Con
questo endecasillabo tratto dal suo sonetto “Lu me paisi”, Vincenzo De Simone,
il più nostro importante poeta dialettale, sintetizza la composizione particolarmente varia della nostra comunità, che resta ancora una delle più recenti create
in Sicilia.
Ritengo che il termine “zanni” sia
ancora a conoscenza dei nostri concittadini più giovani: infatti, qui da noi, così
sono denominati gli zingari, che non hanno una residenza fissa e vivono
d’espedienti vari muovendosi da una località all’ altra per l’Europa e non solo.
I nostri nonni “zingari” in questo senso non lo furono, ma dei migranti sì:
erano persone intraprendenti che affrontavano l’ignoto con mezzi di fortuna,
con la speranza di trovare un lavoro che offrisse loro l’indispensabile per sostentare,
pur in modo frugale, la propria famiglia.
La collettività villarosana in poco
più di 250 anni di vita ebbe la sorte di due immigrazioni considerevoli e di
diversissima natura. Non è mia intenzione di rifare la storia, anche se breve,
di Villarosa, perché altri l’hanno elaborata prima di me, servendosi di fonti più
recenti rispetto a quelli di più antiche città.
Com’è noto fu merito della famiglia
Notarbartolo l’aver dato maggior valore a un vasto territorio, destinato a modestissimo
e poco redditizio pascolo, trasformandolo
in coltura di frumento, prodotto ben più
apprezzato in quel tempo. È noto che la pastorizia si avvale di poche braccia
lavorative a differenza della coltura granaria che si serve di più unità umane,
di animali da soma e da traino, senza ovviamente ignorare del tutto quelli
tipici da pascolo.
I citati Duchi avevano intelligentemente
calcolato che affidare in enfiteusi un feudo scarsamente remunerativo a tante
famiglie di agricoltori e facendo loro pagare un modestissimo canone, comunemente
indicato dal popolo come ‘ncinsu, avrebbe
reso a loro molto di più del tradizionale pascolo. Così servendosi di un vànniu (1), fatto circolare per buona
parte della Sicilia, i Notarbartolo fecero accorrere nel loro territorio un
discreta quantità di valida gente, fortemente intenzionata a lavorare sodo per
sopravvivere decorosamente insieme alla propria famiglia.
Ovviamente i più numerosi tra
quanti affluirono risultarono quelli dei paesi più vicini, con San Cataldo in
testa, seguito da altri in minor numero
dai paesi delle Madonie. I primissimi arrivati si contavano a decine, da come
risulta dai vecchi registri parrocchiali del tempo.
Decennio dopo decennio le poche
anime divennero qualche centinaio, ma di sicuro non avrebbero forse mai raggiunto
la considerevole popolazione del 1861, quando Villarosa arrivò a contare circa 18.000
abitanti, se non fosse “esploso” il fenomeno “zolfo”, richiesto dai paesi
industrializzati d’Europa, perché essenziale alla produzione di svariati nuovi
prodotti utili principalmente agli eventi bellici e anche all’agricoltura, alla
chimica e alla medicina.
Non ci fu più bisogno stavolta di
nessun vànniu, a migliaia si
precipitarono i nuovi immigrati, ovviamente non solo in Villarosa, ma nella
fascia mineraria dell’agrigentino e del nisseno, dove di anno in anno aumentava
il numero di nuove miniere attive.
Quelli erano tempi in cui la
documentazione scritta delle generalità dei cittadini era molto rara e avevano
talvolta più valore i certificati parrocchiali. In tanti casi i nuovi arrivati,
per ragioni personali, finivano col dare per cognome il loro luogo d’origine.
Ecco perché sono molto diffusi cognomi come Trapani, Palermo, Messina, Terranova
(dal precedente nome di Gela), Àsaro (da Assoro), Castrogiovanni (dall’ex nome di Enna), Ragusa,
Piazza, Daidone, Gagliano, Calascibetta, Nicosia, ecc…
Durante la mia infanzia e la prima
giovinezza, le persone in Villarosa era indicate, a parte i comunissimi
soprannomi o ‘ngiulii, col nome del
paese della più recente origine: a impurtisa, u catrinaru, l’arminisa, a ballafranchisa, u favarisi, a
rrijsana, u chiazzisi, T. a carrapipana, u camastrisi, e tantissimi altri.
La mia famiglia paterna era
originaria di Delia, quella materna, più lontanamente nel tempo, di Petralia. Parlando con amici e si entrava
nell’argomento ognuno dichiarava con naturalezza la pur lontana non dimenticata
origine. Curioso sempre di sapere di più,
quando mi capitava, chiedevo a tanti di dove fosse originaria la loro famiglia.
Non mi capitò mai qualcuno che non sapesse indicare la sua antica provenienza.
Da ciò io ne traevo la chiara conclusione che il nostro era un paese
d’immigrati bene inseriti nel nuovo ambiente: non per niente si dice ancora che
“Villarosa protegge i forestieri”.
Spesso mi chiedevo e ancor mi
chiedo: quanti abitanti conterebbe Villarosa se gli immigrati non avessero
ripreso l’esodo per i più svariati paesi della Terra?
Tanti erano accorsi a Villarosa in
cerca di lavoro, prima sulla terra da dissodare e poi nelle più pericolose
visceri del suo sottosuolo, ma quando la richiesta internazionale dell’elemento
zolfo entrava in crisi, il villarosano
riprendeva la via della ricerca d’altro lavoro anche oltre oceano, portando però,
sempre in cuore, l’ultima residenza da dove proveniva e trasmetteva a figli e
nipoti l’indimenticabile Sicilia con dentro, al centro, la sempre amata
Villarosa. Voglio citare un solo esempio, senza disprezzare tutti gli altri,
quello della signora che sul sito dei villarosani si firma “Chianu Di Giugnu”: ci ha fatto conoscere modi di dire e poesie
popolari che io, nato e cresciuto qui, non avevo mai sentito.
Vincenzo De Simone stesso fu un emigrato della nuova serie
perché scelse Milano per esercitare la professione di dentista. Egli portò nel
suo cuore vivo il ricordo della sua “Bellarrosa”, tanto che la sua casa fu il luogo
d’incontro di villarosani che vivevano nel capoluogo lombardo. La sua
sicilianità doveva essere molto nota in quella città tanto che negli anni ’50,
a circa un quindicennio dalla sua morte, la rivista scolastica “L’Educatore
Italiano”, edita dai Fratelli Fabbri, inseriva, nella parte centrale delle sole
copie dirette in Sicilia, due fogli d’altro
colore che parlavano d’argomenti della nostra Isola e come poesie riportava
esclusivamente quelle del nostro poeta, milanese d’adozione e sempre
villarosano nell’anima.
Nel terzo millennio Villarosa, che
di abitanti nel 1861 arrivò a contarne circa 18.000, oggi non arriva nemmeno a
6.000.
Lo zolfo la portò ai valori più
alti e la sua crisi la condusse all’attuale svuotamento. Nei tempi d’oro del
nostro paese la Sicilia era quasi l’unica produttrice del biondo elemento, ma
quando gli americani riuscirono col metodo Frash a trarlo dal sottosuolo senza bisogno
di scenderci personalmente giù, la recessione divenne irreversibile.
I nostri “zanni” necessariamente
hanno lasciato l’amata terra arrivando fino ai confini del mondo: Argentina, U.S.A.,
Brasile, Canada, Australia e la più vicina Europa. Nella crisi del dopoguerra i meridionali
con i villarosani in testa, accettarono in Belgio il lavoro nelle miniere di
carbone, rifiutato dai suoi abitanti, in un sottosuolo più perfido di quello
siciliano per silicosi e crolli sempre in agguato.
Oggi i nostri concittadini di lassù
si sentono pure loro europei, ma con Villarosa sempre nel cuore.
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(1)
Provando a ritornare indietro
con la mente ai tempi del ‘700, forse riusciamo a capire che saper leggere e
scrivere era la specialità esclusiva di sacerdoti, notai e pochi altri intellettuali
presenti in ogni comunità. Per far conoscere una notizia al popolo si
incaricava qualcuno, noto in paese, che girando di strada in strada diffondeva
a viva e alta voce la notizia che poteva interessare e che tantissima gente
non sarebbe stata in grado di leggere su un manifesto. In tal modo i disperati
in cerca di lavoro appresero che nel feudo dei Notarbartolo si davano terre a
coltivare dietro il pagamento annuo do
‘ncinsu.
Quand’ero ragazzo girava per le strade del paese un vanniaturi che dava qualche notizia importante, ma per lo più delle volte, gridava ad esempio: -Cu à truvaaatu na craaapa… ca s’à piiirsu? O qualche altro annuncio simile. Un altro esempio: i più vecchi dei tempi della mia giovinezza chiamavano ancora vannii le pubblicazioni di matrimonio che venivano affisse in chiesa e al municipio.
Quand’ero ragazzo girava per le strade del paese un vanniaturi che dava qualche notizia importante, ma per lo più delle volte, gridava ad esempio: -Cu à truvaaatu na craaapa… ca s’à piiirsu? O qualche altro annuncio simile. Un altro esempio: i più vecchi dei tempi della mia giovinezza chiamavano ancora vannii le pubblicazioni di matrimonio che venivano affisse in chiesa e al municipio.