ripreso l’antica vita. Le donne che si davano a lui non erano innamorate; quando lo erano, sapendolo ricco, pretendevano splendidi doni.
La frequenza della casa di Mariannina era molto più costosa della semplice avventuretta con donnette facili, perché le femmine che questa gli procurava erano bellissime e raffinate cittadine che non si accontentavano del normale costo d’una marchetta.
Aveva esaurito le sue riserve in denaro e già aveva venduto di nascosto presso un notaio di Caltanissetta alcuni poderi. La povera martire non sapeva niente di tutto ciò; solo i genitori e le sorelle di Bartolo erano preoccupati e si chiedevano quanto le potesse costare questa vita dissipata e a qual punto fosse scemata la dote in denaro. Finalmente i genitori si resero conto che la mancanza di eredi molto probabilmente era dovuta all’esistenza dissoluta del loro rampollo.
Si tennero più vicine alla povera Clotilde; la riempivano di doni e attenzioni; la portavano con loro a ogni avvenimento mondano o a visite a signore del loro rango.
Questo diverso atteggiamento da un canto dava qualche conforto alla sfortunata moglie, dall’altro tradiva la conferma indiretta dell’infedeltà del marito.
Una notte prossima al Natale donna Clotilde aveva finito di recitare l’ultima posta di rosario e si accingeva a mettersi a letto quando trasalì al rumore di colpi violenti battuti al portone di casa. Rimase immobile col respiro in sospensione e col cuore che seguiva il ritmo degli scossoni all’uscio; poiché il fracasso non scemava, si sentì obbligata a vedere di cosa si trattasse; si fece coraggio e si sporse al balcone per vedere cosa succedeva giù. Alla luce flebile del lampione ad olio vide ombre di più persone che si agitavano, ma non riuscì a decifrare altro. Rimase immobile incerta sul da fare, quando sentì la voce lamentosa del marito che la informava d’esser caduto facendosi male. Scese giù quasi a precipizio con la paura d’inciampare e creare altri seri problemi per via del lume a petrolio acceso; giunta in basso aprì il portone e vide il marito su una sedia sostenuto da due prestanti giovani; altre persone che seguivano il terzetto entrarono e tolsero la stanga all’altra anta del portone, fecero togliere di mezzo donna Clotilde e consentirono che l’infortunato, sempre sulla sedia sorretta, giungesse alla sua stanza da letto. Intanto sopraggiunse il medico di famiglia che era stato informato da uno dei volenterosi soccorritori.
Il dottor Federici diagnosticò una frattura ad ambedue le gambe; lo fece adagiare sul letto, dove avrebbe passato la notte alla meglio; il mattino seguente avrebbe proceduto alle ingessature.
Andati via medico e soccorritori la povera Clotilde cominciò a fare tutte le domande che di solito si fanno in questi casi; l’infortunato lamentandosi sempre tagliava corto nelle risposte.
La notte passò come Dio vuole. La mattina presto il dottore completò le due ingessature, stimando una convalescenza di non meno di quaranta giorni.
L’infortunio di don Bartolo suscitò tanto scalpore da far scatenare in paese la ridda delle più varie ipotesi, ma tutte convergenti su un fatto: il luogo dell’incidente parlava chiaro: era avvenuto in una strada (l’odierna via De Simone) nella quale il “parigino” non c’era motivo che si trovasse e dove abitava un’sua antica amante che da qualche mese era convolata a nozze con un forestiero in servizio presso un’azienda agricola locale. Le interpretazioni erano numerose, due le principali: una che all’arrivo improvviso dello sposo don Bartolo si sia buttato dal balconcino, l’altra che sarebbe stata scaraventato fuori dal marito inferocito.
Tutti i testimoni convergevano su dei punti incontestabili: alle grida di dolore e alle richieste di soccorso tutte le porte si aprirono, tranne una.
Molti vicini, passanti e i soliti nottambuli della vicina piazza richiamati dalle grida del malcapitato e dal vocio dei primi soccorritori, si misero a disposizione.
Vicini curiosi si misero di nascosto alla posta per verificare la presenza o meno di qualcuno nella casa la cui porta era rimasta sbarrata. Prima dell’alba scorsero i due sposi che quatti quatti salivano ambedue sul cavallo e andavano via.
A Natale le due famiglie si trovarono insieme e per la prima volta Bartolo, come già per antica tradizione, non onorò il tavolo da gioco del circolo.
L’infortunio era stato doloroso per tutti, in particolare per i parenti villarosani che avevano raccolto dalla piazza, dai circoli, dalle botteghe tutte le dicerie, in compenso, però erano tutti uniti e fu la più bella festa degli ultimi anni.
Quando gli sposi erano soli in casa nell’aria c’era una serena armonia; ogni tanto don Bartolo perdeva la pazienza e cominciava a “santiari”. La moglie si faceva un segno di croce e biascicava preghiere per esorcizzare le parole blasfeme di quello screditato. I rapporti intimi erano difficoltosi ma frequenti come non mai. La poveretta era dispiaciuta per l’incidente ma in cor suo pregava Iddio che quel mo-mento magico durasse anche dopo la convalescenza: donna Clotilde, malgrado avesse subito le più gravi umiliazioni era sempre innamoratissima di quell’ingrato.
Quando don Bartolo prese l’aria i primi giorni furono normali per via del bastone con cui s’aiutava. Appena però si resse bene sulle sue gambe ritornò a essere il vizioso di prima.
Un pomeriggio donna Clotilde aspettava le cognate per andare a far visita a una parente; l’abito per l’occasione era pronto sul letto; lei si stava rifacendo un leggero trucco, quando, tornando da fuori, entrò il marito. Questi si soffermò nella stanza e chiese con arroganza:
- Che cosa vuol dire questa novità?
- Cosa c’è di male? Solo tu ti devi agghindare? rispose la signora.
Di contro il marito: - Il posto della donna è in casa, essa può solamente abbigliarsi in tal modo quando esce col marito. La donna “pittata” vuole lanciare un messaggio: - Voglio fare cornuto mio marito
- Sono una donna libera, come lo sei tu! Secca rispose donna Clotilde.
A questo punto volò un manrovescio che lascio un appariscente segno nel delicato viso.
Le cognate trovarono la sventurata piangente e in uno stato pietoso. Il loro arrivo servì solo a consolare l’afflitta.
Le giornate passavano sempre più tristi e tutto rimaneva come prima, anzi peggio di prima.
Così decise di saper qualcosa sul conto del marito da persona fidata, a gnura Minica, la lavandaia, che da anni aveva servito la sua casa con assiduità e serietà.
Prima che questa si mettesse al lavoro, donna Matilde, cosa inconsueta, scese giù “nno catuiu” e a bassa voce chiese alla donna di essere sincera con lei, rassicurandola che mai e poi mai a lei sarebbero dervivate molestie a causa delle sue informazioni.
La poveretta rispose alla domanda della signora, scusandosi col dire che lei sapeva solo quello che la gente ripeteva: don Bartolo fin da ragazzo andava dietro alle gonnelle che le piacevano; che aveva avuto noie da parte di genitori o fratelli delle donne che si era “passate”; che era frequentatore assiduo della casa d’appuntamento di Mariannina che abitava alla periferia del paese, che la stessa riceveva i clienti a cui procurava le più belle donne del luogo e anche di fuori in sul far della notte.
Una mattina donna Clotilde si ricordò che le mestruazioni quel mese erano in ritardo; aspettò qualche altro giorno e non vi fu novità alcuna. Avrebbe voluto saltare al collo del suo amato per dargli la tanto attesa notizia … quando si chiese: - Ma la sua vita cambierà? Già sembrava cambiato dopo l’incidente, abbiamo trascorso una seconda luna di miele e poi …
Intanto nascose con gioia e dolore quel primissimo sintomo di nuova vita. Il suo timore massimo era che se fosse nato un maschietto avrebbe seguito la tradizione del padre e lui sarebbe stato orgoglioso d’un maschione come lui. Se fosse nata una femminuccia si sarebbe aggiunta una nuova schiava come lei.
Fuggire a Castrogiovanni col nascituro ed allevarlo secondo i propri principi morali della sua famiglia? No! La legge non lo avrebbe consentito.
Una mattina prese una decisione: - Sono una signora che porta nel suo grembo il figlio di don Bartolo: tra una vita da schiava e quella di ribelle, scelgo quest’ultima; mi farò valere. È sì, lo so, se fallisco, la mia condizione non sarà splendida, ma senz’altro non peggiore dell’attuale.
Una sera don Bartolo andò da Mariannina impeccabile nel vestito e ben profumato. La tenutaria lo avvertì che la forestiera avrebbe avuto l’incontro con i clienti solo ed esclusivamente al buio più assoluto, perché si trattava di una nobildonna di Caltanissetta il cui marito era fallito, riducendo la famiglia al lastrico con figli che dall’oggi al domani non potevano condurre neppure al minimo l’antico tenore di vita.
Nella collezione di Bartolo nobili non ce n’erano state perciò si sentiva più impegnato a non presentarsi da “paesanotto”.
Entrò nella stanza e la porta si chiuse alle sue spalle. C’era il buio più assoluto perché a quei tempi tutte le luci erano fioche e non potevano filtrare da nessuna fessura. Don Bartolo si diresse verso il lettone che ben conosceva. Non c’era arrivato che la nobile “signora” gli si parò contro e l’avvinse in un caldo e prolungato abbraccio. Quest’ approccio Bartolo lo trovò inconsueto ma originale. La donna si era presentata invisibile ma completamente nuda e mentre sfrusciava sul corpo di lui, lo andava svestendo. Il tanto navigato Bartolo, denudato dall’abile mano femminile, cominciò a sentirsi più a suo agio: dalla maestria dell’inconsueta presentazione, dalle maniere diverse delle altre donne conosciute, dal profumo per nulla comune, dedusse che si trovava di fronte una donna eccezionale, di quelle che non possono trovarsi in quelle case di provincia. Bartolo felice dedusse che l’esperienza che stava vivendo era degna delle grandi città, nelle suite di alberghi della massima categoria, insomma in luoghi che lui poteva solamente sognare e nulla più. Arrivarono al letto, si avvinghiarono, ambedue felici di quell’amplesso. Quando furono stanchi e soddisfatti don Bartolo cominciò ad accarezzare le forme che gli stavano accanto e pensava: si vede che non è una di quelle sono stato all’altezza e l’ho soddisfatta pienamente; ha partecipato con l’anima, non ha fatto finta come le altre; il suo ardore è stato uguale al mio
Tentò un piccolo colloquio con la portatrice di tanta beltà, ma la signora prima gli mise una mano sulla bocca e poi gliela chiuse con un lungo caldo bacio.
Dal momento che non poteva parlare, continuò con le sue fantasticherie e pensava al marito della nobile nissena; sapeva di essere cornuto? Era pacifico o inconsapevole?
Poi col pensiero tornava al profumo: dove l’aveva sentito? Non certo sulle donne del paese; nemmeno nei casini di Caltanissetta o di Palermo…
La donna non faceva cenno di finire la prestazione e don Bartolo pensò che per quella serata egli dovesse necessariamente essere l’unico cliente ed essendosi sentita ben soddisfatta da lui, si attardava con pieno piacere.
Giacquero ancora fra amplessi e languide carezze e così avrebbero continuato per tutta la notte, quando furono richiamati alla realtà da Mariannina:
- Sveglia, ragazzi! Sveglia!
A malincuore don Bartolo si rivestì, uscì dalla stanza era passando davanti a Mariannina e disse: - Metti ancora in conto.
Uscì. Era una nottataccia: si alzò il bavero del mantello, si coprì col cappuccio e dritto al circolo. I pochi che ancora erano al tavolo di gioco ascoltarono le meraviglie dell’esperienza fresca di Bartolo. A un certo punto qualcuno disse: - E ora basta, conosciamo bene le tue fantasie erotiche, non ci distrarre.
Don Bartolo ci resto male; voleva rispondere per le rime, ma non volle guastarsi la gioia di quella notte; rimase a fantasticare sulla sua esperienza appena trascorsa, facendo finta di leggere il giornale.
Quando uscirono tutti dal circolo don Bartolo si diresse verso casa, alla solita minestra, com’era solito dire.
Salì i primi scalini e percepì un sottile odore delizioso, mentre saliva quel delicato profumo aumentava. Allora pensò che avesse ancora le narici piene di quell’indimenticabile esperienza.
Nella stanza da letto la fragranza era più intensa. Quando si fu spogliato e s’infilò sotto le coperte da dentro gli arrivava un effluvio troppo carico che conduceva fino alla nausea.
Clotilde dormiva, Bartolo si chiese se per caso si fosse rotta sotto le lenzuola qualche boccetta di profumo; allungò le mani sotto e toccò le nude carni della moglie. Trovò strano che lei, tanto riservata e pudica, si fosse messa a letto completamente nuda.
Colto da atroce dubbio, cominciò a tastarne il corpo tutto
Clotilde fingeva di dormire e si lasciava palpare.
Bartolo perse il sonno e cominciò a riflettere sull'imprevista e strana situazione; si alzò e cominciò a passeggiare, in camicia da notte, col freddo pungente di fine inverno.
Clotilde smise fi fingere di dormire, accese il lumino del comodino e cominciò ad osservare la scena.
Bartolo le chiese: - E questo profumo?
Di rimando la moglie: - È vecchio, ma è quello che mi hai regalalo durante il viaggio di nozze, a Parigi. I buoni profumi sono come i vini, migliorano col tempo se ben trattati, non ti pare?
Bartolo ancora: - Dove sei stata stasera?
E Clotilde, serena: - Con te!
Il povero marito provato da tante esperienze tutte in una serata, restò sbalordito e non sapeva cosa dire… La moglie lo vide spasimare, perdere l’equilibrio, appoggiarsi ai mobili …
Cominciò a prendersela con Mariannina che gli aveva preparato quella trappola.
Lo rassicurò la paziente moglie: - Anche lei non ne poteva più di te, a causa del credito che diveniva sempre più enorme, tanto che lei temeva che tu non ci saresti mai riuscito a saldarlo. Ho chiuso il conto io, abbondantemente.
Smarrito, cominciò a farfugliare; la moglie gli fece cenno di venire a letto. Non ne aveva il coraggio, così cadde in ginocchio a terra e con la testa sulla sponda del letto e cominciò a gridare: - Sono uno stronzo, sono uno stronzo. Avevo l’oro e ho cercato, pagandolo bene, il piombo.
La moglie lo fece parlare e straparlare.
Il primo chiarore dell’alba li colse in quella incomoda posizione.
Alla fine Clotilde affondò la mano fra i capelli del marito; gli scosse la testa fortemente e poi:
Su! Non abbiamo più tempo da perdere più, è finita la ricreazione dobbiamo pensare alla creatura che verrà. Spero che ci porterà finalmente la felicità, non solo a noi, ma ai quattro nonni e alle zie.
Bartolo, stranito, ancora non capiva.
Hai capito, stronzo, che sarai padre? Sono incinta di te!
A quello, sempre più intronato, Clotilde urla a squarciagola:
SONO INCINTA …. INCINTA …. LO VUOI CAPIRE? …
ASPETTIAMO UN BIMBO!
La conversione di don Bartolo colpì tutti: nessuno credeva più al ruolo di premuroso padre e amoroso marito.
Come fu, come non fu, anche la parte più riservata della storia, che sarebbe dovuta rimanere segreta, è arrivata a noi.
Non per nulla si dice: niente fare che niente si sa.


giovedì 18 marzo 2010

Cchi ddici Pitru Caceci?


[Pitru è il 2° da sinistra con maglietta a righe orizzontali]

Mio zio Luigi emigrò negli Stati Uniti d’America nel 1948.
Raggiungere quel Paese allora era il sogno di quasi tutti gli italiani perché quell’alto indice di benessere era ben noto ed agognato, ma non era possibile per via di una politica d’immigrazione molto contenuta.
Lo zio poté perché era sposo d’una villarosana, cittadina americana, nata in quel paese e rientrata piccolissima in Italia con i genitori.
Zio Luigi aveva lasciato nella sua terra natìa gli affetti più cari: la vecchia madre, il fratello, le sorelle e tanti nipoti. Allora partire per l’America voleva dire dividersi “mmivinzia” e infatti non potè rivedere più la sua vecchietta.
Dieci anni dopo ci annunciò, per mezzo della solita comune lettera, una sorpresa: ci aveva spedito la sua voce registrata su un piccolo disco, di pochi minuti di durata, inciso a 78 giri. Parlare a telefono era pressochè improbabile, anche se teoricamente possibile. Non esisteva ancora nei piccoli centri una rete telefonica e l’unico posto per telefonare era all’Ufficio Postale, ma non sentii mai dire che qualcuno se ne fosse servito per parlare con l’estero.
L’emozione fu immensa perché la tecnica non solo ci faceva ascoltare canzoni ma anche la voce d’una persona cara da un’altra parte del mondo.
Da poco avevamo comprato il giradischi e così ci predisponemmo a riprodurre l’inusitato messaggio a famiglie riunite e trepidanti.
Mamma Paolina, (così chiamavamo la nonna), saggia per tanti dolori, ultimo la perdita in guerra del figlio Peppino, era l’unica che riusciva a contenere le sue emozioni.
Cominciò la riproduzione, la voce dello zio tradiva un groppo alla gola. Le sue espressioni, generiche per breve tempo, subito si rivolsero alla vecchia madre (forse presagiva che non l’avrebbe mai più rivista). I pochi restanti minuti li dedico al fratello e alle due sorelle, citò ad uno ad uno noi nipoti, a cominciare da me ch’ero il più grande…
I nostri occhi andavano alla puntina del giradischi e avremmo voluto che essa non s’arrestasse… Si era agli ultimi istanti, lo zio non aveva nessuno più da citare, quando proprio sull’ultimo solco, l’udimmo esclamare di botto:
- Cchi dici Pitru Caceci?
Il clic inesorabile chiuse il caro monologo.
L’emozione ci aveva preso, la voce del caro parente s’era spenta nell’ altoparlante, ci guardavamo in viso tra la felicità d’averlo sentito quasi vicino e la tristezza di saperlo sempre lontano.
Quando più tardi si arrivò ai commenti, qualcuno fra noi chiese che cosa ci potesse entrare nei fatti di famiglia Pitru Caceci. Mio padre, che conosceva il fratello più di noi, spiegò la “sparata” dello zio come un modo di stemperare la tensione ch’era in lui e quell’altra che le sue parole avrebbero scatenato a Villarosa.
C’era riuscito benissimo, perché lo stesso effetto non l’avrebbe raggiunto se per caso, per coinvolgere la comunità villarosana, avesse chiesto notizie, che so, … del Sindaco, quale primo cittadino e rappresentante della città tutta.
Pitru Caceci era la persona più nota di Villarosa, più della Giunta Comunale, del Clero tutto, del maresciallo dei Carabinieri, del Pretore, ….
Qualcuno, a buon diritto, si chiederà: - Ma chi era questo Pitru Caceci?
Era l’uomo più simpatico, più gioviale, più amico ed anche più buono di tutti i villarosani.
La natura aveva negato a Pitru il “ben dell’intelletto”, ma gli aveva donato un cuore grande, generoso senza attesa di ricompensa.
Di solito non camminava come tutti; correva, cantava, interloquiva con chiunque incontrasse. Le canzoni erano tutte di sua creazione e s’intuiva in esse una certa rassomiglianza con le più note in voga.
Salutava tutti e “scummattiva a tutti”. Nessuno si sarebbe permesso di mancargli di rispetto perché non lo meritava, ma anche perché da buono sarebbe diventato tutt’altra persona…
Ovviamente nei tempi in cui visse non esistevano scuole per tutti gli individui delle sue condizioni, quindi era analfabeta puro, in tutti i sensi.
Quand’era libero da impegni di lavoro, andava alla fermata degli autobus e se scendeva un villarosano con una o più valige se le caricava e l’accompagnava a casa. Se gli davano dieci lire se le prendeva, altrimenti poteva chiedere una sigaretta e non più di tanto.
Nel 1943, all’arrivo degli americani, Pitru divenne l’amico anche di loro a prescindere della cioccolata, delle sigarette Lucky Strike e di qualche scatoletta di “Meath vegetable stew”…
Quelli gli parlavano in americano e Pitru senza scomporsi colse subito il tono di quella lingua e s’inventò un “grammelot” personale, che per chi non conoscesse l’inglese o Pitru, poteva credere che il nostro avesse imparato a parlare la nuova lingua solo col frequentare gli americani.
Anni dopo provai a chiedergli:
Pitru, quantu fanu cincu ppi cincu, e lui di botto, Quaranta.
Bravu Pitru!
E sei ppi sei, e lui ancora, vinti….
Tutti ridevamo e lui con noi, felice e soddisfatto che la risposta fosse ineccepibile.
Era un instancabile uomo di fatica, soprattutto perché lavorava in allegria.
Una nota famiglia di Villarosa, che cominciò le sue fortune con l’autotrasporto, lo utilizzava nei lavori di carico e scarico, assicurandolo regolarmente per consentirgli d’avere una discreta pensione in vecchiaia. (Allora per i disabili non c’era nessun aiuto, erano un problema esclusivo delle famiglie di provenienza!)
Una sera d’autunno del dopoguerra il camion della ditta tornava da Catania con un carico di merce varia; la cabina era piena e a Pitru toccò di salire sul cassone. All’improvviso si scatenò una tempesta con lampi e tuoni da far paura; l’autista non si preoccupò tanto per Pitru perché sapeva che allo scoperto c’erano a disposizione i teloni che coprivano le merci.
Arrivati a Villarosa in garage chiamarono Pitru che non scendeva dal cassone e cominciarono a preoccuparsi seriamente. Cominciarono a temere il peggio, averlo perso in qualche brutta curva, essere scivolato dalla sponda, essersi fatto del male in qualche modo…
Tristi pensieri attraversarono la mente dell’autista e degli altri della cabina; non sapevano decidersi sul da farsi.
Essi tornarono a rovistare fra le merci: non c’era ombra d’un corpo umano.
Si stavano allontanando per andare a riferire e chiedere consiglio al proprietario dell’automezzo, quando, nel silenzio della tarda serata e dall’atmosfera tombale di quella maledetta giornata, udirono provenire dal cassone uno strano rumore; tornarono indietro e videro sollevarsi il coperchio di una cassa da morto nuova che dovevano consegnare a Villarosa. Trattennero il fiato; apparve Pitru in ginocchio sul fondo della bara che uscendo dal sopore d’un sonno ristoratore si stiracchiava e si sgranchiva.
A Villarosa ci si chiedeva spesso chi era l’uomo più felice e sulla risposta non c’erano dubbi.
Un uomo così, non è un essere qualsiasi; per tronfi e boriosi se tali individui non esistessero il mondo sarebbe lo stesso; per persone umane e sensibili in costoro si può anche vedere un disegno del Creatore.
Pitru, Caceci non era il suo cognome, non era solo al mondo; alle sue spalle aveva una famiglia che lo amava.
L’emigrazione divenne pure una necessità per Pitru; essa non colpì direttamente lui ma le sue sorelle, le quali non potendolo lasciare solo nel mondo che gli era più congeniale, lo portarono con loro in Belgio.
Ci chiedevamo a Villarosa come poteva essere la vita di Pitru in terra del Nord e si conveniva che la sua esistenza doveva essere necessariamente triste.
Le notizie che davano i paesani di lui non erano incoraggianti.
Un giorno spuntò a Villarosa Pitru. Non era più lui, era uno zombi che faceva brevi apparizioni, senza vitalità, né sorrisi, nè canzoni, … Niente! Un uomo spento s’aggirava per la piazza e le vie che furono il suo mondo.
Poi non si vide più. Poco tempo dopo giunse la notizia ch’era nell’aria: Pitru era morto.
Un’altra vittima, come Carmina a Camiola, dell’emigrazione: un emigrato per forza, in un domicilio coatto, sradicato dal suo humus sociale e in un mondo che non poteva essere decisamente il suo.

martedì 16 marzo 2010

Foto ricordo della celebrazione del centenario della nascita di Vincenzo De Simone


Vincenzo De Simone e Ignazio Buttitta, furono due importanti poeti dialettali siciliani con vent’anni di differenza del primo sul secondo. Sicuramente s’erano conosciuti a Milano dove il De Simone, lì radicato perché aveva sposato una continentale, esercitava la professione di dentista e nella sua casa di Piazzale Argentina s’era formato un cenacolo di siciliani residenti in quella città e amanti della nostra cultura.
Fra costoro ci doveva essere senz’altro Ignazio Buttitta, giovane rappresentante di commercio al Nord, perché, secondo quanto egli asserì in Villarosa in occasione della Celebrazione del Centenario della nascita del De Simone, fu presente alle esequie del più anziano conterraneo, il 12 aprile del 1942.
Buttitta doveva ritenere sprecata la presenza del De Simone nella brumosa città nordica e ne stuzzicò una reazione poetica concretatasi in, “Luntanu e prisenti”, che è la più alta e ispirata ode del Villarosano.


LUNTANU E PRISENTI
(da “A LA RIDDENA” di Vincenzo De Simone)

Gnàziu, chi fu, chi ti nisciu lu senzu
ca ti 'mmintasti ca campu luntanu
di sta Sicilia mia, ca sempri penzu,
e la portu, unni sia, 'n chianta dì manu?
Ad idda addumu lampi e sbampu 'ncenzu,
comu ca forra lu so sagristanu;
Gnàziu, e pi 'nzina ca sugnu Vicenzu,
nuddu m'avanza a stu focu supranu.

Sugnu furestu, sì, campu a Milanu,
ma haju lu cori sempri a Bellarrosa;
unni me nannu si 'nzignau viddanu,
e d'ogni spina si jhiuriu 'na rosa;
unni l'amanti a lu Cozzu e a lu Chianu
vanu cantannu canzuni di sfrosa;
e cu’ si stanca di lu so Carvanu,
acchiana a lu Cummentu, e s'arriposa.

Ch'è beddu. Gnàziu miu, lu me paisi,
‘mmenzu a li vuddi e 'mmenzu a li surfari;
ccu li pirnici 'ntra ripíddi e ddisi,
e li palummí bianchi a li chiarchiari;
a dritta e a manca fèura e maisi,
fruttiti, sipalati ed olivari;
e a cu' cci veni, ca 'un havi pritisi,
amuri e pani 'un ci nni fa mancari.

E si vidissi, Gnàziu, 'ntra giugnettu,
chi festa granni supra l'àira tunna;
li muli, ca cci dùnanu di pettu,
e lu turnanti ca li gregni arrunna;
lu caccianti ca canta lu muttettu,
lu suli ca la vampa ccì l'abbunna;
e lu gricali ccu lu friscalettu,
ca spàglia l'oru, e lu munzeddu attunna.

Guarda lu còcciu di stu furminteddu
a la tradenta di st'òmini magni:
e guarda a ddu funnali Muncibbeddu
a la sdossa di tutti li muntagni;
guarda la Pitralìa, ca fa casteddu,
e Ganci 'n facci, ca cci fa li 'ncagni:
guarda lu Sarsu e lu ciumi Mureddu,
ca stenni la spicchiera a li campagní.

E quannu annotta, Gnaziu, unni la senti
’n’orchestra, comu a chista, e st'armunia?
Tutti li stiddi a li so' firmamenti,
la luna, ca va annannu, e guarda a mia;
li papanzichi ccu li so' sturmenti,
lu jacobbu, luntanu, ca picchìa;
e li cani, ca abbàjanu a li venti,
pi dari sfogu a la so fantasia.

E 'ntunnu 'ntunnu ‘ntra timpi e sbalanchi
li paisa, ca lùcinu a puddara;
l'Armena, e Resuttana a li so' manchi,
e San Catallu dintra la quadara;
Cartanisetta ccu li gìglia stanchi,
Petrapirzia appisa a la ruccara;
e la Serra, scruscenti a li lavanchi,
c’accorda li suspira a la jhiumara.

Gnàziu, li senti sti vuci e sti chianti,
ca gridanu piatà di suttaterra?
Li surfarara su’, li nostri santi,
ca nun hannu 'nnimici e sunu ‘n guerra;
trapàssanu la vita a li vacanti,
la morti li smacedda e si l'afferra;
Gnàziu, li senti st'armuzzi vramanti,
pi crucifizziu di la nostra terra?

Ma nesci a l'àiru, e guàrdati st’arbura
‘ntra celu e celu, senza nudda tacca;
Gnàziu, guarda la terra, ca sbapura,
senti lu gaddu, ca la notti assacca;
la lòdana, ca a l'àutu s'abbalura,
e canta a Diu senza nudda stacca;
salutamu lu re di la natura,
ca codda a mari e a li muntagni spacca.

E guarda ancora, Gnàziu Buttitta,
Castrugiuanni e poi Calascibbetta;
e l'Artisina ccu la so burritta,
e munti Giurgu ccu la so scupetta;
guarda tutta sta terra biniditta,
ca sempri chiama, e ammàtula m'aspetta;
ed ora ca guardasti, canta e pitta,
comu l’òcchiu ti joca e l'arma detta.

venerdì 12 marzo 2010

SALVATORE GIOIA

PARTE I^

La più grande promessa villarosana a livello nazionale, pronta per quello internazionale, fu stroncata sul nascere da un crudele destino.
Del grande tenore, al suo esordio sulla scena nazionale, restano poche tracce, e queste per lo più sulla Rete, dove sono in vendita antiche registrazioni del Nostro, accomunato con i più grandi e più famosi cantanti lirici del tempo.
Il ricordo di lui vive ancora nella memoria dei concittadini, di ennesi e di nisseni d’una certa età estimatori del bel canto, di critici musicali che ne poterono valutare le capacità canore.
Ricordo negli ultimi anni ’50 d’avere visto in TV la sua partecipazione da protagonista in un’opera lirica di cui non ricordo più il nome.
Salvatore Gioia, Totò per gli amici, era nato nel 1933.
Biondo, occhi azzurri; statura fisica medio-bassa, ma con tutti i muscoli ben sistemati nel corpo. Ottimo calciatore, impareggiabile in palestra sulle parallele; perfetto nelle prestazioni e sincrono nei movimenti più virtuosi; concludeva le sue performance ginniche senza stonature e in perfetto stile.
Fummo compagni di classe dalla terza media alla quinta ginnasiale; alla prima liceo a Caltanissetta eravamo in sezioni diverse. La scuola non era fatta per lui: c’era qualcosa che lo bloccava e non riusciva a profferire parola nelle interrogazioni, forse per una forma d’estrema timidezza che nessuno s’è saputo mai spiegare. Era però bravissimo nel solfeggio, che da parte mia odiavo tanto.
Un giorno in quarta ginnasiale il prof. Paternicò di matematica, avendo davanti Totò col gessetto in mano e negato totalmente a scrivere qualcosa, conoscendone, fra le altre, anche le meravigliose doti calcistiche, gli chiese di spiegargli la struttura del campo di gioco e la funzione dei vari giocatori… Un altro Totò esplose con un fiume di parole ben appropriate e per la prima volta lo sentimmo parlare in classe, in situazione… d’interrogazione.
Ma a lui si perdonava tutto per la bontà d’animo e la dolcezza del suo carattere, soprattutto perché quando c’era di cantare un pezzo lirico, anche senza accompagnamento musicale, incantava ugualmente gli astanti con sua voce limpida, cristallina, dolce e senza artifizi: Una furtiva lacrima e Il lamento di Federico ed altri pezzi ancora erano i suoi principali cavalli di battaglia.
A Caltanissetta si diffuse subito la notizia di questo straordinario giovane interprete e tanti amanti della lirica e del bel canto lo invitavano in vari locali soprattutto per ascoltarlo e ne restavano ammaliati…
Poi lo scoprì Enna dove ancor oggi ci sono antichi suoi estimatori che non si rassegnano alla grave perdita.
Così quando si ricordano in genere attività artistico-culturali del passato, non ci si dimentica di citare «il gran tenore Salvatore Gioia che li commuoveva fino alle lacrime col suo "Lamento di Federico", "Una furtiva lacrima ", l’”Ave Maria”»; e ancora, quando si rievoca il periodo radioso degli anni ’50 della lirica al Castello di Lombardia, la mente riporta al «mito di un personaggio quale il tenore Salvatore Gioia, frutto proprio di quel mondo e di quella tradizione».
Qualcuno, pur senza malizia, potrebbe pensare che intorno a questa sfortunata figura si sia potuto formare un mito alimentato da uno spirito di perdonabile campanilismo. Questo potrebbe anche accadere, ma nel presente caso questa tentazione non esiste nemmeno.
Le registrazioni in vinile e in nastri ancora esistenti sono la prova evidente della grandezza del nostro tenore che qualsiasi intenditore può giudicare ancora oggi.
Ma basta cercare sulla rete il nome del nostro appariranno una miriade di cd di pezzi cantati coi più grandi del suo tempo in vendita su Ebay, Amazon e in altri siti.
E poi non sarebbe mai casuale l’accostamento in dischi e cd d’un comune tenore di provincia con i più grandi nomi della lirica, quali Giuseppe Di Stefano, Ebe Stignani, Magda Olivero, Tito Schipa e tanti altri, sempre illustri.
 Gioia interpretò opere quali “L'Ajo nell'imbarazzo” di Donizetti, la “Nina”, o sia “La pazza per amore” di Paisiello, “L'italiana in Londra” di Cimarosa, coi più in vista cantanti lirici del tempo. Egli interpretò inoltre un'opera  impegnativa quale “La Sonnambula” del nostro Bellini accanto al soprano Fiorella Ortis, con l’Orchestra della Società dell’Opera diretta da Ferruccio Scaglia. Le principali arie sono sono registrate sul CD A.1717 della UTET.
Raccolgo dalla rete il seguente giudizio, in inglese (lingua che purtroppo non conosco tanto), che mi appare alquanto lusinghiero:
«For me he is a real find, with beautiful timbre (reminiscent of e.g. Ferendinos, Gigli, Tagliavini) and a welcome reduction in the use of aspirated vowels that intrude with many singers! Information on his career, which was evidently short, is sparse. Apart from the “Sonnambula” duet (unknown date), and the 3 performances at the “Martini & Rossi” concert in January 1958, Gioia appeared in a revival of Rossini’s “Count Ory” at the Piccola Scala the same month. I have on order a live recording of him in Donizetti’s “L’Ajo Nell’ Imbarazzo”, sung in Bergamo on 21 October 1959 (with Gatta). An Italian newspaper said, “He may be destined to inherit at least a part of Schipa’s legacy, if he studies plenty and doesn’t get bigheaded”. Apparently, by the middle of the 1960s he was already talked about as a “promise who has not fulfilled expectations”, due to “mental disorders”. Later an Italian newspaper reporter said, “Gioia, who at the time had to compete with e.g. [Cesare] Valetti in his prime, and a very fresh and extrovert [Luigi] Alva (although technically inferior), would have no difficulty in coming to the fore if he were to be heard today, deploying technical skills and expressive resources”.
Gioia’s performance of “Una furtiva lacrima” demonstrates the lost art of bel-canto in its long-breathed lines, flexible pacing and subtle shading. The “Manon” aria is (despite a timing slip near the start) as good as most, e.g. Cazette, Midgley, Patzak. For me “E la storia” is especially superb, interpreted with that plangent tone and ‘longing’ approach so inherent in the words and music. The control and solidity of voice is the more remarkable when one notices that these are live performances. The Milan audience seem to appreciate him, so it is the more disappointing that his career did not develop — I feel he would have been a top-class artist. In the duet, he produces some of the most attractive Italianate tenor singing on record, and his soft tone is almost feminine — not a crooning sound like Gigli and not husky like Schipa, but an open sound like di Stefano but smoother. After a flat 1st note Fiorella Ortis does well, blending accurately and pleasantly with her partner, to present a version that equals more popular ones e.g. Pagliughi / Tagliavini.»
Discography of Salvatore Gioia (@July 2003):
- 3 arias (“Martini & Rossi” concert Milan; ® January 1958).
- The duet ‘Prendi l’anel ti dono’ from “La Sonnambula” (Bellini) (® unknown; with Fiorella Ortis).
- “L’Ajo Nell’ Imbarazzo” (Donizetti) (live Bergamo; ® October 1959; with Dora Gatta).
- “L’Orso Re” (Trecate) (live Rome RAI; ® unknown; with Caterina Mancini).
- “Nina” (Paisiello) (‘CETRA’ rec; ® unknown; with Dora Gatta, Agostino Ferrin, Giuseppe Zecchillo).

[Segue]

Foto ricordo con Salvatore Gioia

SALVATORE GIOIA

PARTE II

L’ultima volta che incontrai Totò fu nel 1977; era venuto per qualche giorno dalla casa di cura a Villarosa e subito gli amici di Enna gli proposero un recital che egli portò a termine degnamente. D’allora non tornò più. Di lui avevo notizie dal caro e compianto Alfonso Distefano che, abitando a Priolo, aveva più opportunità d’andarlo a trovare.
Una mattina d’estate, da poco Totò aveva chiuso con questa vita, mi godevo il sole sulla spiaggia di Naxos e accanto a me faceva altrettanto un signore più giovane di me. Mi colpì di lui il fatto che diversi giovani lo andavano a salutare chiamandolo “maestro”. Non nascondo che avevo gran curiosità di saper chi fosse, ma non osavo far domande. Fu invece lui che ruppe il ghiaccio e si cominciò a parlare del più o del meno. Appena seppe ch’ero di Villarosa gli s’illuminò il viso e mi chiese se avessi conosciuto Salvatore Gioia. Seguì un prorompere di belle cose sul nostro tenore.
Il mio interlocutore era il tenore giarrese Musmeci. Gli chiesi se avesse avuto modo di aver conosciuto personalmente Gioia e mi rispose di no; però ne aveva ascoltate alcune registrazioni e a lui ne aveva parlato, con indicibile entusiasmo, un suo grande amico di Roma, critico musicale. Non ho più certezza del cognome di quest’ultimo, ma quando poco tempo dopo ho letto la recensione che segue il cognome Gualerzi parve che mi dicesse qualcosa.
In quel tempo un mio amico ammiratore di Totò Gioia mi prestò per registrarmelo un LP, Fonit Cetra LMR 5024, del 1981. Esso conteneva brani di grandi tenori e soprani e del Nostro era presentata una registrazione dal vivo d’un Concerto Martini & Rossi del 1958.
Io copiai della copertina il testo di presentazione del disco che di seguito trascrivo:
«Destinato forse a raccogliere una parte almeno della eredità di Schipa (se studierà ancor parecchio senza "montarsi")». Così un giovane cronista di nome Giorgio Gualerzi, nel marzo 1958, scriveva a proposito di un giovane tenore (forse suo coetaneo), Salvatore Gioia, che si era esibito nel concerto Martini & Rossi del 27 gennaio precedente. Di quella serata Gualerzi, ormai maturo d'anni e di esperienza, ritrova ora con interesse e sincera commozione la preziosa testimonianza in questo disco. Esso giunge in buon punto a ricordare, a quanti 1'avevano dimenticata, la fugace apparizione del giovane e promettentissimo tenore Gioia: un'autentica meteora, al punto che non si riesce a sapere donde venisse (forse dal Sud, almeno come origine) nè, addirittura, se ancora appartenga al mondo dei vivi.
Il povero Gioia non ebbe infatti il tempo di "montarsi" poichè, sembra a causa di disturbi mentali,già a metà degli anni '60 si parlava di lui come di una promessa non mantenuta. Nè d'altra parte le scarse presenze teatrali di cui ho notizia (la più significativa una ripresa del Conte Ory alla Piccola Scala nel gennaio 1958, giusto in coincidenza con il "Martini & Rossi") autorizzano a parlare di vera e propria carriera.
Certo è che il Gioia, mentre ai suoi tempi doveva vedersela, ad esempio, con il migliore Valletti e con un Alva freschissimo e assai “spondato” (anche se tecnicamente a lui inferiore) riascoltato oggi, non avrebbe avuto difficoltà a emergere, imponendo le doti tecniche e le risorse espressive di un canto non alieno talora da qualche zuccheroso manierismo e ancora affidato alla prevalente suggestione di una giovanile fragranza timbrica (pressoché esemplare mi sembra sotto questo profilo la sua "furtiva lacrima", ottimamente accompagnata dal compianto Ferruccio Scaglia) che fa insistentemente pensare a certi tenori "leggeri" del primo '900. Prima di chiudere voglio ancora insistere su un fatto incontestabile: Salvatore Gioia da più di 40 anni non calpesta le scene che frequentò per brevissimo tempo. Gli LP che esistono in molte private collezioni e i CD che anche oggi sono in commercio, specie sulla Rete, riportano numerosi brani del Nostro che in altri contesti è assolutamento ignoto, assieme ai più grandi nomi della lirica internazionale".
 Mi chiedo: in gloria di chi o per interessamento di chi sarebbero ancor oggi inserite fra quelle dei grandi le sue liriche se il Gioia fosse stato semplicemente un mediocre?
 Quale produttore rischierebbe di deturpare una compilation inserendovi un perfetto sconosciuto, quale al momento egli resta ancora?
Nel vol. 24, in vendita su Amazon, è citata la Milan Radio Symphony Orchestra Orchestra e Coro di Milano della RAI Milan RAI Orchestra and Chorus Turin Radio Symphony Orchestra & Chorus con Magda Olivero, Margherita Carosio, Maria Callas, Rosanna Carteri, Beniamino Gigli, Carlo Bergonzi, Gianni Raimondi, Giuseppe di Stefano, Mario del Monaco, Salvatore Gioia, ultimo perchè l’unico privo di fama, ma da non poter essere escluso per la dolcezza della voce e per la purezza del timbro.
Voglio intensamente sperare che con questo mio intervento io abbia fatto cosa gradita ai villarosani che conobbero Totò Gioia, a quelli che ne hanno sentito parlare e al resto di essi, presenti ed emigrati, che pur non conoscendo questo loro concittadino amano il loro paese e si interessano della “storia” dei villarosani.
Da questo nostro sito lancio una proposta all’Amministrazione comunale, quella di intitolare una via o una piazza della nostra cittadina a questo grande e sfortunato suo figlio.
È il meno che possiamo fare per ricordarlo degnamente negli anni a venire.

giovedì 11 marzo 2010

Questa che segue è una poesia di Stefania Montalbano, poetessa e pittrice, nata in Villarosa nel 1918 e morta nel 1973. Essa aprì gli occhi a Villarosa ma poi si formò a Catania; come De Simone sente forte nel cuore la nostalgia del suo paese: grasta di bàlacu lo chiama. Vivendo a Catania, il suo dialetto perde buona parte della "villarosanità", ma resta sempre innamorata del suo paese. Ella in questa poesia canta un concittadino, ultimo nella scala dei valori del perbenismo borghese, un “intoccabile”.
I Ciciriddu erano villarosani poveri in tutti i sensi; l'ultimo della famiglia è morto qualche decennio fa e visse in maniera più dignitosa per via dei tempi cambiati e perchè ha trovato persone che l'hanno saputo ben orientare; un altro fu Càrminu, di lui vorrò dire qualcosa sulla sua vita in seguito.
La poesia parla di Catinu, che io non ho conosciuto, morto negli anni '30.

CICIREDDU
- San Giseppi...
Facitimi muriri...
- Un lamentu, un fetu...
e li pidocchi a migghiara...
Cicireddu.
La to vita fu 'n lamentu dulurusu
na chiaja viva
ca nuddu cani
cunurtò di frati...
Nuddu.

E li bizzocchi sciaurusi di 'n cenzu friscu,
ccu li curuni di lu rusariu
ca pinnevanu ppi cumparsa
si stringevanu lu sciallu
ppi non lu scifiari,
quannu affriddatu
ti vidivanu
'mpiducchiari li scaluna di la Matrici.
E lu parrinu
nun s'accalava
mancu ppi guardariti.
E li carusi 'nnuccenti
facennuti vidiri lu pani:
- Ti lu dugnu
quannu tu dici: San Giseppi
facitimi muriri. -
'Nuccenti di lu jocu
'nfami,
pirchì nuddu nni 'nzignava
ca puru chiddu era un fratuzzu nostru svinturatu.

Eratu di 'n paisi
dilicatu
unni la natura è na sciurera.
Villarosa!
Conca di surfari!
Eratu nostru
comu li nostri peni.
Addumannavatu pani
casi, casi.
Eratu 'n santu
pirchì lu Cristu 'ncruci
ti fici cicireddu senza macula.
Un passareddu nudu, affrittu e sulu.
(Comu 'n canuzzu stancu, assicutatu...)

Poviru frati nostru
Cicireddu...
Quantu tempu passatu!
Penzu
a ddi duminichi matinu.
Davanti l'artaru, tuttu paratu
a lu parrinu...
La surpiddizza lucenti, arraccamata...
Diceva iddu:
- Biati li poviri di spiritu!
iddi suli ponu iri 'n celu...
Li puvireddi,
sunu lu Signuri
ca veni nudu:
nun l'arrimmuttati. -
Ma quannu videva a tia
cangiava strata.
Lu sagristanu
poi, t'assicutava.
Ora si' mortu.
Tuttu ppi tia finìu.
'Nn celu ci si?
Dda ccu San Giseppi
unni la fami chiamava la to sorti?
Cu sa' si 'n jornu
'ncelu lu Signuru
nni dici forti:
- Iu era lu Cicireddu
strazzatu, piducchiusu ca trimava...
iu, era Cicireddu e m'ammuttasti! –

.......................................

Cca tuttu è fermu
cumu lu lassasti.
Lu paiseddu, grasta di bàlacu,
passa li jorna ammenzu a lu chiddìri.
Supra la terra ca ti mancia l'ossa,
forsi na margherita ancora spunta...
ji
arricurdannu la to amara sorti,
ca nica, troppu nica
nun capeva,
oj
t'addumannu scusa.
Si.
Ppi tutti.
Ch'eramu tinti, nun sappimu capìri.

martedì 9 marzo 2010

12 LUGLIO 1943:
”ammeci di gelatu… bummi!

Ho da poco comprato in contrada Quattro Aratati un pezzetto di terra sul quale sto facendo costruire una piccola casa.
Sono legato a questa zona per motivi sentimentali perché a 150 metri da lì e sulla stessa dorsale trascorsi, eccetto uno, i bei momenti della mia infanzia insieme coi miei cugini.
In quest’ultima primavera, in attesa della concessione edilizia, passavo il tempo a far qualcosa, quando attrasse la mia attenzione un aereo che volteggiava a bassa quota. Nulla di strano; solo che ad un tratto sentii percorrere un brivido per la mia schiena. Lì per lì non mi seppi spiegare questa strana percezione, quando il filo della memoria mi trascinò a 64 anni prima nella casetta costruita a secco col tetto di canne ch’esisteva lì presso e mi rividi disperato, in mutande, con un Crocifisso in mano e una coperta ripiegata in testa, a pregare sotto il crepitio delle mitragliatrici.
Eravamo alloggiati in quella campagna alla meglio dal sabato precedente; quella sera mio padre e mio zio, dalle voci che c’erano in giro, avevano intuito ch’era successo qualcosa di grave. Decisero che si andava in campagna; ognuno di noi aveva il fardello adatto all’età e alle capacità, con mia nonna sofferente e quattro bambini di cui due lattanti. Si andava ovviamente a piedi, l’auto allora l’avevano a Villarosa il tassista e, forse si o forse no, qualche figlio di papà. Si andava al buio e in silenzio; s’udiva monotono il rumore d’una lunga colonna d’autocarri militari italiani. I grandi chiedevano ai soldati che cosa era successo e tutti davano la stessa risposta: - Non sappiamo nulla, l’ordine è di andare verso est.
La domenica mattina per noi ragazzi fu un giorno di festa, mio zio aveva persino montato davanti all’uscio della casetta un telone che facesse ombra ai bimbi; intanto i grandi si davano da fare a sistemare le poche cose nell’esiguo spazio.
Ritorniamo a lunedì 12 luglio, sesto compleanno di mio fratello. L’annuale avvenimento si solennizzava con un cono gelato, ovviamente solo per il festeggiato. Così mio fratello chiedeva insistentemente quando si andava in paese per il gelato d’obbligo.
A Villarosa ancora la guerra non l’avevamo vissuta, ma gli sfollati dalle grandi città raccontavano dei bombardamenti che si accanivano principalmente sulle città portuali e sulle stazioni ferroviarie. Una certa signora Lisacchi, sfollata da Palermo e anziana come mia nonna, aveva detto che quando fioccavano le bombe circondavano il capo con un morbido cuscino. Io non capivo a cosa potesse servire un cuscino: lo capii solo da grande: poteva solo attutire la caduta di qualche calcinaccio e nulla più.
Nondimeno quella mattina, 12 luglio, dal momento che non ero arrivato a conquistare un cuscino mi arrangiai con un coperta, non si sa mai.
Aerei inglesi stavano bombardando e mitragliando una colonna di automezzi tedeschi, che come quelli italiani del sabato sera si dirigevano sempre verso est.
Molti i vicini che erano accampati intorno e senza casa vennero a rifugiarsi presso di noi. Lascio immaginare la disperazione e il pianto dei bambini, l’angoscia delle mamme rimaste sole in quanto gli uomini erano in paese a procacciare del cibo …
Un solo uomo se ne stava tranquillo seduto su una sedia. Faceva tanta rabbia alle donne che lo invitavano a dar qualche consiglio. Lui spiegò che era reduce dalla Russia perché ferito e mostrava alcune delle cicatrici sul braccio ancora rossastre e aggiungeva che per lui tutto quello che stava capitando era niente al confronto di quanto aveva provato prima in quella terra fredda e lontana. Si trattava del signor Calogero Casale, ex postino, scomparso qualche decennio fa.
Andiamo a mio padre e mio zio che si precipitarono verso la campagna consapevoli del pericolo che incombeva anche su di noi, a 40 metri dalla statale n.121: la preoccupazione era molto fondata perché ad incursione finita si trovò un grosso ramo dell’ulivo, che incombeva sulla casetta tranciato di netto.
Appena fuori del paese, al bevaio, incontrarono piangente Serafino Russo, l’ex vigile. Mio padre gli andò incontro perché, a parte lo slancio umano verso una creatura disperata, si trattava del figlio di sua cugina, il cui terreno per giunta era confinante con quello in cui ci trovavamo noi. Serafino singhiozzando spiegò che i suoi erano tutti morti: per fortuna era solamente sconvolto dalla gran paura, in realtà erano vivi ma al momento nessuno lo sapeva. I miei si precipitarono, con lo stato d’animo che lascio immaginare, per la trazzera sotto il bevaio, scegliendo di fare un giro largo per evitare lo stradale martellato dagli aerei, lungo il vallone finirono alle Vignegrandi, al Cozzolampo e di qui alla casetta, dopo circa un’ora. Il primo ad arrivare fu mio padre ch’era più magro e più leggero, fece una rapida conta delle persone care e si buttò s’una sedia e a gesti rassicurò che mio zio sarebbe arrivato a poco.
A tempesta sedata fu mio fratello, convinto d'aver perso la sua speranza, a rompere il silenzio con una sconsolata frase passata subito al lessico familiare:
Ammèci di gelatu… bummi!

domenica 7 marzo 2010

Il canto che segue non è di De Simone ma citato dallo stesso in "Bellarrosa: Uomo serio", a pag.149. Perciò lo voglio riproporre perchè esso è tipico della cultura mineraria, fatta anche di "vapparì e cutedda".
Il titolo va interpretato, "alla maniera degli zolfatai".

A LA SURFARARA


'Nti na vanedda tignu 'na spiranza,
ca lu me cori a tia sempiri penza;
si cc'eni 'nquarcaduni ca s'avanza,
vinissi 'nfacci a mia di prisenza;
s'è camurrista, cci pirciu la panza,
'n galera mi nni vaju all'accurrenza;
ca 'nti sta manu tignu la lanza,
e 'nti chist'antra, pistola e prisenza.

sabato 6 marzo 2010









RICORDO DI CARMELO D’ACCARDO
(Carminu Accardu)

Da ragazzo gradivo ascoltare i grandi, non tanto per morbosa curiosità, quanto per conoscere esperienze e fatti del passato.
Ricordo don Carminu Accardu, il poeta. Mi soffermavo lì presso a lui ogni qual volta lo vedevo in compagnia d’altri perché sapevo che di lì a poco sarebbe esploso un gioco d’artificio di poesia dialettale, che avrebbe inondato tutt’intorno.
Ricordo tanti piccoli rimatori volenterosi che si volevano cimentare con lui; si preparavano un mottetto, sperando che si presentasse l’occasione proprizia per coglierlo di sorpresa.
Invano!
Don Carminu, apriva le paratie del suo invaso, e sommergeva l’uditorio ad ondate successive di arguzie poetiche che sarebbero state da registrare, se fosse stato già a disposizione tale strumento.
Colpiva la pluralità delle immagini che gli fluivano spontanee ed azzeccate; non una era pleonastica, non una si smorzava o decadeva.
La vena poetica, la fantasia, la stessa prosa, che poteva non essere il suo forte, diventava avvincente.
La sua vena estemporanea era suggestiva ed affascinante, ma quando si sedeva per scrivere diventava ridondante e volendo dire tanto cadeva nella prolissicità tipica dei poeti popolari.
Ero ancor meno di ragazzo ed ho assistito ad una manifestazione culturale pubblica all’aperto. Gl’interventi di intellettuali e sacerdoti erano corposi e pacati, ma quando prese la parola lui, fu un torrente in piena.
Non ricordo più il fluire dei discorsi che capivo perfettamente malgrado l’età poco più che infantile, ma il mio unico ricordo rimasto fu quello di un banalissimo avvenimento.
Il poeta raccontava di un 19 marzo della sua infanzia, festa di San Giuseppe, quando allora si usava, per grazia ricevuta, che si preparasse per quel giorno (a parte la Tavola di san Giuseppe) una caldaia di pasta, lenticchie e finocchietti di campagna che si distribuiva a poveri e a chiunque altro si presentasse. Il piccolo Carminu ebbe il suo piatto di creta pieno di minestra, s’allontanò in disparte per consumarlo, quando sul fondo toccò col cucchiaio qualcosa di duro.
Quel che segue era senz’altro frutto della sua vulcanica fantasia, ma ai poeti si perdona tutto. Quello che conta è il modo d’esprimersi, la scelta dei tempi, la creazione dell’attesa, il susseguirsi delle ipotesi, la cattura dell’attenzione dell’uditorio…
Cos’era il pezzo in fondo al piatto?
Tante le ipotesi, uno il desiderio…
E se fosse un pezzo di carne con osso?
Il poeta enucleava le sue sensazioni quasi le provasse in quell’ istante e intanto faceva assaporare all’ uditorio l’agognato premio sfuggito al mestolo dell’apparecchiante.
Quelli erano tempi duri, la carne era sulle mense dei poveri contadini una rarità e sempre in minima quantità, talvolta forse solo sognata…
Qui il colpo di teatro: si trattava di uno dei cocci di tegola che si mettevano nel fondo della caldaia per non fare appigliare il cibo!
Di queste trovate, tutte argute e paradossali ne aveva tante e gli venivano spontanee e fluenti come se fossero comuni, nell’ordine dei fatti del giorno.
Ai bambini e ai poeti sono concessi tali svolazzi di fantasia!

IL MARE A VILLAROSA



Mentre osservavo la riproduzione del quadro della signora Santina Cannata, la visione del lago ritratto m’ha fatto andare indietro con la memoria a 60 anni prima.
Il protagonista di questo mio ricordo è un certo Gnaziu, villarosano che aveva lasciato il paese per Enna senz’altro prima della mia nascita, perché di lui non avevo sentito parlare prima ed in verità non seppi nulla in seguito.
Egli, industrioso e piccolo sbriga faccende nel capoluogo, era sostenitore accanito di un personaggio politico di rilievo in quel momento, tale comm. Paolo Savoca,  sindaco repubblicano del capoluogo. Sulla scia del grande politico meridionalista Napoleone Colajanni, ennese, il Partito Repubblicano Italiano in quella città era forte in quel tempo, anche se per poco ancora.
Nelle prima elezione del Parlamento repubblicano del ’48, il Savoca era candidato alla Camera dei Deputati.
Gnaziu si sentì in obbligo di tenere nel suo paese un comizio a sostegno del suo candidato.
Io quattordicenne, non sapevo nulla del personaggio Gnaziu, perciò accettai come normale la frenesia di alcuni che si preparavano al grande evento e nello stesso tempo con maggior curiosità.
Io seguivo quasi tutti i comizi, come del resto tantissimi italiani, e mi attendevo qualcosa di straordinario considerati i preparativi.
Gnaziu, circondato da seriosi fiancheggiatori, apparve finalmente sul balcone soprastante l'attuale bar Leone, su uno dei Quattro Canti.
Gli applausi si susseguivano fino al punto di bloccare il fluire delle argomentazioni del comiziante. Questi appariva emozionato per l’ardore dei suoi concittadini. Alla fine di uno dei più calorosi applausi ci fu un istante di silenzio, ovviamente programmato, e un signore dalla voce stentorea gridò:
- Vogliamo la Stazione alle porte della città!
Gnaziu che, giulivo e confuso com’era non capì il contenuto della richiesta, ma dal momento che era risaputo che in tempo di elezioni si promette tutto di tutto, solennemente gridò:
- E l’avrete!
L’entusiasmo appariva al massimo; io da parte mia pur intuendo che tanta bagarre  poteva essere fatto per celia, cominciai ad avere conferma del mio sospetto riflettendo a come si poteva far salire un treno su per  le curve di San Giulano…
Nella successiva pausa seguita ad altro delirante applauso, il solito cittadino col vocione la sparò più grossa ancora:
- Vogliamo il mare a Villarosa!
Gnaziu ancora più ubbriacato dall’ entusiasmo dei suoi concittadini e più stordito di prima, promise fermamente:
- L’avrete!
La piazza era tutta una festa, l’ardore era al massimo, il poverino volle concludere e gridò con tutto il fiato che gli restava:
- Per il bene di Villarosa, votate e fate votare il comm. Paolo Savoca! Arrivederci al 19 aprile sera!
Sul balcone Gnaziu fu preso d’assalto con abbracci e baci; spuntò un mazzo di fiori di campo che gli furono offerti e che lui pimpante agitava per farlo vedere alla folla osannante.
Finalmente Gnaziu col codazzo dei “sostenitori” scese giù.
Un tale, serio in viso (dicevano che era il cognato), si avvicino al comiziante e lo voleva trascinare fuori dal seguito, ma Gnaziu si schermiva perché voleva ancora ringraziare il suo popolo… il signore gli sussurrò qualcosa all’orecchio e con più decisione se lo tirò fuori della piazza.
Rimase proverbiale nei decenni successivi il mare promesso da Gnaziu ai suoi concittadini.
Finchè un giorno, dopo tante lotte, s’inaugurò il lago sulla Diga di Villarosa.
Quanti fummo presenti a quel famoso comizio del ’48, commentavamo:
- Abbiamo riso di Gnaziu e invece il “mare” è arrivato per davvero!

venerdì 5 marzo 2010

CÀRMINA

I concittadini d’età intorno alla mia e specialmente se cresciuti nel rione Cavour, zona “Cozzo” e “Vasca”, si ricorderanno della figurina gracile e sdentata di Càrmina, detta a Camiola.
La sua espressione semplice ed indifesa tradiva una condizione di minorazione psichica.
Viveva in un catujiu, che aveva riempito di bacinelle e vasi da notte di ferro smaltato che la gente buttava per via dei buchi che l’usura e il tempo vi avevano praticato: poverina trovava uno spreco tutta quella roba buttata via!
Era sempre in giro in cerca di qualcosa da mangiucchiare e da raccogliere.
Mia nonna si serviva di lei per qualche semplice commissione, tanto per farla sentire in qualche modo utile.
Giunse la guerra, la situazione alimentare era tristissima, ma a Càrmina, sola al mondo, non mancò l’essenziale che era assolutamente minimo.
Non era vecchia la sventurata ma lo stato d’abbandono generale la faceva apparire tale.
Negli ultimi tempi della sua esistenza, la si vedeva appoggiata ad un muro a rimettere quanto teneva nello stomaco. Si pensò che la causa fosse dovuta semplicemente all’ingerimento di cibi guasti.
Le vicine di casa appena una mattina non la videro uscire come d'abitudine temettero il peggio ed informarono le autorità; fu trovata morta.
La fine di Càrmina dispiacque a quanti la conobbero.
Fu in quell’occasione che mia nonna ci raccontò la triste storia della sventurata.
Era l’ultima nata d’una famiglia povera, i fratelli tentarono la fortuna negli USA quando la bimba era molto piccola e pertanto non furono in grado di valutarne l’insufficienza mentale.
Càrmina cresceva bella nei lineamenti ma trascurata in tutto il resto.
Rimase orfana adolescente e si arrangiò come poté, senza chiedere soccorso ai fratelli.
Un giorno il postino consegnò a Càrmina una busta. Corse dalla vicina che si mostrava più premurosa nei suoi riguardi; quest’altra poverina era pure analfabeta, ma trovò l'ardire d’affrontare una signora d’altra condizione che sapeva leggere e scrivere.
La busta oltre alla lettera conteneva una grossa banconota in dollari.
Nella lettera era spiegato che un loro amico polacco, intendeva prendere in moglie una brava donna siciliana, perché le americane non erano adatte a gente modesta quali gli immigrati.
Chiedevano pure una fotografia per mostrarla al futuro sposo.
Tutto il vicinato si mise a disposizione racimolando pezzi di varie stoffe per rabberciare un abito degno d’un futura sposa americana; la portarono quasi di peso presso lo studio del fotografo don Salvatore Profeta, che era maestro nel ritocco.
Il risultato fu l’effige d’una splendida damina che ammaliò il futuro sposo solo a vederne l’immagine sulla carta.
I fratelli si fecero carico di tutte le spese e giunse il momento che Càrmina fu rilevata da loro al porto di New York.
La mancanza del minimo di vivacità fu addebitata alla timidezza, al nuovo ambiente del tutto differente da quello del Centro-Sicilia e alla mancata conoscenza della lingua inglese da parte della giovane.
I fratelli a ripetere che col tempo si sarebbe “sfacciata”, lo sposo a sperare che imparasse presto la lingua. Intanto se n’ era innamorato ancor più solamente a vederla, perché vigeva anche nel Nuovo Mondo la regola siciliana che la promessa sposa non si poteva nemmeno sfiorare.
Le nozze furono celebrate con lo sfarzo che poteva addirsi ad emigranti.
Passarono molti mesi e giorno dopo giorno le speranze apparivano sempre più deludenti; si fece strada nella loro mente il sospetto che i motivi erano ben altri.
Lo sposo la ripudiò; i fratelli la rimisero sul bastimento, per l’Italia.
Penso che essi si saranno ricordato ogni tanto di mettere qualche dollaro in una busta, ma allo scoppio dell’ultima guerra, divenuta l’Italia nemica degli USA, il modesto sussidio si esaurì di necessità.

giovedì 4 marzo 2010


CU L'AVI L'AVI DISSI BLANNINU

Fin da bambino, ogni tanto sentivo una frase che mi sembrava lapalissiana e addiritura sciocca: Cu l’àvi l’àvi, dissi Blanninu.
Non osavo esprimere il mio sospetto perché percepivo che senz’altro mi sbagliavo io e non di certo le persone grandi che proferivano quella che a me appariva un’ovvietà.
Man mano che crescevo, continuavo a sentirla, ed io ci riflettevo sempre più per cercare di scoprirci il senso occulto che ancora mi sfuggiva.
Col tempo e la maturità cominciò a farsi strada in me l’idea che non si dovesse trattare del possesso di cose materiali, ma di entità imponderabili quali onestà, pudore, sensibilità, senso del dovere, fede alla parola data, ecc…, insomma le caratteristiche dell’uomo serio, molto raro in ogni tempo.
Blanninu quindi era un uomo saggio e voleva far capire che certe virtù non si improvvisano o possono indossarsi come un abito nuovo. Compresi così che l’ipocrisia dei falsi virtuosi, anche se rende nei rapporti sociali, finisce col durare poco e sempre fra i distratti o i superficiali: in poche parole, i santi uomini e le sante donne se non lo sono in profondo non lo diventeranno mai.
Mia madre usava molto spesso il detto di Blanninu. Un giorno le chiesi chi fosse questo Blanninu. Mi rispose che era un uomo saggio, che però ella non conobbe mai, perché era andato in America, prima che lei nascesse.
Ella di Blandino (così risultava allo Stato civile) non ne ricordava più il nome, ma sapeva che era stato un nostro lontano parente ed anche intimo amico e compare d’un suo prozio, Calogero Casale.
Blandino, a detta di zio Calogero, aveva messo su una bella numerosa famiglia.
I figlioli, divenuti adulti, nei tempi duri di fine ‘800, furono tra i primi a lasciare Villarosa per l’America. Come tanti altri volenterosi affrontarono l’ignota realtà, impararono la nuova lingua e presto fecero una discreta fortuna.
Anni dopo, quando il Blandino rimase vedovo, i figlioli tutti insistettero tanto perché il padre lasciasse il paesello per raggiungere le uniche persone care che gli rimanevano al mondo, anche se oltre Oceano.
Blandino lasciò il paese con la morte nel cuore; da persona sensibile ed intelligente presentiva quello che i giovani figli non potevano intuire.
Per amore obbedì al caro richiamo, confidando agli amici più cari la sua gioia e la sua angoscia.
Nelle prime lettere allo zio Calogero descriveva la meraviglia di quel mondo nuovo inimmaginabile per chi era nato e cresciuto nel cuore profondo della Sicilia ottocentesca.
Ma un uomo della sua età non poteva inserirsi in quel pianeta tanto vasto quanto vario; quello era un universo che egli sapeva di non potere né esplorare né affrontare, perché c’era il rischio di perdersi come un bimbetto fuori dal suo rione.
Così si accontentava appena di vagare come un fantasma nelle vicinanze, dove si parlavano tante lingue tutte a lui ignote, dove si professavano tante religioni diverse dalla sua. Trovare un paisanu era una rara fortuna perché tutti erano impegnati a lavorare sodo: solo la sera quando i figli tornavano a casa poteva sciogliere liberamente la lingua nella sua parlata natìa.
Troppo poco per un uomo che al suo paese era vissuto in un contesto di relazioni ben più vasto, dove egli era stimato per la serietà d’un’intera esistenza, rinvigorita poi dalla saggezza della vecchiaia.
Non è dato sapere quanto tempo durò l’ultimo esilio di Blandino; Zio Calogero ne parlava sempre di persona scomparsa nella giungla urbana d’America e citava sempre il contenuto della lettera più significativa ricevuta da suo compare.
Questi facendo riferimento alla mancata conoscenza della lingua e quindi alla emarginazione di fatto, alla dipendenza dagli altri e all’ozio a cui amorosamente l’avevano obbligato, aveva scritto: “….dacchè ero padre sono diventato figlio….; vivo in una terra dove il fiore non ha odore, il pane non ha sapore e la donna non ha onore”.
Blandino, all’improvviso e senza gradualità, ad un’età in cui è difficile qualsiasi adattamento, aveva fatto un salto socio-culturale e morale con anticipo di quasi un secolo rispetto al paesello da dove proveniva.
La sua generazione, rimasta a Villarosa, cominciava appena a percepire, solo per sentito dire, che esisteva un mondo capovolto nei valori, quale quello sperimentato da Blandino, così continuava a vivere il proprio tempo, assimilando lentamente i minimi e graduali mutamenti della realtà sociale.
Decennio dopo decennio, guerra dopo guerra, anche il “nostro piccolo mondo antico” è andato cambiando e le nuove generazioni si sono adattate alle novità, con qualche ricordo nostalgico di tempi rimpianti perché ritenuti più belli.
La realtà d’allora era sì genuina, ma l’antica estrema miseria incombeva su gran parte della popolazione; oggi abbiamo raggiunto una certa prosperità, ma per essa abbiamo pagato un pesante scotto.
Col benessere abbiamo perso la nostra schietta identità e globalizzandoci ci siamo “americanizzati”, nel bene e nel male.

mercoledì 3 marzo 2010


A TTI DI L’UVU!

Fin da ragazzo ogni tanto sentivo ripetere con una certa amarezza questa espressione. Chiesi spiegazione e mi fu fatto il nome di un certo professionista villarosano che aveva delle terre nel vicino Santo Rocco, proprio sotto dove finisce il corso Regina Margherita verso nord, s’affacciava di lì e osservava gli zappatori “all’antu” che affiancati procedevano per rimuovere la terra. Quando il padrone riteneva che il ritmo lavorativo s’allentava, portava ambo le mani aperte a mo’ di megafono ai bordi della bocca e gran voce gridava: - A tti di l’uvu!
Quasi d’incanto il ritmo accelerava.
Soddisfatto tornava al tavolo da gioco nel vicino Circolo dei Galantuomini, che si trovava dove oggi sorge il Municipio. Quando poi voleva sgranchirsi le gambe tornava alla “timpa” panoramica e ripeteva il solito grido a cui seguiva identico risultato.
Quale effetto magico potevano avere quelle quattro brevi parole?
Ogni tanto il furbo professionista all’atto di dare il salario, ai più valenti zappatori lasciava scivolare furtivamente un uovo in una tasca e sussurrava con tono amoroso: - Ppo picciriddu.
I beneficiati si sentivano in obbligo verso il padrone e ricambiavano la cortesia con maggiore solerzia nel ritmo di lavoro, stimolando implicitamente gli altri, che ignari ne seguivano l’esempio.
Sono arrivato a questa mia età ritenendo che l’astuzia del proprietario villarosano fosse una sua originale trovata.
Un giorno parlando con un mio amico della mia stessa età, originario di Adrano, appresi per caso e con meraviglia lo stesso episodio che egli attribuiva a tale barone C.
Qualche giorno dopo, in altra sede, volli far cadere il discorso su questo genere di astuzie con un professionista di Giardini. Pure lui mi confermò che in tempi ormai lontani nella sua cittadina aveva conosciuto un possidente che si comportava allo stesso modo.
Tutti ricchi possidenti e tutti uguali col tarlo dello sfruttamento al massimo del povero bracciante.
Tutti della stessa pasta, ma con una differenza, solo di carattere dialettale:
Da noi: - A tti di l’uvu!
Là: - A tti di l’ovu!

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