mercoledì 23 novembre 2016


UMANE CREATURE ALLO SBARAGLIO


La dolorosa storia che segue, una fra le tantissime, è rivolta principalmente a quanti (e non sono pochi) sostengono che i sindacati sono la causa principale della crisi dell’odierna economia e chiudono gli occhi sui tempi duri in cui i datori di lavoro si arricchivano alle spalle dei lavoratori, che quando perdevano la vita o acquisivano sul lavoro un’invalidità permanente, lasciavano le rispettive famiglie nelle più terribili delle necessità.

Il tragico caso che propongo è del 1913, ma prima d’allora ne erano accaduti di già tantissimi; ancora oggi, sia pure in minor misura, continuano mietendo vittime innocenti anche se sono presenti varie forme di tutela da parte di molteplici attività sindacali.

 L’economia villarosana d’un secolo fa, e anche prima, era in massima parte sostenuta dalle miniere di zolfo che a decine, fra grandi e piccole, offrivano occupazione a molte centinaia di cittadini, dalla puerizia all’avanzata età, nelle varie mansioni attinenti l’industria estrattiva.

Don Carmelo Albanese, meccanico tornitore, lavorava in una di quelle miniere molto distante dall’abitato. Il suo felice matrimonio era stato di già allietato dalla nascita di una bimba e quattro anni dopo la moglie era in imminente attesa di nuovo erede, ovviamente sperato maschio.

I parenti più stretti non erano eccessivamente preoccupati per i gravi pericoli della miniera dal momento che ben sapevano che la sede di lavoro del proprio familiare non era nel ventre della terra ma nell’officina piazzata in superficie.

Raramente fabbri e meccanici erano chiamati ad eseguire lavori nelle gallerie, salvo quando, per lo più rotaie e vagoni, necessitavano di qualche rabberciatura o di sostituzione di pezzi, ma sempre operavano lontani dalla linea di avanzamento.

Don Carmelo scendendo qualche volta giù nel cuore della miniera aveva notato un leggero scricchiolio dei cavi della gabbia, la cui attività era necessariamente quasi continua. Di conseguenza aveva fatto notare più volte a capomastri e proprietari il rischio che poteva scaturire da quel significativo indizio: tutti si mostravano pronti ad assicurare che al più presto si sarebbe provveduto, non appena sarebbero arrivati i “varrà”, il nome sicilianizzato dell’inglese warrant, cioè l’attestato che il corrispettivo in moneta dello zolfo venduto era stato versato in banca e quindi disponibile al prelievo da parte della ditta.

I “varrà” arrivavano, ma di nuove funi, manco a parlarne.

Si risparmiava su tutto, meno che sulle vite umane: i minatori spesso lamentavano il rischio imminente di crolli, ma si lesinava persino sulle armature dei punti avanzati, per le quali spesso erano utilizzate travi logore o rabberciate.

Quando giunse l’ottobre del 2013, centenario della vicenda che segue, più volte mi sono accinto a scrivere in merito, però mi cadeva la penna dalla mano, per usare una espressione oggi quasi in disuso.

Oggi invece non ho più intenzione di indugiare e mi dò forza a far rivivere la presente tragica storia e nello stesso tempo per lasciare memoria delle altre centinaia piombate sull’esistenza di altrettante famiglie nei due secoli di piena attività mineraria siciliana.

La funesta vicenda che segue aveva colpito particolarmente il ramo materno della mia famiglia. Fin da piccolino ogni tanto ne sentivo accennare con brevi e desolanti allusioni, ma io, pur curioso per natura, non osai mai far rievocare il funesto evento.

La triste storia ebbe inizio proprio nello stesso giorno della venuta al mondo di mia madre.

I nove mesi della gestazione erano sullo scoccare: una mattina, già prima dell’alba, il nonno aveva intuito che la cara consorte era prossima al parto.

Stette al lavoro tutta la giornata in forte ansia; poi provò a chiedere di potere anticipare eccezionalmente di qualche ora la fine del turno: l’ottenne. Mentre però si preparava a raccogliere frettolosamente le cosette personali nella sacca d’olona, all’improvviso fu chiamato d’urgenza per un intervento assolutamente improrogabile nella galleria.

Mio nonno e due fabbri avevano appena cominciato a calarsi dentro il gabbione, quando improvvisamente, quelle stesse funi che avevano da tempo dato segni di deterioramento, si spezzarono facendo precipitare il tutto fino in fondo, con la sfrecciante velocità che può imprimere la libera forza di gravità: nessuno dei tre si salvò.

Intanto in quelle funeste ore la nonna aveva partorito la mia mamma, la seconda femminuccia.

         La poverina attendeva l’arrivo del caro marito: le ore passavano e le ansie aumentavano, fino a diventare angoscia e progressivamente completo struggimento.

Intanto la fatale notizia era pervenuta in famiglia, ma nessuno trovava l’ardire di comunicarla alla puerpera, che dal letto bramava per il ritardo inconsueto dell’amato consorte.

La poverina leggeva negli occhi dei familiari che le stavano attorno che qualcosa di grave era avvenuto e cominciò a piangere l’amato sposo come morto. Poi quando s’accorse la sventurata che nessuno osava smentirla, ebbe la chiara conferma dell’immane perdita.

Allorquando la disperazione era arrivata al culmine, toccò alla sua stessa madre di confermare la tremenda sciagura appena accaduta.

La neonata, mia futura mamma, doveva chiamarsi Virginia come la nonna materna, invece le fu imposto il nome, al femminile, del padre che non conobbe mai, Carmela.

Apparirebbe inutile ripetere le tristi conseguenze di questo tragico evento nei riguardi dei familiari che dall’oggi al domani venivano a trovarsi colpiti nel cuore e caduti nella miseria più nera conseguente al mancato, sia pur inadeguato, guadagno.

Forse il Creatore immise nel mondo una percentuale di coppie sterili perché queste si prendessero cura, con pari amore, di quanti avevano perduto i naturali genitori.

La famigliola incompleta di mia nonna Angelina entrò nel numero dei graziati: zia Rosina e zio Calogero furono pronti ad annettere alla propria l’altra delle tre sventurate creature, vittime del destino e soprattutto dell’ingordigia umana.

 Dieci anni prima in Villarosa era stata creata la “Lega di miglioramento tra operai e zolfatai”. Questa a quel tempo sembrò una conquista, ma era sostenuta unicamente dall’apporto mensile di una lira da parte d’ogni operaio e di 50 centesimi di ciascun carusu: i padroni delle miniere non contribuirono a questa magra Cassa nemmeno con nessun pur misero versamento.

Mia nonna ricevette dalla “Lega di Miglioramento”, a seguito dell’incidente mortale del marito, 300 lire soltanto, valevoli per tutta l’intera esistenza sua e delle figlie.

Faccio ora un salto temporale nel successivo mezzo secolo, a metà circa degli anni ’60, quando mia nonna era ormai ultra settantenne e viveva con i mei genitori. L’Italia del cosiddetto boom economico si ricordò di quanti ancora sopravvivevano a quell’immane ingiustizia e volle concedere un contentino riparatore; mia mamma però non volle accettare assolutamente quella tardiva offerta della Stato, dopo un’intera esistenza di sofferenze indescrivibili e quindi non volle categoricamente far inoltrare istanza alcuna alla nonna.

A quanti tra parenti, amici e vicine di casa le facevano notare che nessuno dei presenti governanti si sarebbe accorto del suo sprezzante gesto, rispondeva secca:

 - Troppo tardi! Mia mamma già sta bene con noi: oggi non le manca niente.

Nonna, papà e noi maturi nipoti non c’ intromettemmo nell’ esprimere un pur semplice giudizio relativo all’orgogliosa e sdegnosa decisione di mamma, effettivamente la più martoriata fra tutte.

martedì 25 ottobre 2016

UN'ESPERIENZA IMPREVISTA
nell’officina  do zzi Turiddu Profeta

I tempi della Guerra furono duri, ma i successivi all'invasione lo furono ancora di più perché le ostilità continuarono per altri due anni nella parte continentale della Penisola, dove erano ubicate quasi tutte le più importanti industrie, comprese le manifatturiere.
Ai tempi della mia infanzia e prima giovinezza le scarpe confezionate erano molto rare, tant'è vero che da noi non esistevano negozi del genere, mentre abbondava il numero dei calzolai che le confezionavano a mano, servendosi di forme lignee della adeguata misura del piede del cliente, sulle quali venivano impunturate le varie componenti.
Protagonisti iniziali di questo post sono le calzature, ovviamente per chi aveva la possibilità economica di procurarsele in un modo o un altro.
Su internet sono tante le foto di gruppo raffiguranti ragazzi scalzi, non solo per colpa della guerra ma per la diffusa povertà che prosperava in tempi non propriamente antichi.
Io stesso ricordo quei poveracci che riparavano le estremità inferiori con scarpi quasati: queste erano costruite con la cotica del maiale, che stagionata a dovere veniva tagliata a misura approssimativa allo scopo di potersene servire più familiari (C’era a tal proposito un detto tra lo scherzoso e l’amaro: Cu si susi ppi prima si mitti i scarpi a matina).
Erano cucite a mano con dei fili di pelle ritagliati dalla cotica stessa; questi stessi, legati alla parte superiore della calzatura, trattenevano degli stracci di vario genere, attorcigliati sugli stinchi.
Questo primitivo tipo di calzature, durante la mia infanzia, restò una rarità per il sopraggiungere di quelle ricavate dagli usurati copertoni di auto abbandonate e poi riusati a protezione delle estremità inferiori di poveri, in gran parte lavoratori della terra.
Le scarpe difficilmente erano buttate via quando avevano concluso il ciclo previsto: si riparavano in ogni scucitura, strappo, risolatura.
Al momento del bisogno, relativa a una mia calzatura la cui tomaia con l’uso era rovinata al massimo, i miei si ricordarono che in casa, da qualche parte, ci doveva essere una vecchia borsa maschile nera in pelle zigrinata, di già fuori uso perché logorata in molta parte della superficie.
Papà fece adattare dal calzolaio un ritaglio della parte della pelle meno compromessa.
Nessuno di noi se l’aspettava, ma alla mia prima uscita domenicale con le scarpine ben lucidate con la crema adatta (in dialetto ciruttu), ottenni un inaspettato figurone nel mio modesto ambiente socio-economico.
Ma non ci fu tanto da stare allegri, perché alle prime piogge furono le suole a "cantarsela": era un vero peccato dismettere le attraenti, per quei tempi, calzature a causa di pericolosi buchi, perché, oltre a bagnarsi i piedi, c'era anche il rischio di ferirsi con chiodi arrugginiti, schegge di vetri o pietruzze acute.
Urgeva quindi trovare due suole.
Rintracciarle di cuoio era pressoché impossibile. Che fare?
Si parlava in giro di suole ricavate da tagli a solette sottili di vecchie grosse gomme di mezzi militari, distrutti di recente da attacchi aerei nemici.
Ma chi poteva possedere tali materiali da adattare a un uso civile? 
A papà la risposta apparve ovvia: il “cugino” Turiddru Profeta, ultimo carrozziere villarosano degli antichi e declinanti mezzi classici, i “carretti siciliani”.
In quel tempo i termini cuscjì , zzi  e cumpà erano molto comuni anche quando non esisteva una forma di parentela o di comparatico, ma, ovviamente, ci doveva essere stato un antico amichevole e durevole rapporto.
U cuscjinu Turiddru diede a papà la conferma d’una favorevole possibilità di risolvere tale problema, così lo invitò a mandare me all’officina.
Il mattino seguente mi presentai nell’officina e mi avvicinai al tanto affaccendato artigiano, che mi rispose che quanto prima mi avrebbe servito.
La prima giornata trascorse in attesa di aver tra le mani le tante desiderate suole da portare al calzolaio. Mi ripresentai sempre speranzoso il mattino seguente e alle mie più frequenti sollecitazioni, u zzi Turiddru, indaffarato com’era sempre, mi rispondeva ogni volta:
- Tecchia di pacinzia, u niputi!
La terza mattina la pazienza resisteva ancora grazie all’impellente bisogno di quelle benedette suole. Ad un certo momento stavo per tagliare la corda, quando fra le tante manovre tecniche all’aperto, una mi colpì particolarmente: vedevo che i giovani aiutanti disponevano a circonferenza, con misurazioni accurate e controlli continui, tantissime pietre annerite dal fumo, ovviamente a causa di numerose bruciature precedenti.
Alla fine della messa in posa di tali massetti, cominciò la collocazione con maggiore cura di neri e lucidissimi pezzi di carbone fossile, che io avevo visto solamente nella forgia di qualche fabbro, dal momento che allora non ero ancora potuto arrivare fino alla Stazione ferroviaria, dove le locomotive a vapore, per quanto avevo sentito, funzionavano a carbone.
La mia fresca curiosità distrasse intensamente la mia pregressa snervante attesa e mi chiedevo, tra me e me, a che mirasse tutto quell’apparato sempre più misterioso.
Tutto il carbone poco dopo fu acceso formando un cerchio di fuoco, per me ancora più incomprensibile. Quando l’inspiegabile braciere a circonferenza divenne abbastanza vivo, vidi avvicinarvisi quattro, tra mastri e apprendisti (i “giùvini), che reggevano con altrettanti tenaglioni un cerchione di ferro che andarono a collocare, con scrupolosa accortezza, sull’ eccezionale rogo circolare infocato.
La mia attenzione era altamente attiva, tanto che non registravo più con impazienza il tempo sprecato nell’ attendere le benedette suole.
Pian piano il fuoco diveniva sempre più vivo e l’anello ferreo più arroventato, quando vidi depositare accanto al rogo circolare una ben nota raggiera lignea di ruota di carretto, priva però della componente marginale in ferro.
Cominciai un po’ a capire, ma mi rimaneva qualche dubbio in merito al fatto che si potesse tenere vicini il ferro infocato accanto all’infiammabile legno: tanto a me appariva come tenere vicini il diavolo e l’Acqua Santa…
Tutti i lavoranti erano lì, sempre allertati, aspettando che il cerchione divenisse incandescente al massimo; poi, pian piano ripresero in mano i tenaglioni, con i quali tolsero dal rogo il rotondo metallo e lo posero con estrema cautela attorno al robusto cerchio ligneo. Con mazze e martelli, accompagnati da maestria e attenzione, i due elementi diametralmente opposti per natura si unirono. Man mano poi che la parte rovente andava raffreddandosi, s’avvinghiava alla parte legnosa, fino a formare un tutt’uno con i due costituenti di natura diversa.
Da quel momento capii perché non vidi mai un tale anellone metallico sfilarsi da una ruota di carretto.
Appresi così prematuramente che il calore dilata i corpi e il successivo restringimento incastra ben bene corpi sia pur dissimili.
Non passò molto tempo che u zzi Turiddu mi mise in mano le sgobbate suole. Ringraziai, salutai e sfrecciai verso il calzolaio.

Quella casuale esperienza adolescenziale nel futuro contribuì molto a farmi capire la necessità dell’accoppiamento dell’impegno scolastico con ogni tipo di conoscenza diretta nella realtà. 

giovedì 13 ottobre 2016

PRIMO TIMIDO GESTO DI SOLIDARIETÀ FRA ZOLFATAI

Potrà sembrare incredibile che la parola della più terribile e frequente disgrazia presente nel mondo zolfifero della fascia centro-meridionale dell’Isola è stata ignorata, nel suo tragico verbo che la indica, nel grande Vocabolario Siciliano in cinque poderosi volumi dei proff. Piccitto e Tropea.
Ancor maggiormente inconcepibile appare l’uso della parola “zolfataio”, molto comune nel nostro mondo minerario, che non si trova nei comuni vocabolari della nostra lingua. Infine, quasi per caparbietà, ho consultato persino Il Grande Dizionario della Lingua Italiana in XXI vol. di Salvatore Battaglia, che di ogni parola riporta l’uso che se ne fa nelle opere letterarie. Ebbene finalmente l’ho trovata: essa è citata in una Gazzetta Ufficiale del 1967 nella quale si trattava della gestione straordinaria della Sezione Autonoma Zolfatai nella Provincia di Agrigento…

Si può pensare a casuali dimenticanze, ma non lo sono sicuramente: il nostro mondo del passato a noi prossimo ci lascia delle tracce ancora vive, ma esse sono in fase di dissolvimento continuo, particolarmente fuori dell’area mineraria.
Gran parte della Sicilia è quasi un altro mondo, lontanissimo dalle tre Province minerarie di Agrigento, Caltanissetta ed Enna; similmente ritengo che nelle altre ci saranno delle predominanze linguistiche e sociali che noi ignoriamo del tutto.

È raro che oggi il verbo scacciàrisi possa essere usato nel senso originario di perdere la vita sotto uno smottamento sotterraneo, tutto al più ci si può schiacciare un dito, un piede e peggio ancora perdere la vita perché finiti sotto da un pesante mezzo meccanico.
Non molti decenni fa il tipico verbo si adattava spropositatamente persino in solenni giuramenti, come quello arcinoto agli attempati, spesso sulla bocca di un anziano villarosano che quasi ad ogni occasione se ne usciva con l’espressione di conferma di quanto si era appena detto: “Sull’anuri di ma figlia Marì… scacciàrisi ma figliu Jachinu sutta na valata…”. [I nomi sono di pura fantasia]

Era pure frequente nella mia prima giovinezza sentire proferire imprecazioni pesanti del tipo: “Ti putìssitu scacciari!”.

In diversi post è stato citato il già nostrano verbo: il vecchio che impersonava San Giuseppe nell'omonima Tavola, per far capire che di cibo non ne poteva più ingerire, tornava a ripetere, impropriamente direi, ad ogni insistente invito: “Mancu si mi scacciu!”: perché era sazio abbastanza e la sua pancia purtroppo non era bisaccia per future provviste.

Nell’altro post, “La vita per un fico secco”, a “scacciarisi” sotto uno smottamento di materiale grezzo misto a venature di zolfo è proprio un carusu di pirrera, stroncato agli inizi della sua umana esistenza.

Com’è risaputo a quel tempo non esisteva nessuna forma d’assistenza o di sussidio alla famiglia colpita da un incidente mortale o da invalidità permanente, così si sfociava nella più estrema delle miserie materiali: le mogli andavano a fare le criate e i ragazzi i carusi di pirrera, che per pochi centesimi al giorno riempivano giù e portavano su alla luce del sole, dall’alba al tramonto, stirratura colmi di materiale.

Mentre da noi la realtà procedeva in tal modo, nel mondo occidentale sorgevano le prime organizzazioni di rivolta al fine di attutire un po’ le sofferenze dei vari popoli soggetti a tali assurde sofferenze; queste miravano a una più moderna visione sindacale che prevedesse contributi da parte di Enti Statali, Comunali, degli industriali e degli stessi lavoratori, finalizzati al miglioramento di vita della società tutta.
Solo nel 1903 in Villarosa i lavoratori delle miniere, per lenire al minimo la miseria più nera, interamente a spese proprie, cercarono di darsi una timida mossa di solidarietà, creando la “LEGA DI MIGLIORAMENTO TRA OPERAI E ZOLFATAI”.

 Contribuivano a formare questo patto unicamente gli stessi dipendenti col contributo mensile di 50 centesimi se si trattava di operaio, e 25 centesimi se “caruso”: ben poca cosa, perché né Stato, né Comune, né datori di lavoro contribuivano con fondi aggiuntivi a impinguare quella cassa.
Tanto risultò solamente come gocce d’acqua sul deserto.

Dell’esistenza di tale Statuto non ebbi notizia fino al 1999, quando l’anziano amico non più tra noi, signor Giacomo Fratantoni, cultore di patrie memorie, non mi concesse in visione per lettura e per copiarlo il succitato documento. Dello stampato originale di questo non ho ovviamente notizia, ma io ritengo doveroso diffonderne una pubblica copia perché rimanga in giro nel nostro ambiente storico-sociale per i vari cultori che oggi ci sono e spero che in avvenire continueranno a trovarsi.
Come ho più volte affermato il mio obiettivo non è tanto quello di scrivere per porsi al centro dell'attenzione, ma per lasciare tracce storiche nel futuro.
A tal proposito ho un’idea vaga relativa al suddetto Statuto, scritto per i disastrati lavoratori, ma certamente non da qualcuno di loro.  Temo proprio che sia stato un contentino per calmare gli animi esasperati dei molti sofferenti in giro e da notizie provenienti da luoghi lontani dove le garanzie di migliore esistenza avanzavano d’anno in anno.

Una collaborazione in proposito è sempre gradita, pertanto invito chi ha qualche idea in proposito da approfondire e confrontare, è pregato di esprimerla.
Per avviare ogni discorso in proposito allego, per il momento, il Programma introduttivo al contenuto dello Statuto.
Anticipo che quale Presidente della Lega di Miglioramento si firma tale G.Milano e come Segretario della stessa Raimondo D’Alù.
Appena riavvieremo il discorso in merito, farò in modo di offrire, a chi lo chiederà, copia dello Statuto, per far sì che questo Documento non vada perduto, come si sta perdendo gran parte della cultura mineraria.

INTRODUZIONE ALLO STATUTO
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L’epoca che attraversiamo è delle più scoraggianti, due grandi forze con accanita lotta si contendono il terreno palmo a palmo, e sono i capitalisti esercenti le miniere di Zolfare, e gli operai lavoratori nelle stesse.
Or siccome nelle amministrazioni l’operaio zolfataio col suo faticoso lavoro, andando incontro di momento in momento alla morte più disgraziata viene malamente retribuito, e possibilmente avvilito ed umiliato, di fronte a questo stato di cose, la libertà dei tempi gli dice di non restare indifferente, svegliarsi e togliersi dall’apatia che per tanti anni lo ha reso umiliato.
A questo scopo in ogni nazione Civile del mondo, si è sollevata una voce che dice allegatevi o fratelli operai.
Una lega che sorge, solamente per il benessere morale ed economico dell’operaio deve essere rispettata da Dio e dalla legge, poiché da tutti è saputo che l’unione fa la forza.

Ritenuto quanto sopra si è detto, è dovere morale che ogni operaio delle Miniere concorra con la sua opera a crescere e sostenere la concentrazione della Lega di Miglioramento, poiché con questo solo mezzo non si può essere sfruttati ed umiliati, ed ogni altra via non sarebbe né onesta né utile.

venerdì 7 ottobre 2016

QUELLE 5000 LIRE CHE NEGAI


Tantissimi anni fa quando ancora insegnavo, sempre nel plesso “Silvio Pellico” ma in altra classe diversa dalla mia, vi frequentava un alunno che io sapevo orfano d’ambedue i genitori e che viveva con la nonna vedova.

Ero certo che, a parte l’affetto genitoriale, non gli mancava sicuramente l’essenziale.

Il bambino gradiva la mia umana attenzione ma non mi chiese mai qualche specifico oggetto, né qualche monetina per i suoi naturali piaceri o per ovvi modesti bisogni confacenti alla sua tenera età.

Un pomeriggio m’incontrò fuori, s’avvicinò, salutò e mi chiese 5.000 lire, che a quel tempo era una notevole sommetta, che incideva non poco sul modesto stipendio di ogni ordinario dipendente statale.

Gli chiesi cosa volesse comprare di così costoso e mi rispose che egli era stato ricoverato in ospedale e che i medici dimettendolo gli avevano consigliato di bere acqua minerale.

A quel tempo l’uso di questa non era consueta come può esserlo oggi, salvo casi particolari, come di certo poteva pur essere quello del ragazzino. La somma richiesta però la ritenevo eccessiva: secondo me tutta quella riserva d’acqua in numerosi fardelli avrebbe occupato di per sé un bel po’ di spazio nella loro angusta abitazione.

In primo momento volevo ridurgli la somma a sole 1000 lire, ma lo esclusi subito perché volevo accertarmi ulteriormente in merito al motivo dichiaratomi: temevo, e ne avevo ben ragione, che il ragazzino fosse vittima di qualche mascalzoncello e che sotto sotto ci fosse qualche immaturo caso di bullismo infantile, frequente nelle classi, compresa la mia e in strada.

Eccezionale era la richiesta ma straordinariamente incredibile fu la conclusione: pochissimi giorni dopo appresi che il ragazzo aveva raggiunti gli Angeli in Cielo, dove acqua e soldini di certo non servivano più.

La notizia mi straziò l’anima e provai intimamente un pizzico di colpevolezza per quella imprevedibile fine.

Non avrei concluso granché con la mia abbondante e incerta carità, ma avrei risparmiato all'animo mio quest’altro rammarico, che si aggiungeva al dolore per la perdita immatura del ragazzo, già abbastanza provato da tanti dolori, principalmente dalla crudele precoce dipartita dei suoi genitori.


A oltre trent'anni da quell'imprevedibile evento, nel mio animo resta ancora una piccola ferita che pur non essendo sanguinante, ha lasciato un incancellabile segno: tant'è che ancora ne parlo con viva sofferenza.

mercoledì 21 settembre 2016

LE CASE DEL PASSATO E LA VITA DI RIONE

         Le case del passato differivano notevolmente da quelle d'oggi soprattutto per ampiezza, suppellettili e servizi igienici.

        È preferibile rifarci alla casa di un determinato periodo: quello degli ultimissimi anni ’20 del secolo che abbiamo lasciato da non molto, come Villarosa si presentava prima dell’allacciamento all’energia elettrica. Questa fu la più importante e quasi unica applicazione indirizzata alla casa e a servizio dei suoi abitatori, tanto che tale innovazione contribuì molto alla trasformazione della realtà economica e sociale del nostro paese.

           La casa dei nobili (in verità molto pochi in Villarosa), era un palazzo composto da più piani; ogni stanza aveva alte volte decorate con stucchi dorati e al centro di ciascuna di esse campeggiava una grande pittura; in alto, adiacenti alle pareti, sempre dipinti a mano, spiccavano degli ovali con soggetti vari. (1)

         Ogni stanza aveva uno o più caminetti a seconda dell’ampiezza della stessa e dell’altezza della volta: il personale di servizio ne curava l’alimentazione, l’accensione e lo spegnimento.
L’illuminazione era assicurata da grandi lumi dalle più varie fogge e dimensioni, alimentati da petrolio o da gas acetilene. I primi erano di vetro, grandissimi e decorati a mano con immagini generalmente floreali; gli altri, più grandi, di lucido rame stavano appesi alle pareti e funzionavano col principio di quelli, molto più modesti, che solo in seguito sarebbero stati introdotti in miniera, al posto della tradizionale lumera ad olio.

          I pavimenti erano rivestiti di mattonelle di cotto d'argilla smaltata, ornate da linee geometriche dipinte a mano e da fiori stilizzati di varia misura al centro. La cucina (detta a papùri, cioè a vapore), era in muratura e rivestita da mattonelle del tipo di quelle dei pavimenti ma più piccole; il colore del fondo era celeste, le decorazioni in azzurro. Generalmente essa riempiva tutta una parete d’una grande stanza e talvolta continuava oltre l’angolo adiacente; era a più fornelli posti sul piano orizzontale e con un piccolo forno con apertura frontale in ferro: il tutto alimentato, secondo le esigenze dell’occasione, con pezzi di legna da ardere (i ziccuna), gusci di mandorle (scorci di mìnnula), sansa delle olive (u nùzzulu).

          Sempre nelle case degli abbienti, i servizi igienici erano situati in ampi camerini e, nel periodo di riferimento, già esistevano i “water close” (u cessu ‘nghlisi), il lavandino, il bidet, la vasca da bagno. Il palazzo era fornito di acqua corrente e di attacco alla fogna comunale: erano indicati come impianti pubblici, ma solamente per modo di dire, perché servivano quasi esclusivamente le case del centro del paese, ove risiedevano nobili e borghesi.

          La borghesia locale era generalmente formata da proprietari di miniera che miravano ad emulare gli stili di vita dei nobili e ne imitavano le comodità della casa.

          I proprietari che possedevano terre nel cui sottosuolo si snodavano le gallerie d’estrazione dello zolfo o altri ancora le cui terre erano diventate improduttive a causa dei fumi di anidride solforosa, pur non sostenendo spese di conduzione agraria, ricavavano ugualmente una discreta rendita. A seguito però dell’istituzione dell’Ente Zolfi e dell'introduzione della Legge che fece passare allo Stato la proprietà del sottosuolo, costoro entrarono in reale crisi.

           La casa dei proprietari terrieri, se non proprio povera, era alquanto modesta e non proporzionata al loro reddito perché in questa classe di cittadini vigeva il principio sanzionato nel detto, Casa quantu cci capi, tirrenu quantu nni vidi. I risparmi e la rendita erano indirizzati all’acquisto di nuove terre e mai si pensò di acquistare moderne macchine agricole, come già avveniva al Nord e in altri Paesi: il costo marginale dell’esuberante manodopera non spronava a trovare soluzioni moderne più redditizie.

         I più poveri fra i contadini si dividevano in quanti possedevano un mulo o un asino e quanti dovevano puntare esclusivamente sulla sola propria forza fisica. I primi, di notte, vivevano molto spesso nello stesso unico ambiente con la bestia che era la loro unica risorsa. 

   Le case dei braccianti e degli zolfatai si rassomigliavano per la povertà che le accomunava: un monolocale a piano terra, u catuiu (2), con una sola robusta apertura lignea, divisa orizzontalmente in due sportelli: il superiore di giorno stava quasi sempre aperto per il ricambio dell’aria e per dare luce al vano terreno, quello inferiore stava in genere chiuso per impedire l’agevole accesso in casa ai frequentatori di strada: non per nulla era consueto allora il detto, Gaddrini e picciriddri càcanu li casi. L’apertura inferiore in genere presentava un buco circolare, u gattaluru, a misura del solo animale domestico per eccellenza, l’agile gatto; ma aperto anche ai nemici cronici di questo, topi e ratti. La presenza del felino nella casa era assai giustificata dalla copiosità in giro dei suoi nemici naturali, che infestavano maggiormente le accessibili abitazioni dei poveri.
L’unicità dell’apertura della casa di poveri mi fa sovvenire una sensazione indirettamente “ereditata” da mio padre, che al tempo del terremoto di Messina del 1908 aveva appena compiuto un anno, ma per tutta la sua infanzia e in particolare negli anniversari seguenti ne sentì discorrere tanto. A Villarosa non c’erano stati crolli vistosi e nemmeno vittime, ma molte furono le casette costruite in gesso e pietrame, che in conseguenza dei pur leggeri movimenti tellurici fecero incastrare le porte d’ingresso imprigionando temporaneamente i dimoranti sorpresi nel profondo sonno. Magari molti non avrebbero percepito tali scosse giunte da lontano, ma il gran vociare che arrivava dall’esterno li fece precipitare verso l’uscio che il più delle volte non rispose alla normale aspettativa d’apertura: lascio immaginare la disperazione dei poveretti imprigionati e impossibilitati ad avere la piena cognizione della situazione reale…
Tale stamberga era un vero tugurio dove i suoi dimoranti, per la comune stanchezza di una lunga giornata in faticosa attività, crollavano in un sonno profondo. Era consueta l’espressione di rassegnazione nell’accettare tale miserevole condizione: A ura di bisugnu si curca la matri ccu tutti li figli.
           Chi nel monolocale aveva la possibilità di collocarvi uno scarpisanti, cioè un soppalco dove a stento si poteva stare in piedi senza far cozzare la testa contro il soffitto, si poteva ritenere più fortunato, perché lassù vi si potevano sistemare a dormire ammassati i ragazzi e giù i coniugi potevano trovare un minimo di riservatezza.
In queste abitazioni non c’erano servizi igienici perché spesso mancavano le fogne: la poca acqua sporca inutilizzabile si buttava fuori con disinvoltura; uomini e ragazzi andavano a fare i loro bisogni alla periferia dell’abitato, i bimbi nei pressi dell’uscio di casa; le donne deponevano gli escrementi in un vaso da notte, u rrinali, che veniva svuotato quando si riteneva che tutti i vicini dormissero, cercando di dar loro meno disturbo possibile: molto spesso però si finiva con l’incrociarsi nel medesimo sgradevole servizio.
D’acqua corrente manco a parlarne: le donne di casa andavano alla fontanella (cannulu o  cannuliddu) con secchi e brocche (i quartari). La poca acqua di queste serviva per bere, lavarsi alla meglio nno vacili e mittiri a pignata. (A tal proposito mi affiora alla memoria il ritorno a casa in tarda serata dopo una festa in casa di miei zii, ai tempi della mia primissima giovinezza. Lungo la via Butera, dalla parte do cannulu do Chianu di Giugno, sentivamo, nel silenzio della tarda ora, un forte scroscio d'acqua che si versava. Papà arguì che qualcuno avesse lasciato il rubinetto aperto con conseguente spreco d'acqua; si distaccò da noi per compiere il dovere di cittadino, ma lo vedemmo tornare subito, senza essere nemmeno arrivato alla fontanella. Ci spiegò lì per lì: a gnura Luguìgia l'urbiceddra, approfittando dell'ora tarda e della rara assenza di presenze umane nella piazza, stava eseguendo una profonda abluzione. La poveretta vecchia e cieca, col viso deturpato dagli ultimi casi di vaiolo di fine ‘800, viveva sola al mondo e in assoluta miseria; tuttavia trovava il tempo per curare la pulizia personale, più di quanto avrebbero potuto fare certe altre persone favorite più di lei dalla sorte).

           Erano poche le masserizie della casa dei poveri: a cascia, u stipu, a buffetta, u vanchitiddu, i seggi mmpagliati di zabara, a quadara affumata, u ddaganu di crita, i litti ccu matarazza d’arfa su cui spesso giacevano genitori e piccoli; a naca, l’amaca, fissata con grossi chiodi nelle due pareti formanti l’angolo: con una cordicella che pendeva fino al letto  dei genitori e di qui azionarla ppi annacari u picciriddu ca nun voli dòrmiri,…
La cucina, chiamarla così è un'esagerazione, era per tutti u fucularu o con termine più antico a tannùra (3), composta da due grosse pietre piatte di sopra, fra le quali si accendeva il fuoco e sopra vi si poneva la pentola, a pignata. I poveri non possedevano ramagli o ziccuna, così per tutta l'estate raccoglievano le stoppie di grano (ristucci) ma poi quando queste erano travolte dalla successiva semina, raccoglievano in giro tutto quello che trovavano, purché atto a prendere fuoco. In queste case mancava a maiddra e u maiddruni, perché, nelle quantità minime consentite, i poveri e i giornalieri il pane lo compravano giorno dopo giorno nella bottega, a putìa. Il pane era impastato solamente nelle case degli abbienti: i coltivatori diretti e quanti avevano la possibilità di comprare in estate tutto il grano della cosiddetta mangia che sarebbe bastata fino al successivo raccolto.

            Alle pareti stavano attaccate immaginette di santi lucidate a nero dai fumi del focolare e dall’umido vapore; nella parte interna della porta, in ingenua contiguità col sacro, erano appesi vecchi ferri di cavallo, corni rossi e santini delle varie ricorrenze dell’anno. Nugoli di mosche durante il giorno spadroneggiavano in casa e fuori e le stesse la notte riposavano su oggetti pendenti lontani dal passaggio delle persone. Durante il riposo notturno sempre tali insetti deponevano i loro bisognini, formati da puntini piccolissimi oscuri che seccavano immediatamente per la esiguità della materia espulsa, i cacati de’ muschi.
Di giorno la stamberga era generalmente abitata dalla donna di casa che sbrigava le faccende alla buona per la pochezza della disponibilità d’acqua; scorrazzavano fuori i bimbi, forse di già ben consapevoli che fra qualche anno sarebbero stati destinati ai lavori di miniera, della campagna, a far pascere pecore o capre.

          La strada, quando i rapporti fra i vicini erano buoni, era un’agorà  nel senso classico del termine, dove la casa s'allargava all'esterno, al sole d’inverno e all’ombra d’estate.
Lì si discuteva, ci si scambiava esperienze di vita, si chiedevano consigli a chi ne sapeva di più e, ovviamente, vi trovava posto anche la classica intramontabile maldicenza, secondo il detto nostrano: Ùmini all’antu e fìmmini o suli: liberàtini Signuri!
           Nelle serate estive la coralità era più intensa perché ai personaggi diurni si aggiungevano anche qualche marito, ragazzi e giovinette; si scherzava e si scaccaniava a cuor leggero. Mi risuona ancora negli orecchi il tipico vibrante scàccanu della signora Luigina C. che teneva vive le serate di buona parte della via Mazzini e delle abitazioni limitrofe, dalla tarda primavera all’autunno avanzato: il suo trasferimento a Roma nel secondo dopoguerra "mutilò" la gioia e la vivacità del quartiere.

         Nelle lunghe serate invernali ci si riuniva, portando ciascuno la propria sedia, in casa di chi aveva qualche mozzicone di candela, una lampada ad acetilene ancora carica di carburo in fase d’esaurimento, o una lumera con qualche goccia residua di feccia d’olio. Se poi c’era solo qualche scaldino, tanginu, con scarso fuoco di paglia, ciò aveva poca importanza: poco dopo l’assembramento umano riscaldava l’ambiente nel senso letterale e in quello umano. Si chiacchierava del più e del meno, si recitava il Rosario, poi a richiesta dei piccoli, si cuntàvanu cunti di orchi terribili e cattivissimi, sbaragliati dall’eroe unico, che in Villarosa d’obbligo doveva chiamarsi Pippinu.(4)





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(1) L’ultimo pittore-artigiano che si distanziava dai comuni imbianchini, fu tale don Eugeniu, che non potei conoscere per ragioni anagrafiche e di cui, quand’ero bambino, sentivo ancora esaltarne dagli anziani le doti pittoriche.

(2) La parola del nostro dialetto è ripresa di peso dal greco antico.

(3) Tale parola, completata in tannùra di ‘nfirnu o tizzuni d’infirnu, spiega il detto dialettale per indicare persona cattiva e diabolica, con l’allusione al fuoco perenne, secondo com’ è rappresentato dall’iconografia cristiana.



(4) Non per niente Pè, Jà e Calò sunu tutti di Bellarrò.
LE CASE DEL PASSATO E LA VITA DI RIONE

         Le case del passato differivano notevolmente da quelle d'oggi soprattutto per ampiezza, suppellettili e servizi igienici.

        È preferibile rifarci alla casa di un determinato periodo: quello degli ultimissimi anni ’20 del secolo che abbiamo lasciato da non molto, come Villarosa si presentava prima dell’allacciamento all’energia elettrica. Questa fu la più importante e quasi unica applicazione indirizzata alla casa e a servizio dei suoi abitatori, tanto che tale innovazione contribuì molto alla trasformazione della realtà economica e sociale del nostro paese.
La casa dei nobili (in verità molto pochi in Villarosa), era un palazzo composto da più piani; ogni stanza aveva alte volte decorate con stucchi dorati e al centro di ciascuna di esse campeggiava una grande pittura; in alto, adiacenti alle pareti, sempre dipinti a mano, spiccavano degli ovali con soggetti vari. (1)
Ogni stanza aveva uno o più caminetti a seconda dell’ampiezza della stessa e dell’altezza della volta: il personale di servizio ne curava l’alimentazione, l’accensione e lo spegnimento.
L’illuminazione era assicurata da grandi lumi dalle più varie fogge e dimensioni, alimentati da petrolio o da gas acetilene. I primi erano di vetro, grandissimi e decorati a mano con immagini generalmente floreali; gli altri, più grandi, di lucido rame stavano appesi alle pareti e funzionavano col principio di quelli, molto più modesti, che solo in seguito sarebbero stati introdotti in miniera, al posto della tradizionale lumera ad olio.
I pavimenti erano rivestiti di mattonelle di cotto d'argilla smaltata, ornate da linee geometriche dipinte a mano e da fiori stilizzati di varia misura al centro.
La cucina (detta a papùri, cioè a vapore), era in muratura e rivestita da mattonelle del tipo di quelle dei pavimenti ma più piccole; il colore del fondo era celeste, le decorazioni in azzurro. Generalmente essa riempiva tutta una parete d’una grande stanza e talvolta continuava oltre l’angolo adiacente; era a più fornelli posti sul piano orizzontale e con un piccolo forno con apertura frontale in ferro: il tutto alimentato, secondo le esigenze dell’occasione, con pezzi di legna da ardere (i ziccuna), gusci di mandorle (scorci di mìnnula), sansa delle olive (u nùzzulu).
Sempre nelle case degli abbienti, i servizi igienici erano situati in ampi camerini e, nel periodo di riferimento, già esistevano i “water close” (u cessu ‘nghlisi), il lavandino, il bidet, la vasca da bagno.
Il palazzo era fornito di acqua corrente e di attacco alla fogna comunale: erano indicati come impianti pubblici, ma solamente per modo di dire, perché servivano quasi esclusivamente le case del centro del paese, ove risiedevano nobili e borghesi.
La borghesia locale era generalmente formata da proprietari di miniera che miravano ad emulare gli stili di vita dei nobili e ne imitavano le comodità della casa.
I proprietari che possedevano terre nel cui sottosuolo si snodavano le gallerie d’estrazione dello zolfo o altri ancora le cui terre erano diventate improduttive a causa dei fumi di anidride solforosa, pur non sostenendo spese di conduzione agraria, ricavavano ugualmente una discreta rendita. A seguito però dell’istituzione dell’Ente Zolfi e dell'introduzione della Legge che fece passare allo Stato la proprietà del sottosuolo, costoro entrarono in reale crisi.
La casa dei proprietari terrieri, se non proprio povera, era alquanto modesta e non proporzionata al loro reddito perché in questa classe di cittadini vigeva il principio sanzionato nel detto, Casa quantu cci capi, tirrenu quantu nni vidi. I risparmi e la rendita erano indirizzati all’acquisto di nuove terre e mai si pensò di acquistare moderne macchine agricole, come già avveniva al Nord e in altri Paesi: il costo marginale dell’esuberante manodopera non spronava a trovare soluzioni moderne più redditizie.
I più poveri fra i contadini si dividevano in quanti possedevano un mulo o un asino e quanti dovevano puntare esclusivamente sulla sola propria forza fisica.
I primi, di notte, vivevano molto spesso nello stesso unico ambiente con la bestia che era la loro unica risorsa. 
Le case dei braccianti e degli zolfatai si rassomigliavano per la povertà che le accomunava: un monolocale a piano terra, u catuiu (2), con una sola robusta apertura lignea, divisa orizzontalmente in due sportelli: il superiore di giorno stava quasi sempre aperto per il ricambio dell’aria e per dare luce al vano terreno, quello inferiore stava in genere chiuso per impedire l’agevole accesso in casa ai frequentatori di strada: non per nulla era consueto allora il detto, Gaddrini e picciriddri càcanu li casi. L’apertura inferiore in genere presentava un buco circolare, u gattaluru, a misura del solo animale domestico per eccellenza, l’agile gatto; ma aperto anche ai nemici cronici di questo, topi e ratti. La presenza del felino nella casa era assai giustificata dalla copiosità in giro dei suoi nemici naturali, che infestavano maggiormente le accessibili abitazioni dei poveri.
L’unicità dell’apertura della casa di poveri mi fa sovvenire una sensazione indirettamente “ereditata” da mio padre, che al tempo del terremoto di Messina del 1908 aveva appena compiuto un anno, ma per tutta la sua infanzia e in particolare negli anniversari seguenti ne sentì discorrere tanto. A Villarosa non c’erano stati crolli vistosi e nemmeno vittime, ma molte furono le casette costruite in gesso e pietrame, che in conseguenza dei pur leggeri movimenti tellurici fecero incastrare le porte d’ingresso imprigionando temporaneamente i dimoranti sorpresi nel profondo sonno. Magari molti non avrebbero percepito tali scosse giunte da lontano, ma il gran vociare che arrivava dall’esterno li fece precipitare verso l’uscio che il più delle volte non rispose alla normale aspettativa d’apertura: lascio immaginare la disperazione dei poveretti imprigionati e impossibilitati ad avere la piena cognizione della situazione reale…
Tale stamberga era un vero tugurio dove i suoi dimoranti, per la comune stanchezza di una lunga giornata in faticosa attività, crollavano in un sonno profondo. Era consueta l’espressione di rassegnazione nell’accettare tale miserevole condizione: A ura di bisugnu si curca la matri ccu tutti li figli.
Chi nel monolocale aveva la possibilità di collocarvi uno scarpisanti, cioè un soppalco dove a stento si poteva stare in piedi senza far cozzare la testa contro il soffitto, si poteva ritenere più fortunato, perché lassù vi si potevano sistemare a dormire ammassati i ragazzi e giù i coniugi potevano trovare un minimo di riservatezza.
In queste abitazioni non c’erano servizi igienici perché spesso mancavano le fogne: la poca acqua sporca inutilizzabile si buttava fuori con disinvoltura; uomini e ragazzi andavano a fare i loro bisogni alla periferia dell’abitato, i bimbi nei pressi dell’uscio di casa; le donne deponevano gli escrementi in un vaso da notte, u rrinali, che veniva svuotato quando si riteneva che tutti i vicini dormissero, cercando di dar loro meno disturbo possibile: molto spesso però si finiva con l’incrociarsi nel medesimo sgradevole servizio.
D’acqua corrente manco a parlarne: le donne di casa andavano alla fontanella (cannulu o  cannuliddu) con secchi e brocche (i quartari). La poca acqua di queste serviva per bere, lavarsi alla meglio nno vacili e mittiri a pignata. (A tal proposito mi affiora alla memoria il ritorno a casa in tarda serata dopo una festa in casa di miei zii, ai tempi della mia primissima giovinezza. Lungo la via Butera, dalla parte do cannulu do Chianu di Giugno, sentivamo, nel silenzio della tarda ora, un forte scroscio d'acqua che si versava. Papà arguì che qualcuno avesse lasciato il rubinetto aperto con conseguente spreco d'acqua; si distaccò da noi per compiere il dovere di cittadino, ma lo vedemmo tornare subito, senza essere nemmeno arrivato alla fontanella. Ci spiegò lì per lì: a gnura Luguìgia l'urbiceddra, approfittando dell'ora tarda e della rara assenza di presenze umane nella piazza, stava eseguendo una profonda abluzione. La poveretta vecchia e cieca, col viso deturpato dagli ultimi casi di vaiolo di fine ‘800, viveva sola al mondo e in assoluta miseria; tuttavia trovava il tempo per curare la pulizia personale, più di quanto avrebbero potuto fare certe altre persone favorite più di lei dalla sorte).
 Erano poche le masserizie della casa dei poveri: a cascia, u stipu, a buffetta, u vanchitiddu, i seggi mmpagliati di zabara, a quadara affumata, u ddaganu di crita, i litti ccu matarazza d’arfa su cui spesso giacevano genitori e piccoli; a naca, l’amaca, fissata con grossi chiodi nelle due pareti formanti l’angolo: con una cordicella che pendeva fino al letto  dei genitori e di qui azionarla ppi annacari u picciriddu ca nun voli dòrmiri,…
La cucina, chiamarla così è un'esagerazione, era per tutti u fucularu o con termine più antico a tannùra (3), composta da due grosse pietre piatte di sopra, fra le quali si accendeva il fuoco e sopra vi si poneva la pentola, a pignata. I poveri non possedevano ramagli o ziccuna, così per tutta l'estate raccoglievano le stoppie di grano (ristucci) ma poi quando queste erano travolte dalla successiva semina, raccoglievano in giro tutto quello che trovavano, purché atto a prendere fuoco. In queste case mancava a maiddra e u maiddruni, perché, nelle quantità minime consentite, i poveri e i giornalieri il pane lo compravano giorno dopo giorno nella bottega, a putìa. Il pane era impastato solamente nelle case degli abbienti: i coltivatori diretti e quanti avevano la possibilità di comprare in estate tutto il grano della cosiddetta mangia che sarebbe bastata fino al successivo raccolto.
Alle pareti stavano attaccate immaginette di santi lucidate a nero dai fumi del focolare e dall’umido vapore; nella parte interna della porta, in ingenua contiguità col sacro, erano appesi vecchi ferri di cavallo, corni rossi e santini delle varie ricorrenze dell’anno.
Nugoli di mosche durante il giorno spadroneggiavano in casa e fuori e le stesse la notte riposavano su oggetti pendenti lontani dal passaggio delle persone. Durante il riposo notturno sempre tali insetti deponevano i loro bisognini, formati da puntini piccolissimi oscuri che seccavano immediatamente per la esiguità della materia espulsa, i cacati de’ muschi.
Di giorno la stamberga era generalmente abitata dalla donna di casa che sbrigava le faccende alla buona per la pochezza della disponibilità d’acqua; scorrazzavano fuori i bimbi, forse di già ben consapevoli che fra qualche anno sarebbero stati destinati ai lavori di miniera, della campagna, a far pascere pecore o capre.
 La strada, quando i rapporti fra i vicini erano buoni, era un’agorà
 nel senso classico del termine, dove la casa s'allargava all'esterno, al sole d’inverno e all’ombra d’estate.
Lì si discuteva, ci si scambiava esperienze di vita, si chiedevano consigli a chi ne sapeva di più e, ovviamente, vi trovava posto anche la classica intramontabile maldicenza, secondo il detto nostrano: Ùmini all’antu e fìmmini o suli: liberàtini Signuri!
Nelle serate estive la coralità era più intensa perché ai personaggi diurni si aggiungevano anche qualche marito, ragazzi e giovinette; si scherzava e si scaccaniava a cuor leggero. Mi risuona ancora negli orecchi il tipico vibrante scàccanu della signora Luigina C. che teneva vive le serate di buona parte della via Mazzini e delle abitazioni limitrofe, dalla tarda primavera all’autunno avanzato: il suo trasferimento a Roma nel secondo dopoguerra "mutilò" la gioia e la vivacità del quartiere.
Nelle lunghe serate invernali ci si riuniva, portando ciascuno la propria sedia, in casa di chi aveva qualche mozzicone di candela, una lampada ad acetilene ancora carica di carburo in fase d’esaurimento, o una lumera con qualche goccia residua di feccia d’olio. Se poi c’era solo qualche scaldino, tanginu, con scarso fuoco di paglia, ciò aveva poca importanza: poco dopo l’assembramento umano riscaldava l’ambiente nel senso letterale e in quello umano. Si chiacchierava del più e del meno, si recitava il Rosario, poi a richiesta dei piccoli, si cuntàvanu cunti di orchi terribili e cattivissimi, sbaragliati dall’eroe unico, che in Villarosa d’obbligo doveva chiamarsi Pippinu.(4)





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(1) L’ultimo pittore-artigiano che si distanziava dai comuni imbianchini, fu tale don Eugeniu, che non potei conoscere per ragioni anagrafiche e di cui, quand’ero bambino, sentivo ancora esaltarne dagli anziani le doti pittoriche.

(2) La parola del nostro dialetto è ripresa di peso dal greco antico.

(3) Tale parola, completata in tannùra di ‘nfirnu o tizzuni d’infirnu, spiega il detto dialettale per indicare persona cattiva e diabolica, con l’allusione al fuoco perenne, secondo com’ è rappresentato dall’iconografia cristiana.


(4) Non per niente Pè, Jà e Calò sunu tutti di Bellarrò.

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