mercoledì 10 febbraio 2016

U   SBERGIU

     
              La 2^ Guerra Mondiale era finita, ma la disoccupazione era ancora alta da noi: mancava di tutto, a cominciare dal lavoro che per eccellenza era preminente nella nostra zona centrale dell'Isola, quello inerente l'industria dell'estrazione dello zolfo. Questa risorgeva molto lentamente, anche perché il suo prodotto era molto più ricercato in tempo di guerra; inoltre, soprattutto perché, essendosi riaperto il commercio con l' ex nemico, gli Stati Uniti, la sua concorrenza era insostenibile per la natura dei loro particolari giacimenti, in cui lo zolfo è presente ugualmente a grande profondità ma è posizionato a strati orizzontali compatti. Di conseguenza il biondo elemento lo si può estrarre senza la necessità di far scendere esseri umani nelle viscere della terra. Inoltre la fusione dello stesso si ottiene senza spreco, in quanto gli americani si servono dell'acqua caldissima, insufflata giù in basso; questa scioglie lo zolfo, che ridotto allo stato liquido, viene aspirato con potenti pompe in superficie e qui direttamente riversata nelle sagome, in cui assumerà forma e solidità. 



            In Sicilia, dove scarseggiano fonti d'energia, invece la fusione avveniva in superficie in appositi forni, in cui per combustibile ci si serviva di una quota non indifferente dello stesso zolfo estratto. 

              I pochi lavoratori fortunati d'aver trovato l'antico lavoro, restavano di conseguenza ancora di più mal pagati. 

                Solo più tardi la Regione, divenuta autonoma, creò l'Ente Minerario Siciliano (EMS), al fine di sostenere i lavoratori in servizio (e non solo loro, purtroppo), con grave danno al nostro patrimonio pubblico. 

        Ricordo ancora il manifesto di colore verde, portato all'attenzione dei cittadini, col quale si dava la notizia che il Belgio chiedeva manodopera per l'estrazione del carbone fossile. Si assicurava pure che quello Stato avrebbe ricompensato i vari governi, che accettavano l'invio di minatori, con la concessione d'una quantità adeguata di carbone fossile, che nel caso dell'Italia costituiva una grande opportunità, in quanto ne era sì produttrice nelle miniere sarde, ma in quantità irrilevanti.

           Tantissimi fra i cittadini non conoscevano nemmeno il nome di quel lontano Stato, così per assonanza fu battezzato come Sbergiu, che da noi è una varietà di piccola pesca dal buon sapore, tant'è vero che, per molti anni successivi, specialmente gli anziani, continuarono, a indicare i nostri lavoratori in quella terra nordica, col termine di Sbirgisi.

            Un giorno io, studentello delle prime classi di scuola media, mi trovavo in campagna con mio padre e un giovane ventenne, Pinuzzu G. Questi faceva domande relative a questo nuovo mondo che prometteva un sicuro lavoro. Io vedendolo così incerto sulla grande novità volli scioccamente provare a prenderlo in giro: così, in un momento che papà sembrava un po' distratto, gli dissi che in quella nuova terra la luna era quadrata. Il poverino rimase scioccato e subito chiese conferma a mio padre, che gli rispose duramente: - Cretinu tu e chiddru ca tu dissi! 

         Lo stesso Pinuzzu non ce la poté fare a portare avanti la famiglia nel territorio nativo e qualche anno dopo andò pure lui a cercare lavoro lì, ma non più quello di minatore, che andava scemando con l'avanzare dell'uso di altre forme d'energia, in primo luogo il petrolio.

        I primi che arrivarono in Belgio furono costretti ad accettare necessariamente il lavoro nelle profondità del sottosuolo, che risultò molto più faticoso e pericoloso dell' equivalente zolfifero siciliano: i minatori erano costretti a seguire la falda carbonifera, se era il caso, persino scavando e avanzando a pancia a terra: inoltre di incidenti sul lavoro se ne contavano più di quanti ne potevano succedere nelle nostre miniere.

        Il più grave accaduto nel nostro Continente europeo fu quello di Marcinelle del 1956: in una delle miniere di quel Comune, in un'unica sciagura, perirono 262 minatori, dei quali 136 erano italiani; fra di essi per buona sorte nessun villarosano vi fu coinvolto. 

       La zona della tragica miniera, chiamata Bois du Cazier, ovviamente oggi senza l'attività originaria, fa parte dei patrimoni storici dell'UNESCO. 

        Negli anni a venire di vittime fra i nostri concittadini se ne contarono tante. Inoltre in quelle miniere di carbone i siciliani, esperti di zolfo, incapparono in una novità assoluta per loro, silenziosa e ugualmente dannosa, che infliggeva tragiche risposte nel futuro, la silicosi. Questo male era causato da una sottile polvere carbonifera che minava lentamente e profondamente la funzione polmonare, accorciando decisamente la vita di tali lavoratori.

        Erano questi i concreti motivi, insieme a pochi altri, per i quali i cittadini di quello Stato nordico, finita la guerra, in molti non vollero più correre quei rischi, ben supponendo che altri popoli erano necessariamente disponibili, perché costretti dal bisogno, ad accettare quegli inevitabili rischi. 

       I primi nostri minatori, quasi tutti meridionali, furono ospitati in primo tempo anche in baracche già utilizzate per ospitare prigionieri di guerra, ma ovviamente erano state aggiunte delle comodità minime, confacenti a un vivere sereno di tempo di pace. C'è poi da notare che i nostri concittadini provenienti da una terra povera e ugualmente provata dalla guerra, non andavano per il sottile. È vero sì che le baracche non possono essere paragonate a case in muratura, ma i nostri gradirono ugualmente per via degli essenziali conforti materiali che trovarono e poi perché i nostri freddi catoia di certo non erano paragonabili a quelle rudimentali abitazioni riscaldate a dovere col carbone fossile che là abbondava.

       I nostri connazionali mediterranei si trovarono a vivere in una terra diversa per clima e modo di vivere, ma se la cavavano ottimamente. Di certo era uno stato di necessità in quanto era tutto rapportato a un mondo al maschile: loro ovviamente non lo sottolineavano, perché erano sempre stati abituati al peggio, ma, nella sostanza, era venuta meno l'esperienza femminile che può sembrare marginale, quando c'è.

      A tal proposito voglio citare un aspetto umano che mi fu evidenziato molti anni fa dal compianto Giacomino P., partito, fra i primi, assieme ai due suoi fratelli minori. 

          La madre in Villarosa era fortemente inquieta nel pensare ai suoi figli, sia pur maturi, che, tornando dal lavoro, non avrebbero trovata in casa una cara persona che preparasse loro un pasto caldo, un ambiente accogliente e tutta una serie di servizi e delicatezze femminili, che spesso il maschio quando ce l'ha non li mette in conto.

         Una sera a cena, la trepida mamma con gli occhi lucidi, come di consueto negli ultimi tempi, sbottò in un dirotto pianto e comunicò al marito e alle due figlie, che lei aveva deciso di partire per il Belgio, unendosi ai primi villarosani diretti a Morlanwelz.

        Giunse felice la mamma in quella città lontana; per i figli fu grande gioia e, a un tempo, forte trepidazione. Essi temevano che anche una donna di grande coraggio, qual era lei, si sarebbe potuta trovare a disagio nell'impossibilità di poter comunicare con tutte le altre donne d'altra lingua e cultura, specialmente nel far la spesa nei negozi che nei primissimi tempi erano gestiti solamente da belgi. 

       Ma la coraggiosa donna, a zzi Carmela, unica villarosana presente in quel momento, se la cavò discretamente, con gesti e con segni o come meglio poteva. 

       Il mondo femminile formato di consigli casalinghi e di piccoli soccorsi, come nei casi di semplici mal di pancia, indigestioni, piccole medicazioni, infusi vari e tanti piccoli interventi tipici di una lontana terra mediterranea, erano di competenza da zzi Carmela, rivolta a tutti i paesani della zona: era addirittura essa stessa che li sollecitava a non aver remore di rivolgersi a lei, madre navigata, per ogni evenienza d'incertezza maschile. 

          I Siciliani, e non solo loro, sognavano in quel periodo l'America, quella "giusta" però, cioè gli USA. Ma arrivarci in quella terra non era facile: vi avevano accesso soltanto i nati lì e i diretti familiari. 

          Di conseguenza il Belgio rimaneva la meta a noi più prossima e consona alla nostra attività mineraria prevalente.

         Ancora Giacomino P. circa una quindicina d'anni fa, incontrandoci a Villarosa, mi rese noto che nella sola Morlanwelz, tra nostri emigrati, figli e nipoti sopravvenuti, vi si potevano contare circa 3 mila nostri concittadini: infatti, non certamente per un irrilevante motivo, il gemellaggio tra le due cittadine lontane è risultato ben accetto alle due culture. 

         I nostri concittadini, tornando per le ferie nell'antica cara casa, erano entusiasti della vita in quella terra lontana che offriva loro tanto benessere, secondo soltanto a quello degli USA, ma mai prima conosciuto in Sicilia: di quest'isola solamente essi rimpiangono ancora il dolce nativo clima mediterraneo. 

         A quanti di loro, incontrandoli, di ritorno qui per le ferie, chiedevamo: Cchi si dici? 

         Essi rispondevano: Ҫa va!... 

         Fu così che quando i Ҫa va! si fecero più frequenti, quei nostri emigrati persero l'antico soprannome e da Sbirgisi divennero per noi, stavolta scherzosamente, i Savà. 

         Questo nostro territorio, in antico prettamente pastorale, divenne agricolo dopo i vannii dei Duchi Notarbartolo; poi inaspettatamente, pochi decenni dopo, baciato dalla fortuna della scoperta dello zolfo si trovò ad accogliere migliaia di nuovi immigrati, divenendo una grossa cittadina che nel 1860 arrivò a contare ben 18.000 abitanti. Con alti e bassi, a seconda della richiesta estera dello zolfo, il nostro paese si espandeva o si contraeva. Nella mia fanciullezza ricordo che mancavano un paio di decine di cittadini per arrivare a 12.000 abitanti, ma, nel giro di poco tempo, si aprirono le porte dell'emigrazione e migliaia di villarosani si sono sparsi per il mondo, Belgio in testa, riducendoci qui a meno della metà di quanti eravamo fino agli anni '40.

        È mia abitudine chiedere ad amici e conoscenti quali sono le origini della propria famiglia e tutti mi indicano un paese dell'interno siciliano, come antico ricordo, ma senza alcun rimpianto. Ad esempio, mio nonno era di Delia, ma figli e nipoti ci siamo sempre sentiti villarosani autentici: lo stesso posso dire di ogni altro oriundo, che magari non ha messo piede in Sicilia, ma scrive su internet fatti e detti sentiti dalla viva voce del proprio genitore villarosano.

        Si potrebbe pensare che col tempo s'allenterà inevitabilmente questo legame; è possibile, ma tanto non avverrà di certo nei tempi brevi, in special modo con i nostri compaesani del Belgio, che anche quando i vecchi genitori sono venuti meno, moltissimi hanno sistemato l'antica abitazione o ne hanno acquistata un'altra, alternando, da pensionati, il domicilio, con la scelta della stagione o il periodo a loro più gradevole.

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