martedì 11 dicembre 2012

COSA DI FEMMINE


Da qualche tempo, soprattutto nella Rete, si parla della non presenza di bidet nei bagni di molti Paese nordici; nella sua stessa patria, la Francia, il “cavalluccio”, traduzione letterale del termine, è alquanto raro.

Questa presunta “anomalia” nordica induce frettolosamente molti giovani a concludere che noi in Italia siamo più puliti delle suddette popolazioni.

Non sono in grado di dare una risposta indubbia, ma di certo tale argomentazione avrà senz’altro una spiegazione diversa da quella sbrigativamente fornita: ad esempio il bidè sarà stato sostituito con l’uso più frequente della doccia, come del resto ci si va orientando in tal senso da noi.

Questa oziosa disputa m’ha fatto scoperchiare il relitto antico, quasi del tutto seppellito dalla polvere del tempo, d’un banale episodio riferitomi oltre sessant’anni fa da un mio coetaneo ex seminarista.
Nel secondo dopoguerra ci fu nel nostro paese un’ondata di vocazioni sacerdotali; quasi una ventina di ragazzi entrò nel Seminario vescovile di Piazza Armerina. Per dare un curioso resoconto dell’esito di tali numerose inclinazioni preciso che di tutti costoro solo uno, il parroco Salvatore Stagno, prese i voti.
In casa di uno di tali giovanissimi seminaristi, chiamiamolo per tutelarne la privacy Pinuzzu, avvenne un lieto avvenimento al cui festeggiamento il chierichetto non poteva mancare. Per quei tempi averlo a casa era un vero problema per la frequenza scolastica, per la scarsità dei mezzi di trasporto e per le possibilità finanziarie alquanto ristrette per poter consentire il noleggio doppio d’un taxi.
La madre di Pinuzzu volle provare a parlarne col parroco del tempo, monsignore Luigi Scelfo,  fratello maggiore dell’ingegnere Antonio fondatore dell’ancora famosa società di autolinee, la SAIS.
Il problema, che appariva difficoltoso, fu risolto con agevolezza da “monsignorino”, così era chiamato dagli anziani di Villarosa il parroco Scelfo, persino quand’era avanti negli anni quando lo conobbi io. Proprio per quei giorni il presule era stato convocato dal Vescovo e quindi gli fu facile riportare il ragazzo a casa, e per giunta senza spesa.

Al ritorno, al cambio di corriera ad Enna, il parroco sentì il dovere e il piacere di far vista al fratello e ai nipoti. Pinuzzu durante la sosta in quella abitazione, splendida per lui perché non aveva mai visto di meglio, sentì impellente la necessità di fare pipì. Aveva messo in conto di rimandare il bisognino fino a casa sua, ma calcolò che non ce la poteva fare, così si fece coraggio e arrossendo in volto dichiarò il suo stato di disagio al suo esimio accompagnatore.

Il giovane, entrato in quel che si attendeva un ottimo gabinetto, restò doppiamente abbacinato dal luminoso locale grande come una stanza di lusso rivestita di maioliche e arricchita di mastodontici  pezzi di porcellana sormontati d’abbondanti  e luccicanti cromature.
Non aveva mai visto un locale così ricco di componenti: un lavabo di porcellana troppo mastodontico per lui che era abituato alla bacinella di lamiera smaltata; una vasca da bagno seconda in grandezza solamente “a brivatura”; un water bianco e lucido che emergeva dal pavimento, eccezionale per lui che il cesso in casa l’aveva a livello di pavimento vicino all’uscio, già tanto per lui perché lo faceva  sentire un privilegiato rispetto a quanti, ed erano numerosi, facevano i bisogni intimi nell’orinale per poi svuotarlo all’esterno; una doccia circondata da pannelli di vetro martellato e poi tante tovaglie di lusso appese alle mattonelle di maiolica ricche di decorazioni.

D’ognuno dei pezzi riuscì ad interpretarne la destinazione, restò attonito invece dinnanzi ad un elemento di porcellana più basso degli altri a cui non sapeva attribuire l’uso. Inoltre, in esso come pure negli altri visti poco prima, giudicò uno spreco inutile la presenza di due rubinetti in un solo componente di ceramica, non immaginando minimamente che in uno dei due rubinetti potesse scorrere acqua calda.

Confuso e stordito dalla enorme quantità del genere di roba mai vista non s’avvide del tempo che trascorreva, tanto che monsignore temendo che il ragazzo fosse stato colto da qualche imprevisto problema fisiologico, decise d’entrare: lo trovò perplesso dinnanzi al pezzo per lui indecifrabile.

Pinuzzu appena s’avvide della presenza del suo parroco, indicò l’oggetto della sua curiosità e gli chiese cosa fosse.
“Monsignorino” pose delicatamente le sue mani all’apice delle spalle del chierichetto e avviandolo verso l’uscio disse:
 - Cosa di femmine.

giovedì 15 novembre 2012

Salvatore Gioia in un articolo del 1956


Il nostro concittadino Giuseppe Russo, amico e collega residente nella provincia di Napoli, mi ha fatto pervenire la fotocopia d’un articolo da lui pubblicato oltre  56 anni fa sulla cronaca di Enna del quotidiano “L’ Isola” di Catania, dove si riassumono le qualità, i primi successi del tenore Salvatore Gioia e i conseguenti giudizi espressi da critici e insigni musicisti.
Innanzi tutto ringrazio Peppe Russo per la sua cortese e doverosa segnalazione dei preziosi elementi riguardanti la figura di Totò, sempre viva nei nostri cuori.
Nel contempo vorrei stimolare i lettori tutti a collaborare nella raccolta di notizie sulle storie dei villarosani  per tramandare a quelli che verranno le figure più ragguardevoli non solo per cultura, prestigio o particolari doti, ma pure quelle dei più umili e senza fascino manifesto che possono insegnarci tanto se osservati in particolarità che ai distratti potranno apparire frivole ed insignificanti.
L’articolo in fotocopia non si presenta di facile lettura, ma se qualcuno ha la pazienza di ricopiarlo in un file, farà cosa gradita a tanti. Grazie 




Aggiungo la prima pagina del quotidiano "L'Isola" su cui fu pubblicato l'articolo per ben visualizzare la data e il giornale non più in edicola da gran tempo.




sabato 10 novembre 2012

U CHIAMU, poesia della concittadina Rosa Bianca Cosentino

U CHIAMU è una poesia della nostra concittadina Rosa Bianca Cosentino già pubblicata nel sito dei villarosani.it.
La poesia fu prima in classifica nel Concorso "Botteghelle" indetto dal Comune di Fiumefreddo di Sicilia e quarta al Premio "V. De Simone" indetto dal Comune di Villarosa

U CHIAMU
U chiamu era un disperato quanto ingenuo appello a persona cara che da tempo non dava notizie e praticato fino a qualche tempo fa da madri o spose della nostra gente. Queste in luogo aprico e solitario di notte lanciavano un accorato richiamo il cui eco di ritorno veniva quasi sempre interpretato come fausto segno. Non di rado però, un casuale passante, per pietà o per burla, completando l'eco, alimentava una disperata speranza.



L'aria sirena nun smovi ‘na foglia,
sintu cantari fistusi li griddi,
mentri d'atturnu ccu vuci suavi
parlano e jocanu li picciriddi.

Sugnu ‘ncampagna, ‘n cuntrata Li Pira,
cca ma famíglia sugnu assittatu,
omu anzianu, ma omu cuntentu
d'aviri tanti niputi a lu latu.

Tutt'a na vota, Pinuzzu, u picciddu,
dici a Giuànni: - Gridamu, gridamu,
jucamu a l’eccu ca duppu tanticchia
li nustri stessi paroli ascutàmu.

Grida Pinuzzu, grida Giuànni
e l'eccu sempri fìdeli rispunni;
mentri ca jòcanu i cari ‘nnuccenti,
mi ‘nfoca u cori, mi curri la menti:

lu ma pinziri mi porta luntanu,
mi veni mmenti la ‘zzi Mariedda,
quannu, carusu pigliava a ma manu
e mi diciva: - Cci vini a Purtedda?

Facìmu u chiamu a ma figliu Pippinu,
ca nun mi scrivi e si trova a la guerra;
chidìmu a l'eccu e vidìmu s’un gnurnu
torna lu giuvini nni la so terra!

La vicchiaredda gridava e chianciva,
gridava forti: - Mi turni, Pippinu?
Mentri darrì la muntagna luntana
vuci piatùsa accussì rispunniva:

- Ritorna... torna... torna Pippinu,
timpu ‘a spittari iuncinnu li manu
e certu u’ gnurnu lu po' rincuntrari,
forsi ssu iurnu u gne tantu luntanu…

La vicchiaredda turnava cuntenti
e mi stringíva cchiù forti la manu
e lu so passu nun gnera cchiu lentu,
iva dicinnu: - Mi torna Pippinu!

Passà lu timpu e Pippinu 'un turnà,
murì di lacrimi la vicchiaredda;
e sulu tannu nno munnu dei giusti,
ncuntrà lu figliu la zzi Mariedda.

Chianciu, a sugliuzzu ‘n cuntrata Li Pira
ccu l’ucchi chini di lacrimi amari,
guardu scantatu li ma niputíddi,
sempri ‘ i vulissi ccu l’eccu jucari...

Mai vulissi ca un rre Ciccupeppi
issi chiamannu li figli da genti
ppi la so gloria e ppi lu so putìri
mentri a li matri 'un ci arristassi nenti!

Rosa Bianca Cosentino

domenica 7 ottobre 2012

SU SALVATORE D’ALBERTO - SECONDA PARTE –


A POCHE ORE DELLA MIA PUBBLICAZIONE DEL POST SU SALVATORE D’ALBERTO, MEGLIO NOTO COME TURIDDU CINCHILIRI, L’AMICO GIACOMO LISACCHI HA SENTITO IL DOVERE DI AGGIUNGERE PARTICOLARI NON TRASCURABILI SULL’ESISTENZA DEL NOSTRO CONCITTADINO.

Caro Tino, ho letto con molto piacere, così come gli altri, il tuo ultimo scritto dal titolo “Quel che mi insegnò Salvatore D’Alberto”. Ebbene, quello che i villarosani ritenevano un ‘relitto umano’ oggi si trova ospite in una casa di riposo di Mazzarino gestita da suore dove finalmente ha trovato quell’amore forse negato nella sua Villarosa. Quella Villarosa che nonostante non lo riconoscesse come ‘creatura umana’ a lui invece è rimasta nel cuore e nella mente. “Purtatimi a Villarosa, purtatimi o me paisi”- ci invocò per tutto il tempo che siamo stati con lui, qualche anno fa, quando lo andammo a trovare io, Gabriele Zaffora, Piergiovanni Zaffora e padre Giulio Scuvera di Butera, scomparso un anno fa. Fu una visita improvvisa e fatta per caso perchè trovandoci in quella cittadina nissena venne in mente a Piergiovanni che se non ricordava male forse in una casa di riposo doveva esserci ‘Turiddu Cinchiliri’. Decidemmo di andare a verificare e in effetti era lì. Siamo rimasti contenti per come l’abbiamo trovato: era vestito bene e coccolato dalle suore che lo accudiscono. E non possiamo dire che era stato preparato anche perchè siamo arrivati all’improvviso. Siamo stati con lui per più di un’ora e nonostante Piergiovanni cercava di fargli ricordare qualcosa del passato, lui ripeteva continuamente: “Purtatimi a Villarosa, purtatimi o me paisi”. E non ha smesso neanche davanti ai dolcini che nel frattempo Gabriele era andato a comprare offrendoli a tutta la comunità.

Segue il mio ringraziamento in risposta e l’aggiunta di un piccolo episodio di oltre cinquanta anni fa, da cui si evince che Turiddu era capace di essere uomo di spirito e stare al gioco dei grandi:
La tua nota m'ha fatto gran piacere. Ero impacciato nell'atto di preparare il post sulla sorte di Turiddu di cui non avevo notizia da gran tempo e mi sembrava fuor di luogo chiedere ai parenti notizie sull'esistenza del congiunto. Ancora la vostra osservazione di Turiddu vestito degnamente mi porta lontano ad un banale episodio molto significativo.
A cavallo fra gli anni '50 e '60 dove oggi sorge il bar Leone c'era un negozio di abbigliamento gestito dalla buon'anima di Nino Patti, prima che si trasferisse a Calascibetta. Non so chi fra gli amici ebbe l'idea di far mettere in vetrina vestito con un completo di classe il nostro tormentato concittadino. Egli capì e recitò perfettamente la sua parte; molti passanti distratti non s’accorsero neanche del personaggio che faceva da manichino. Stette immobile gran parte del pomeriggio e della prima serata senza dar segno della minima insofferenza: aveva capito e portato a termine il suo ruolo con intelligenza e fermezza di nervi.
Il commento serio di quanti ci fermammo era che Turiddu sapeva recitare con intelligenza un’ impegnativa parte senza contropartita e con spirito e autocontrollo. Una persona strana non avrebbe sopportato e capito lo scherzo che si stava realizzando.
L’altro commento più comune fu: “Visti furcuni ca pari baruni
Scoprimmo che u furcuni aveva un cervello e senso dell’umorismo che a molti boriosi manca.
Altra osservazione: come la maggioranza degli anziani in casa di riposo desiderano tornare alla loro abitazione: Turiddu al suo paese, che buono con lui non fu.

lunedì 10 settembre 2012

Poesia di Carmelo D'Accardo

Il nostro concittadino Enzo Provinzano mi ha segnalato un'opera del grande poeta contadino Carmelo D'Accardo che ha avuto da un nipote residente a Torino.
Aggiungo a quanto ho presentato di già di don Carminu che io conobbi quando ero ragazzo.
Pubblicherò le poesie ricevute, che fra l'altro si trovano nella nostra Biblioteca Comunale, a spezzoni. Buona lettura.


Catanzaro lido 22 Febbraio 1974

Le presenti liriche saranno un ricordo per chi li trova. Peccato che si disperderanno perché penso bene che nessuno dei restanti potrà gelosamente conservarli con la stessa cura da me adoperata.

Saranno dei versi buttati al vento e si perderanno proprio per la mia povertà. Ho un grave dolore al cuore pensando alla fine. Comunque scrivo ancora e scrivo con la speranza di vedere la luce e che il Sommo Iddio benedicesse questo mio lavoro instancabile.

Carmelo D’accardo



AMORE DI MAMMA


1
Non vedo al cielo stella     
più bella di mia madre
perché per me fu quella
più buona di mio padre
2
lei col cuore puro
benigno e generoso
se il mio tormento è duro
lo calma e lo riposa,
3
vera colomba bianca
per me rinuncia il fiele
baciandomi non stanca
dolce più che del miele,
4
pronta nei miei dolori
con quella sua carezza
spegne con mille ardori
quel male che mi spezza,
5
tutto quanto possegga
me lo donasse in vita
Dio che la protegga
per me sovrana ardita,
6
seppur che non è santa
per me è santa vera
miracolosa tanta
per la mia casa e spera,

7
se viene in casa mia
e le domando grazia
clemente amata e pia
pure i miei figli sazia,

8
capisce a batter d’occhio
mentre il mio cuore tace
col mio buon Dio in ginocchio
se vivo in guerra o in pace

9
e con tutta la calma
devia ogni divergenza
pure se c’è la salma
conforta, spera e pensa,

10
mia madre e la Madonna
le raffiguro uguale
come disse mia nonna
nell’ultima morale,

11
che pure Cristo santo
cercò alla madre aiuto
sotto la croce al pianto
cadde nel mondo muto.


Per ricordo e per omaggio al Consolato Generale d’Italia in Belgio
LIEGI 18.1.1964
AVVISO A LETTORI E COLLABORATORI

QUALCUNO ANCORA LAMENTA DIFFICOLTA' DI COLLEGAMENTO AL BLOG SPECIALMENTE CON EXPLORER...
IL BROWSER OPERA INVECE RESTA L'IDEALE PER ENTRARCI.
BUONA COLLABORAZIONE. GRAZIE

sabato 11 agosto 2012

PINUZZA


Non ebbi mai occasione di conoscere personalmente Pinuzza G. e d'apprezzarne la decantata bellezza, perchè ero ancora ragazzo ed abitavo in un quartiere lontano dal suo. Però ebbi necessariamente cognizione della sua chiacchierata vicenda perché la crudele canzoncina, che si canticchiava in ogni angolo del paese, era nota persino ad innocenti bambini. Di essa rimasero impresse nella mia memoria un paio di versi che per decenni risuonavano nelle mie orecchie, forse perchè citavano il personaggio maschile che, anche se solo di vista, conoscevo di già:

Pinuzza la G. cchi facisti?
ccu Carminu D. ti nni scappasti...

Circa vent'anni fa venne a scuola per un certificato di studio una concittadina del mio quartiere, di qualche anno più giovane di me e da tempo trasferitasi in Palermo. Questa, felice di ritrovarsi sia pur di passaggio nella segreteria della scuola che aveva frequentato e a contatto con villarosani, diede la stura ai suoi ricordi che io, avido di storia popolare, avrei voluto in buona parte registrare al volo.
Al caso di Pinuzza aggiunse qualche altro verso che sono riuscito a serbare nella memoria:

Cincu mila liri ti li purtasti
ma o stessu nne tavuli durmisti...

I pretendenti della giovane erano tanti e di ceti sociali diversi, ma il suo cuore era impegnato ad un giovane avvenente zolfataio, pur egli a me sconosciuto e che ora indico come Tano. Questi, alla scoppio della guerra, s'aspettava di giorno in giorno il richiamo militare, così propose prima a Pinuzza e quindi alle rispettive famiglie, d'accelerare i tempi del matrimonio.
Gli sposini vissero in coppia pochi giorni fin quando giunse l'odiata cartolina.
Nei primi tempi ogni tanto Tano otteneva una licenza o un breve permesso che faceva per il momento attenuare la tristezza della lontananza. L'unico conforto per i due innamorati rimaneva la corrispondenza epistolare e la quasi matematica certezza che la guerra si sarebbe conclusa di lì a poco, considerate le celeri avanzate degli alleati tedeschi.
Pinuzza poi per qualche tempo aspettò una lettera che tardava ad arrivare; ogni mattina “si mittiva e talai” per intercettare il postino ed aver subito l'eventuale attesa missiva. Poi per molte settimane allungò invano il collo per scorgere il latore della cartacea felicità; finalmente una mattina, al colmo della tensione, ebbe in mano quanto attendeva.
Tano raccontava che era stato destinato alla campagna di Russia; avanzava verso est su un lento treno per una ignota e lontanissima destinazione; raccontava alla cara sposa che non c'era nessun paragone con le distanze di Sicilia o d'Italia.
Da quel momento la corrispondenza divenne sempre più rada finchè venne meno per sempre.
Luglio 1943, gli anglo-americani sbarcano nella Sicilia centro-meridionale; ci si rifugia nelle grotte e nelle gallerie di vecchie miniere...
Erano anni tristi per centinaia di migliaia di spose e madri. Pinuzza non era meno delle altre, anzi per molti animi sensibili di vicine e parenti era considerata una sepolta viva e nessuno riusciva a farla uscire di casa nemmeno per le feste principali, un funerale o una cerimonia in chiesa.
Addirittura alcuni per vile egoismo auspicavano che Tano non tornasse più, per potere un giorno impalmare la giovane vedova; altri ronzavano intorno alla casetta della sposina per meno nobili motivi.
Due anni ancora passarono fra le angosce delle attese e le difficoltà dell'esistenza stentata.
Giunse con la primavera del 1945 la tanto attesa pace mondiale; a poco a poco giungevano dai lager tedeschi o dai campi di prigionia anglo-americani i militi superstiti, ma di Tano in assoluto nessuna notizia.
Pinuzza rimaneva sempre più chiusa nel suo tacito dolore.
Si parlava dei circa ottanta mila prigionieri italiani dispersi nelle steppe dell'URSS e i familiari di Pinuzza si sforzavano in ogni modo di non far giungere tali notizie alla sposina sempre più sconsolata e chiusa nella sua pena.
Molti giovani del paese cumu lapuna gironzolavano in ogni ora del giorno e della sera intorno alla casa della giovane al centro della loro attenzione, sperando di intravederla e, in un modo o l'altro, farle conoscere, sia pur con una semplice attenzione d'un incrocio d' occhiate, la loro più o meno onesta intenzione. Altri speravano nell'intermediazione di qualche amica e arrivavano persino a proporre un'unione di fatto dal momento che i tempi della morte presunta rimanevano lontani.
Di certo non mancavano le anime buone che si dolevano delle afflizioni della poveretta, ma la loro comprensione non faceva, per nulla, proseliti nel vicinato.
Nel rione abitava Carminu D., baldo giovane meno maturo dell'avvenente Pinuzza; egli tempo dopo avrebbe sposato una gioviale coetanea dalla quale ebbe bei figlioli, la più giovane dei quali vive in atto a Villarosa.
Una di quelle tristi mattine del tardo dopoguerra si sparse la voce che Carminu non si vedeva in giro da qualche giorno. Invece di chiedere alla notizie alla famiglia si cominciò a creare una piccante storia di fuga d'amore, di na fujtina.
Subito le ciarliere del quartiere si misero all'opera e crearono un'orecchiabile canzoncina impietosa con nomi e cognomi che ebbe la “fortuna” che non meritava.
Ancora oggi miei coetanei, e forse altri, più giovani, canticchieranno:

Pinuzza la G. cchi facisti?
ccu Carminu D. ti nni scappasti...
Cincu mila liri ti li purtasti
ma o stessu nne tavuli durmisti...

eccetera, eccetera...

Pinuzza vittima vivente di due guerre, della Mondiale e di quella di Cortile, lasciò, di notte e per sempre, l'ingrato paese.


martedì 29 maggio 2012

UNA FREDDA CRUENTISSIMA VENDETTA

             UNA FREDDA CRUENTISSIMA VENDETTA      

         Abbiamo avuto modo di conoscere la patetica vicenda di don Vannuzzu Milano che a freddo ebbe a subire la mortificante vendetta conseguente al suo vizietto di devastare i pomposi ciuffi ostentati dai giovani villarosani di fine ‘800.

        Don Vannuzzu partendo per l’America lasciò in Villarosa un figlio naturale, tale Jabbicu Cianciana. Questi cresciuto in un nucleo familiare molto modesto ebbe nondimeno l’opportunità di frequentare la scuola e di metter su un emporio molto fornito, in special modo di attrezzature e materiali di consumo in uso nelle decine di miniere, grandi e piccole, del territorio.
Egli era un personaggio benestante e molto noto in paese, tanto che  gli era pure consentito di essere un permissanti, cioè aveva avuto rilasciato dalle autorità di polizia un regolare porto d’armi.
Questi particolari li ho raccolti dalla viva voce di un mio amico il cui padre era imparentato con la moglie del Cianciana.
A quel tempo le liti violente erano all’ordine del giorno e le stesse spesso si risolvevano con ferimenti spesso mortali.
Un triste mattino scoppiò una lite tra don Jabbicu e un malandrino della famiglia dei B. I presenti e i passanti occasionali ben conoscendo i soggetti cercarono di interporsi fra i due; ma il B. ebbe l’opportunità di appioppare un sonoro schiaffo sul viso dell’avversario.
Il  gruppo che tratteneva il B. lo trascinò verso la sua abitazione, l’altro capannello che teneva a freno il Cianciana cercò di non farselo sfuggire per evitare il peggio, conseguente ad una più pesante reazione. 
A questo punto scesero in campo i “pezzi da novanta” del paese, che dopo lunghissime trattative fra le ragioni dei due contendenti pervennero ad un accordo accettato dalle parti: il Cianciana rinunciava alla sua vendetta in difesa del suo onore solamente alla condizione che il B. avesse lasciato Villarosa e non vi avesse posto più piede per tutta la vita: in caso contrario l’offeso si sarebbe ripreso il diritto di eliminare l’offensore.
I tempi erano abbastanza duri; da poco s’era conclusa la Prima Guerra mondiale con una vittoria che non risolvette un bel niente dal punto di vista economico e sociale. L’epoca precedente non era stata meno triste perché il banditismo, di costume e di protesta, era stata e rimaneva una piaga sempre viva; ora specialmente che le bande si erano rafforzate per via dei numerosi casi di renitenza in genere alla lunga leva militare e al rifiuto al richiamo alle armi per  i motivi strettamente bellici.
In quel clima di crudele azione e reazione era d’obbligo che ogni offesa si lavasse col sangue.
In Villarosa nessuno credeva che uno dei più baldi rappresentanti del clan dei B. potesse accettare una condizione così umiliante; dall’altro versante ugualmente si era certi di un’analoga aspra reazione pronta a scattare.
Passò qualche anno e la cittadina quasi dimenticò la temuta resa dei conti, ritenendo che il B. avesse varcato l’Oceano.
Una mattina come di consueto don Jabbicu Cianciana lasciò nel negozio u giùvini e si avviò o rrivìlu, cioè alla fermata della carrozza che collegava il paese alla Stazione ferroviaria, per ritirare la sua copia del “Giornale di Sicilia” a cui era abbonato, quando si trovò faccia a faccia col suo indimenticato offensore.
Gli astanti non ebbero il tempo di percepire il tanto temuto tragico incontro, solamente se ne resero conto quando furono scossi dai colpi secchi della pistola ancora fumante che don Jabbicu aveva estratta dalla fondina e usata con fredda matura determinazione.
L’onore era salvo, la libertà compromessa.
Gli restava aperta solamente la via della macchia; ripose l’arma nel suo fodero, s’immise nella via Poeta, rasentò u chianu di Giugnu e attraverso u pasciuguagliu si cacciò nel segreto mondo di una malavitosa esistenza.
Nei primi tempi nulla si seppe di lui, ma tutti pensarono che non gli sarebbe mancato l’appoggio materiale e morale degli oppositori alla banda a cui aderivano i B.
Don Jabbicu Cianciana presto diventò il punto di riferimento e capo indiscusso d’un cospicuo segmento della malavita della zona e mantenne saldo il potere per qualche anno.
L’epilogo di questa triste faida ebbe come tragico teatro il cinquecentesco palazzo sant’Anna, nell’omonima contrada del nostro territorio.
Sentii i primi accenni a questa atroce vicenda nella Pasquetta dei miei quindici anni quando la mia famiglia fu invitata a trascorrere la giornata di festa in quell’antica dimora. Fu allora che mi fu indicato con raccapriccio un comunissimo forno a legna e mi fu fatto il nome di tale Cianciana di cui sentivo ancora parlare come famoso bandito del primo dopoguerra.
Si dice comunemente che la vendetta è un piatto che si serve freddo, ma spesso per amore di pace si vuole dimenticare il profondo e spietato significato del detto e si spera che il tempo possa essere riuscito a spegnere i distruttivi bollori originari.
Ciascuna delle bande era braccata dai carabinieri e contemporaneamente dagli avversari. Il desiderio di pace sordamente si faceva strada negli animi che erano ora più disponibili a possibili aperture a qualche forma di tregua.
Questa umana ed intima voglia di tregua dovette essere il grimaldello che fece scattare la subdola trappola tesa dai malvagi più impenitenti.
È comune il detto nostrano che “la porta si apre dal di dentro”; non è facile espugnare una città fortificata senza un manipolo pur piccolo di traditori.
Sedicenti pacieri sparsero la voce che l’accordo era stato raggiunto e che l’evento si sarebbe festeggiato nel palazzo di sant’Anna. Un gruppo di sostenitori di Cianciana raggiunsero il luogo fissato; furono accolti con esultanza e  nel contempo appresero che il loro capo aveva fatto sapere che sarebbe arrivato con qualche ora di ritardo e che intanto li invitava a cominciare a pranzare, considerata la circostanza che erano stati in viaggio e digiuni da diverse ore.
Il gaudio sprizzava dai volti esultanti degli ex avversari; la mensa era imbandita con addobbi principeschi; la fragranza di carne con patate al forno si spandeva per l’immensa sala; le caraffe di vino abbondavano sulla tavola.
Per ore gozzovigliarono da allegri compagnoni dimentichi dell’odio che li aveva divisi per molti anni e delle armi che per la prima volta avevano potuto lasciare nell’attiguo camerino, senza distinzione della cosca d’appartenenza.
Quando i fumi dell’alcol ebbero fatto il loro prevedibile effetto, gli invitanti si distanziarono dagli ospiti, mentre il capo della banda rivolgendosi a quest’ultimi comunicò loro che avevano mangiato i pezzi delle carni più pregiate dell’amato Jabbicu Cianciana.
Mentre gli ospiti, storditi dalle bevande e trasecolati per l’inimmaginabile annuncio, si guardavano inebetiti, cominciarono ad essere passati tutti per le armi.

mercoledì 7 marzo 2012

DUE PRETI INDEGNI DEL XIX SECOLO
Spesso mi chiedo quanti saranno stati nel tempo i fatti scabrosi, relativi a persone che contano o che fanno parte di congreghe, maliziosamente coperti da quella polvere sottile che la falsa Storia lascia depositare silenziosamente.
Per fortuna spesso questa cinerea coltre si rivela  neve che si scioglie pur tardivamente al sole della verità.
Da poco sono venuto a conoscenza di opere di due poeti villarosani dell’ ‘800 che inspiegabilmente sono rimasti ignoti persino ai nostri vecchi: Salvatore Scavone e Giuseppe Albo. Ambedue ottimi verseggiatori in lingua italiana: il primo si dichiara allievo del secondo a cui dedica con immensa devozione una sua opera. Del secondo spero di poter parlare in altro momento.
Il volumetto POESIE” di Salvatore Scavone è del 1872, edito in Caltanissetta dallo Stabilimento Tipografico dell’Ospizio di Beneficenza. In esso sono contenuti fra l'altro due sonetti che riguardano la moralità di innominati preti suoi contemporanei. Molte poesie della stessa silloge sono riprese nella sua opera successiva “PRIMI FIORI”, ma dei due sonetti che seguono non si trova più traccia in quest’ultima. 
Ritengo opportuno citarli in questa sede per completare il discorso iniziato su questo delicato argomento che a suo tempo avrà fatto senz'altro tanto male alla pubblica moralità e soprattutto alla Chiesa.
E’ il caso di far notare ai soliti bacchettoni, che nel momento in cui essi puntano il dito sulla rilassatezza dei costumi della società in genere, ignorano i peccatori della loro Chiesa. Essi si ergono a giudici severi perchè si autoproclamano esclusivi possessori della Verità, puntano il dito sui comuni peccatori e nello stesso tempo coprono le malefatte dei loro congregati.
Spesso la Chiesa, mostrandosi caritatevole e dispensatrice di perdono, nasconde la cruda verità dei fatti che riguardano suoi fedeli, dimenticando di tradire le chiare parole di Gesù: “E' necessario che gli scandali avvengano”.
Quello che non dovrebbe esistere è il peccato, ma una volta che esso c'è dovrà essere messo in luce per far riflettere i membri della società tutta, dei credenti e dei non credenti.
A 140 anni dei fatti narrati nulla è cambiato nell'orientamento morale della Chiesa che nel caso dei preti pedofili, del caso Claps o degli scandali finanziari una chiara risposta non l'ha mai data e la tradizionale coltre di silenzio incancrenisce sempre più la società, Chiesa compresa

Da “POESIE” di Salvatore Scavone pg.7

LA MORTE DI UNO SFRENATO PRETE

Fra sozze tresche amò la vita, or l’empio,
stanco per gli anni, in lagrimevol suono,
ei, che fece di tutto un crudo scempio,
osa all’Eterno dimandar perdono.

Profanò del Signor l’altare, il tempio,
fe’ tremare, imprecando, il divin trono.
O delusi credenti, ecco l’esempio
di chi disse di Dio, Ministro io sono!

Spregiuro ai sacri voti, ebro germano
di Giuda, il qual con un sol bacio almeno,
ed ei con mille a Cristo il seno aprìo.

Sangue innocente imporporò sua mano,
vergin sedusse e ne corruppe il seno…
Ed or sì tardi vuol placare Iddio!

         Questa descrizione si attaglia bene al “parrinu bagasciu”,.di cui si  è parlato
        

Da “POESIE” di Salvatore Scavone pg.8

UNA STAFFILATA AL PRETE

Mostra all’aspetto d’aver buono il cuore,
fugge la vanità, giammai s’adira,
di Bimbo sembra aver l’almo candore,
a venerarlo l’apparenza ispira.

Soffre disprezzi, angustie, ogni dolore
per amore di Gesù, per cui delira,
e notte e dì con eccessivo ardore
il devoto fedel piange e sospira…

Oh, ipocrisia di sì malvagia prole,
in volto ha la virtù, mortal veleno
nascosto in core e nell’infida mente.

Molti egli inganna con dolci parole,
di vergin casta e pia corrompe il seno…
Povero Cristo e sciagurata gente!

Questo esempio di viscida ipocrisia si adatta a perfezione alla figura del padre naturale d’un serio professionista villarosano, di cui da ragazzo sentivo parlare, e che, già prima ch’io nascessi aveva trasferito la sua attività in una città vicina, dove io studente lo conobbi, molto vecchio, nel 1950.
I vecchi della mia infanzia, pur stimandolo, dicevano serenamente, che, nato in una poverissima famiglia, non avrebbe potuto laurearsi ed impiantare la sua costosa attività se non grazie all’aiuto materiale del padre naturale, un prete.
La data di nascita dello stimato concittadino coincide con la pubblicazione dell'operetta originale dello Scavone.

martedì 17 gennaio 2012

Ipotesi su come una stratella possa diventare un ampio e luminoso corso

Un nostro lettore che si firma Huge, leggendo il mio post “Una lenta incruenta vendetta” che così inizia “La nostra via Milano, la più lunga dopo  il Corso Garibaldi, si estende “da muramma”, oggi via Cossa, fino “a stratella”, il corso Regina Margherita…” , mi chiede: “ Ma c'è qualche motivo particolare per cui Corso Regina Margherita veniva detto a stratella???”. Sulla “muramma” non c’è tanto mistero perché la via Cossa nasceva dal Corso Garibaldi lato sud con a destra una casetta singola abitata da un sola famiglia; appresso a  questa modesta costruzione iniziava un muro a secco che tratteneva i terreni a salire fino alla “vanidduzza” ; di sera la zona, complice il buio, era frequentata da quanti non avevano servizi igienici in casa.
Tutte le persone nate e cresciute nel quartiere del corso Regina Margherita e non solo, compresi i ragazzi, continuavamo a chiamarlo “stratella”. Io non ero per nulla convinto che una via così larga non poteva indicarsi con un nome così ristrettivo, ma alla mia osservazione nessuno seppe mai dare una soddisfacente risposta.
Quando il vecchio nome di già era caduto in disuso tra le nuove generazioni, compresa la mia, scattò in me la reminiscenza di una vecchia ipotesi scaturita da un dettaglio non trascurabile che avevo sentito formulare da un anziano che a sua volta da ragazzo ne aveva avuta notizia da persone di più avanzata età: gli ingressi principali del Palazzo Ducale e della Chiesa Madre erano in antico sistemati allo stesso livello, uniti da un unico monticello senza l’infossamento attuale del corso Regina Margherita.
Avevo lasciato tale ricordo nel cantuccio del mio cervello perché non mi convinceva in quel contesto una concepibile sistemazione della vicina piazza e dell’orologio civico. Un giorno casualmente sentii citare il comune detto che “Roma non fu costruita in un solo giorno” e subito pensai alla pittrice Rosa Ciotti che nella seconda metà del ‘700 aveva tracciato la lineare topografia del nostro paese, che rimase per quasi due secoli modello scrupolosamente rispettato. Era relativamente facile rappresentare una futura cittadina sulla carta, ma c’era da fare i conti con la realtà materiale del suolo in tempi in cui erano impensabili ruspe a motore e mezzi meccanici oggi d’uso comune.
Cercando d’immaginare scenari del passato cominciai col notare che sul frontale tutto della chiesa e poi sulla fiancata maggiore, è ben visibile una larga reseca che va a perdersi gradualmente quasi fin dove arriva la costruzione sacra. Considerando poi la conformazione della porta secondaria (a porta fausa) sul corso notiamo degli scalini a scendere all’interno di essa e altrettanti all’esterno. Da tanto si desume che nei tempi iniziali della chiesa appena costruita l’uscita secondaria doveva essere a livello della strada. Nel fronte opposto ebbi in tempi passati possibilità di appurare che i pianterreni oggi esistenti sotto il Palazzo Ducale sono dei seminterrati senza sbocco nella retrostante parallela via Genco: la conclusione mi è sembrata ovvia, reseca e pianterreni erano un tutt’uno, coperti da un monticello che partiva più o meno dall’altezza dell’odierna Banca San Paolo e univa gli accessi alle due antiche e prestigiose costruzioni, la civile e la religiosa.
La planimetria della futura Villarosa, ispirata al neoclassicismo settecentesco, fu rispettata con scrupolosità e ogni nuova costruzione seguiva quel piano regolatore originario senza le furberie dei tempi successivi.
Ora volgiamo lo sguardo più in alto, oltre la linea delle odierne via Milano e via Genco. Esse appaiano in leggera pendenza verso est, ma se saliamo sempre più su notiamo che a mano destra le vie che si riversano nel corso vanno diventando sempre più ripide fino alla scalinata di via Giordano e il bastione che affianca il Monumento ai Caduti in guerra, sorto sui ruderi d’una vecchia chiesetta dedicata a San Giuseppe, che dava il nome a tutto il quartiere .
Dal lato sinistro del corso invece notiamo uno scoscendimento delle vie verso est e nello stesso tempo un rialzamento della sede stradale ottenuto con un’opera muraria eccellente che ci ha consegnato il meraviglioso corso che oggi ammiriamo. A tale proposito è il caso di elogiare gli antichi costruttori del muro ad est che sostiene il piano stradale, costruito per i carretti e si mantiene ancora solido al passaggio di furgoni ed autotreni.
S’è detto che anche Villarosa non è nata nel breve tempo in cui fu ideata, quindi immaginiamo la zona tutta con la collina che scende dal Cozzo che veniva edificata casa dopo casa nel corso di più d’un secolo, sempre seguendo le linee indicate dalla Ciotti. Come poteva apparire ai nostri antenati quel territorio? Il versante d’una collina fangosa d’inverno ed arida d’estate. Su di essa i carretti che trasportavano il pietrame per le case in costruzione, le zampe degli animali da soma e i piedi dei cittadini ne avevano tracciato col continuo uso un viottolone, a stratella, così nominata ancora fino alla mia infanzia.
Questa è la mia ipotesi elaborata su scarsi frammenti di memoria antica.
Ringrazio Huge per l’occasione offertami e invito tutti gli amatori del proprio paese a collaborare suggerendo ricordi destinati a disperdersi  nel nostro blog tutto villarosano  www.bellarrosa.blogspot.com .

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