domenica 17 novembre 2013

L’ULTIMO SCHIAVO DI VILLAROSA


Già più volte ho tentato, ma invano, di ricordarmi il nome del personaggio di cui vado a trattare; ho interpellato tanti della mia età, persino i fratelli Cirino suoi vicini di casa, tutti ricordano perfettamente il soggetto ma non il nome.
Almeno per il momento, voglio indicarlo come Caluzzu.
Questi, quando io ero nella prima adolescenza, aveva superato la mezza età e ancora lo ricordo nel particolare rilevante di due gote d’ intenso colore roseo, che per chi non conoscesse bene il soggetto sarebbe apparso quello d’un avvinazzato.
 Non ebbi mai motivo di parlargli, ma mi colpiva di lui la seria indole, ben lontana da certe sgarbatezze tipiche della categoria di uomini da fatica, cui poteva essere accomunato, che a quei tempi bighellonavano in piazza in cerca di qualche occasione di piccolo guadagno.
Quello che m’impressionava di quell’uomo era la circostanza che nelle domeniche e nei giorni di festa si presentava in giro, pur senza lusso, con camicia e cravatta e ben pettinato, mentre coloro che io annoveravo nella categoria di esecutori di lavori umili non mutavano d’abito né mostravano apparenti segni di ordine e pulizia.
Questa diversità attraeva la mia attenzione, ma non ritenevo di fare domande in merito perché non valutavo che, pur nella sua eccezionalità, si trattasse di fatto straordinario.
Un pomeriggio di festa del dopoguerra, trovandomi in piazza con mio padre, di punto in bianco egli m’indicò a distanza Caluzzu e mi disse: - Vedi? Quello è l’ultimo schiavo di Villarosa.
Nella mia ingenuità ritenevo che la schiavitù fosse scomparsa in Europa con l’avvento del Cristianesimo e che fino a circa un secolo prima la tratta degli schiavi di colore fosse ancora in vigore negli U.S.A., secondo quanto da poco tempo avevo letto in un’edizione ridotta de “La Capanna dello Zio Tom”.
La frase di mio padre mi è da sempre sembrata estemporanea, ma oggi che scrivo questa nota reputo che egli abbia voluto introdurre di proposito l’argomento avendomi visto già fra le mani quel libro e voleva forse farmi capire che la schiavitù non era stata tanto lontana dalla nostra terra.
Nei giorni seguenti fra me e papà s’intrecciarono nei ritagli di tempo mie domande con altrettante sue risposte, che in genere erano brevi e il tutto mirava forse a non esaurire l’argomento per indurmi a riflettere ancora di più.
Caluzzu era l’ultimo nato di una famiglia numerosissima quanto poverissima. I fratelli dai sei anni in poi divenivano carusi di pirrera e le sorelle criate presso famiglie benestanti.
I genitori, come di solito avviene in molte case, sono più cedevoli nei riguardi dell’ultimo rampollo; nel caso del nostro personaggio alla tenerezza dell’età si associava destrezza speciale nella soluzione di piccoli problemi di vita pratica e sveltezza nell’eseguire mansioni più che adeguate alla tenera età.
Queste doti positive del ragazzino, appena egli si avvicinava all’età per divenire carusu, non sfuggirono a don Peppino Profeta, che conosciamo come Sindaco da non dimenticare, che da sempre aveva avuto modo di verificare l’onestà di quella famiglia, perciò ritenne opportuno utilizzare il ragazzo per i più vari piccoli servizi, che specialmente in un’attività di commercio sono utili e frequenti.
I bisogni delle famiglie povere sono sempre infiniti e in quella di Caluzzu ci fu un momento di estrema necessità che indusse i genitori a cedere, in parola, il ragazzo ai Profeta come pegno e garanzia di un modestissimo prestito che già s’era certi di non poter restituire in avvenire.
Questa forma inumana di anticresi che nel nostro dialetto è indicata con l’espressione godi e godi era molto comune, principalmente nell’ambito minerario, in cui poveri ragazzini erano affidati a picconieri per conto dei quali portavano alla luce del sole minerali di zolfo greggio su una cesta a forma di cono, detto stirraturi, e anche in campo agricolo-pastorale erano consegnati a curatoli per la custodia del gregge e per altri più umili incarichi.
Tanto mi faceva rabbrividire, ma molto di più mi faceva allibire l’affidamento a vita di un ragazzo a un estraneo.
Mio padre, leggendo in me il grande turbamento, mi ricordò la nota fiaba di Pollicino, e mi spiegò che il gesto di genitori che abbandonavano in un bosco i propri figli non era una gratuita crudeltà, ma un espediente straziante di affidarli alla fortuna d’un vago quanto possibile miglior destino, al solo scopo di non vederseli davanti a sé e lentamente morire di fame.
Chiudo questa triste storia con una battuta di mio padre che quando qualcuno di noi figli faceva qualche piccola bizza verso il gradimento di un cibo, diceva con tristezza:
- Cumu si vidi ca nunn’aviti fattu u Viaggiu a Beddra Matri do Pitittu!


Cerca nel blog

Lettori fissi

Archivio blog