martedì 22 marzo 2016

UN TENTATIVO DI FRODE INDUSTRIALE-ZOLFIFERA

            È naturale che ogni uomo cerchi di raggiungere il proprio maggior benessere, ma molti utilizzano metodi illeciti, come quello di frodare il prossimo, al fine di agguantarlo per la via breve.

           Tanto è sempre avvenuto, perché il detto "Munnu à statu e munnu jè"  è molto antico.

           Il protagonista di questo accaduto, del quale ho trattato in altri post, era un dilettante poeta dialettale, che non per niente recitava spesso il già citato suo distico, secondo cui:
"Cu mitti i pidi n'terra e nunn'è latru,
o jè di stuccu o jè di vitru.

           Solo che proprio l'autore dell'adagio stava per essere vittima di quanto egli stesso aveva chiaramente espresso.

          Nella nostra arida zona la natura offriva rare opportunità di diventare ricchi con la libera scelta di un lavoro confacente alle proprie possibilità e inclinazioni: mettere le mani su una poco probabile truvatura o divenire principali di pirrera erano le più comuni, ma ce ne sono ancora tante altre: la delinquenza ordinaria e quella che da soli 150 anni è chiamata "mafia", ma da sempre presente e segretamente designata come "Cosa Nostra", denominazione nota al pubblico e persino alle Autorità,  solamente da qualche decennio.

          Nei primi anni del '900 giunsero a Villarosa due fratelli della provincia di Girgenti con le rispettive famiglie, con figliolanze a prevalenza maschile. Essi cercavano di crearsi il benessere industriale utilizzando questa manodopera domestica a buon mercato.
Esplorarono varie zone, ma man mano s'accorgevano di non avere imbroccato la strada appropriata della sperata fortuna.

           Tornare al paese d'origine più poveri di prima proprio non se la sentivano, così escogitarono un imbroglio: diffondere la notizia di aver trovato lo zolfo in territorio di Calascibetta e di avere abbassatu di già i primi vagoni del giallo elemento.

           Ammaestrarono ben bene persino i loro ragazzi e tutti, dovunque arrivavano, ne parlavano con entusiasmo, sperando che qualcuno cascasse nel raggiro e offrisse una buona somma per subentrare nella declamata interessante occasione.

           La zona indicata era un po' lontana dalle miniere di villarosani, quindi fu facile far apparire possibile la ventilata novità.
Molti avrebbero voluto tentare questa invitante occasione ma non avevano la fortuna di avere una squadra di aiutanti in famiglia, né la somma richiesta dai venditori.

           Fra tanti volle provarci il già citato mastro Pietro, che purtroppo di figli maschi ne aveva solamente uno, ma sperava tanto, in caso di tangibile fortuna, di potere chiedere concreto aiuto ai numerosi suoi fratelli. Dal sopralluogo effettuato constatarono che la galleria scavata presentava piccoli frammenti di zolfo e che la carcara era adeguata alla consistenza  della piccola miniera e mostrava segni di un antecedente utilizzo.

            Si accordarono sul prezzo: una piccola somma il compratore la sborsò come anticipo alla consegna dell'impianto e per il resto firmò due consistenti cambiali con scadenza semestrale ciascuna.
Subito dopo padre e figlio si misero al lavoro di buona lena; rinunciarono la sera di tornare a casa,  arrangiandosi a dormine su un giaciglio preparato alla buona con frasche, per essere pronti il mattino dopo a riprendere lo scavo con picconi e paletti.

           Dopo qualche settimana di tenace perseveranza non riuscirono a estrarre nessun masso venato del biondo minerale. 
A questo punto cominciarono ad aver il dubbio di essere stati truffati. Nondimeno vollero provare ancora col chiedere informazioni ai contadini della zona. Costoro rivelarono che, per buona sorte delle loro coltivazioni, non avevano sentito il minimo odore di fumo di zolfo bruciato; aggiunsero pure che i  venditori negli ultimi tempi andavano rovistando fra vecchie miniere vicine; infine rivelarono che la fornace era stata ricostruita smontando le pietre di altri giacimenti esauriti da tempo.

            Da tanto, padre e figlio trassero l' evidente conclusione che le scagliette di zolfo, reperite tra lo sterro della galleria, i furbastri fratelli se l'erano procurate altrove e le avevano disseminate intorno per ingannare un eventuale acquirente.

            Che fare a questo punto? 
Denunciare i truffatori? Era del tutto inutile perché nella carta privata non era indicata la certezza della presenza dello zolfo. E poi, proprio lui non poteva ricorrere al maresciallo dei carabinieri, proprio lui che qualche mese prima aveva sputato in faccia al figlio, quando questi manifestò la gioiosa volontà di arruolarsi nell'Arma.

            Mastro Pietro decise di restare in casa  durante il giorno per non far capire in paese che lui, proprio lui, aveva ingoiato pacificamente un simile sgarbo. La sera invece cominciò a frequentare le diverse osterie per cercare d' individuare le abitudini dei due farabutti. Senza aver bisogno di far domande a destra e a manca scoprì che i due fratelli, sul far tardi della sera, s'avviavano verso San Calogero e oltrepassavano la chiesa perché abitavano in due casupole a sinistra, dopo il bivio della "Grada", che successivamente la zona sarebbe stata chiamata "Colonia".
            Si consultò col figlio e gli disse di tenersi pronto per il momento decisivo dell'intervento.

          Fin dal primo momento Mastro Pietro aveva trovato idoneo il luogo per riottenere avere il maltolto. Nei primi del '900 e per molti decenni a venire, San Calò era una periferia molto appropriata per gli agguati e le rese di conti: a tarda sera non c'erano più carretti che rientravano in paese e tanto meno altri che facessero l'itinerario opposto; gli zolfatai e carusi erano ritornati da molte ore e gli ultimi contadini e le relative bestie di già dormivano nelle loro rispettive dimore.

           L'ultimo pubblico lampione a olio arrivava al Ponte Caramanna, dove finivano le case; dal lato opposto le costruzioni continuavano per poco fino a raggiungere la via Solferino.
Era invece facile incontrare, nelle ore buie della zona interdetta alle persone tranquille, i vari contendenti che s'erano ridato appuntamento a sera nel tipico teatro di battaglia, dove  si esibivano più di frequente a cazzottate, ma anche ccu liccasapuni o con altro ancora di peggio.
Non  c'è tanto da stupirsi perché quelli erano i tempi di cui parlavano ancora i vecchi dell'epoca della mia giovanissima età, che rimembravano le liti del sabato sera, quando, complice l' ubriacatura,  quasi sempre ci scappava il morto.

               Mastro Pietro e il figlio Aldo prepararono, per una delle prossime sere che ritenevano più tranquilla, le rivoltelle, sempre sperando che non si presentasse la spiacevole ipotesi di doverle mettere necessariamente in campo.

             Uno dei giorni seguenti, padre e figlio a fine pranzo, con uno sguardo d'intesa, stabilirono l'agguato per la stessa sera, senza far capire niente alla donne di casa. Già prima s'era convenuto che il padre avrebbe affrontato da solo i due disonesti fratelli, mentre Aldo si sarebbe tenuto in disparte dietro la chiesetta di San Calogero per intervenire solo nel caso in cui il padre non se la sarebbe cavata da solo.
             A distanza mastro Pietro nelle sere precedenti aveva inquadrato le due figure alla fioca luce dei lontani lampioni e le aveva seguite a distanza. L'esperienza precedente gli fu provvidenziale e quando furono ben lontani dall'abitato, sbarrò loro la strada con la canna americana, che allora era d' uso comune fra le persone di rispetto, mentre teneva in tasca l'altra mano in chiaro atto di minaccia con arma da fuoco. I due capirono perfettamente che il loro antagonista non era il tipo così sprovveduto da presentarsi da solo a un così rischioso appuntamento; rimasero allibiti e proprio non sapevano quale decisione prendere.

            Mastro Pietro, senza porre tempo in mezzo, intimò al piccolo dei due:  - Tu va piglia i du cambiali, si nun vo perdiri ppi sempri a to frati!

           Il grande annuì con un borbottio di assentimento e il piccolo mosse speditamente i piedi verso casa.

           Quando questi fu di ritorno, il truffato prese in mano le cambiali; poi gli  consegnò in mano una scatola di zolfanelli e gli ordinò di far luce sui i due preziosi pezzi di carta. 
           Constatata  la chiara corrispondenza degli atti, diede loro il benestare d'andar via.
          Mentre quelli, giù di corda, s'allontanavano, mastro Pietro, come se si rivolgesse a più persone dietro la chiesetta, ordinò di tornare in paese, dal momento che la questione era risolta.




mercoledì 9 marzo 2016

    DON SARÌ MU DUNA UN CASCIUNIDDRU?

Don Sariddru era il sacrestano della Matrice nel tempo della mia infanzia. Egli era noto in paese a grandi e piccini per le sue varie attività di sagrista, di commercio ambulante e di bottega, ove erano addette le donne di casa.
Era anche proprietario di molte sedie della Chiesa che affittava a privati nelle loro case in occasione di feste, matrimoni, battesimi.
 Anche in chiesa, nelle grandi occasioni, faceva pagare un modesto obolo a quanti non gradissero lo stare in piedi nelle lunghe funzioni o prediche, come le Sette del Giovedì Santo, tenute quasi sempre da un prete forestiero, ottimo atteso oratore.
Coadiuvavano nelle attività chiesastiche i figli Nicola e Michele, brave persone, che badavano un po' qua e un po' là nei limiti delle loro scarse capacità visive ed erano pure addetti al suono della pianola nelle varie funzioni religiose. Dei due il secondo svolgeva la sua funzione nella Chiesa dell'Immacolata Concezione, che i vecchi della mia infanzia chiamavano ancora a chisulidda: l'antica chiesetta demolita oltre 90 anni fa e ricostruita come l'ammiriamo oggi.
Don Sariddru era padre di numerosa prole dei due sessi, metà minorati nella vista come lui e l'altra normali come la madre.
Fra questi una sola donna, la piccola, si sposò e andò a vivere in un cittadina vicina; un altro maschio era impiegato di banca in Villarosa, poi  trasferitosi altrove.
La figura più divertente fra tutti era Liddru, Cavaliere di non so che cosa.
 Negli anni '50 egli fu rappresentante di una marca di vari prodotti con l' emblema del "Cavallino" e la rossa figura rampante di questo era impressa sulle due fiancate della automobile messagli a disposizione della ditta.
Questo simbolo, anche quando non poté fare più parte dell'auto, accompagnò il Cavaliere in ogni sua azione sociale fin quasi alla fine dei suoi giorni.
Quando fu candidato promotore in una elezione amministrativa comunale, l'ormai famoso "Cavallino" fu scelto come simbolo.
Di lui si raccontano ancora tante storielle scherzose e non; delle prime , mi sovviene il tiro mancino diretto al proprietario di un bar, da poco passato a miglior vita. Questi una mattina si soffermò a conversare nella bottega di un noto fruttivendolo con amici. Della compagnia solamente il Cavaliere, cosa strana, quella volta non partecipava alla discussione.
Poco dopo il barista quando infilò la mano in tasca se la trovò piena di sottili e leggerissime sfoglie secche di cipolle. Non ne parlò con nessuno dei presenti ma capì subito da dove poteva venire quel tiro mancino e cominciò a escogitare il modo di restituire, come si suol dire, pan per focaccia.
Un pomeriggio il Cavaliere, seduto con amici al tavolo del bar della vittima dello scherzo per consumare il solito thè, si vide portare il suo che non appariva differente nel colore da quello degli altri amici. Quando però bevve il primo sorso lo trovò disgustoso e chiese al barista che cosa gli aveva propinato.  Questi serenamente gli rispose che si trattava di un nuovo gusto, ben noto al Cavaliere: thè alla cipolla.
Dopo queste digressioni a carattere familiare torno al titolo di questo post.
Don Sariddru era un gran lavoratore; nel tempo libero dalla maggiore mansione, faceva il venditore ambulante di piccoli oggetti  come calzini, biancheria intima, rocchetti di filo e aghi d'ogni misura. Tutta la mercanzia era avvolta in un largo pesante telo blu che legato agli estremi e era portato a spalla. Dava voce per le vie alla sua presenza e le massaie s'affacciavano davanti all'uscio per comprare qualcosa di cui avevano bisogno.
Era risaputo che l'anziano venditore amava lo scherzo: era abile ad esempio a parlare "una lingua" che faceva confondere gli ascoltatori: essa  era semplice nella sua combinazione, ma difficile nell' esposizione. Chiunque ci avesse provato s'inceppava, non di certo don Sariddru che si era esercitato fin da quando era bambino: il trucco stava nell'inserire in ogni parola, una o due volte, la consonante "p" che riusciva a stravolgere decisamente  il senso d'un discorso, sia pur comune, che diventava incomprensibile: non conobbi mai qualcuno che sapesse tradurla o rispondergli a tono. Noi bambini di allora appena appena  questo giochetto lo usavamo tra coetanei: dettavamo una frase imperscrutabile come, ad esempio, aspino spono pio! Poi si invitava il compagno a cancellare tutte le "p" della breve frase e subito passare alla lettura ad alta voce: risultato, "asino sono io!".
Così ridevamo; ma più lontano di lì non sapevamo andare.
L'infanzia di quel tempo non aveva mezzi per giocare come quelli di oggi. I giocattoli ce li costruivamo da soli fin dove si poteva e cercavamo rottami di vecchi oggetti, pale di ficodindia, cartoni, cartoncini e ogni altro avanzo di bottega per sbizzarrirci in semplici passatempi costruttivi .
Ai ragazzi la mercanzia di don Sariddru non interessava, era solamente materia per le mamme. Ai primi interessava lo scatolo di cartone vuoto che il venditore avrebbe di certo buttato: solo che io e tutti i miei amichetti mai ne vedemmo uno in giro abbandonato da lui.
In ogni strada la domanda d'ogni ragazzino era sempre la stessa:
 - Don Sarì mu duna un casciuniddru?
La risposta era pronta e sempre identica:
- Quannu u sfurnamu!

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