sabato 6 marzo 2010









RICORDO DI CARMELO D’ACCARDO
(Carminu Accardu)

Da ragazzo gradivo ascoltare i grandi, non tanto per morbosa curiosità, quanto per conoscere esperienze e fatti del passato.
Ricordo don Carminu Accardu, il poeta. Mi soffermavo lì presso a lui ogni qual volta lo vedevo in compagnia d’altri perché sapevo che di lì a poco sarebbe esploso un gioco d’artificio di poesia dialettale, che avrebbe inondato tutt’intorno.
Ricordo tanti piccoli rimatori volenterosi che si volevano cimentare con lui; si preparavano un mottetto, sperando che si presentasse l’occasione proprizia per coglierlo di sorpresa.
Invano!
Don Carminu, apriva le paratie del suo invaso, e sommergeva l’uditorio ad ondate successive di arguzie poetiche che sarebbero state da registrare, se fosse stato già a disposizione tale strumento.
Colpiva la pluralità delle immagini che gli fluivano spontanee ed azzeccate; non una era pleonastica, non una si smorzava o decadeva.
La vena poetica, la fantasia, la stessa prosa, che poteva non essere il suo forte, diventava avvincente.
La sua vena estemporanea era suggestiva ed affascinante, ma quando si sedeva per scrivere diventava ridondante e volendo dire tanto cadeva nella prolissicità tipica dei poeti popolari.
Ero ancor meno di ragazzo ed ho assistito ad una manifestazione culturale pubblica all’aperto. Gl’interventi di intellettuali e sacerdoti erano corposi e pacati, ma quando prese la parola lui, fu un torrente in piena.
Non ricordo più il fluire dei discorsi che capivo perfettamente malgrado l’età poco più che infantile, ma il mio unico ricordo rimasto fu quello di un banalissimo avvenimento.
Il poeta raccontava di un 19 marzo della sua infanzia, festa di San Giuseppe, quando allora si usava, per grazia ricevuta, che si preparasse per quel giorno (a parte la Tavola di san Giuseppe) una caldaia di pasta, lenticchie e finocchietti di campagna che si distribuiva a poveri e a chiunque altro si presentasse. Il piccolo Carminu ebbe il suo piatto di creta pieno di minestra, s’allontanò in disparte per consumarlo, quando sul fondo toccò col cucchiaio qualcosa di duro.
Quel che segue era senz’altro frutto della sua vulcanica fantasia, ma ai poeti si perdona tutto. Quello che conta è il modo d’esprimersi, la scelta dei tempi, la creazione dell’attesa, il susseguirsi delle ipotesi, la cattura dell’attenzione dell’uditorio…
Cos’era il pezzo in fondo al piatto?
Tante le ipotesi, uno il desiderio…
E se fosse un pezzo di carne con osso?
Il poeta enucleava le sue sensazioni quasi le provasse in quell’ istante e intanto faceva assaporare all’ uditorio l’agognato premio sfuggito al mestolo dell’apparecchiante.
Quelli erano tempi duri, la carne era sulle mense dei poveri contadini una rarità e sempre in minima quantità, talvolta forse solo sognata…
Qui il colpo di teatro: si trattava di uno dei cocci di tegola che si mettevano nel fondo della caldaia per non fare appigliare il cibo!
Di queste trovate, tutte argute e paradossali ne aveva tante e gli venivano spontanee e fluenti come se fossero comuni, nell’ordine dei fatti del giorno.
Ai bambini e ai poeti sono concessi tali svolazzi di fantasia!

IL MARE A VILLAROSA



Mentre osservavo la riproduzione del quadro della signora Santina Cannata, la visione del lago ritratto m’ha fatto andare indietro con la memoria a 60 anni prima.
Il protagonista di questo mio ricordo è un certo Gnaziu, villarosano che aveva lasciato il paese per Enna senz’altro prima della mia nascita, perché di lui non avevo sentito parlare prima ed in verità non seppi nulla in seguito.
Egli, industrioso e piccolo sbriga faccende nel capoluogo, era sostenitore accanito di un personaggio politico di rilievo in quel momento, tale comm. Paolo Savoca,  sindaco repubblicano del capoluogo. Sulla scia del grande politico meridionalista Napoleone Colajanni, ennese, il Partito Repubblicano Italiano in quella città era forte in quel tempo, anche se per poco ancora.
Nelle prima elezione del Parlamento repubblicano del ’48, il Savoca era candidato alla Camera dei Deputati.
Gnaziu si sentì in obbligo di tenere nel suo paese un comizio a sostegno del suo candidato.
Io quattordicenne, non sapevo nulla del personaggio Gnaziu, perciò accettai come normale la frenesia di alcuni che si preparavano al grande evento e nello stesso tempo con maggior curiosità.
Io seguivo quasi tutti i comizi, come del resto tantissimi italiani, e mi attendevo qualcosa di straordinario considerati i preparativi.
Gnaziu, circondato da seriosi fiancheggiatori, apparve finalmente sul balcone soprastante l'attuale bar Leone, su uno dei Quattro Canti.
Gli applausi si susseguivano fino al punto di bloccare il fluire delle argomentazioni del comiziante. Questi appariva emozionato per l’ardore dei suoi concittadini. Alla fine di uno dei più calorosi applausi ci fu un istante di silenzio, ovviamente programmato, e un signore dalla voce stentorea gridò:
- Vogliamo la Stazione alle porte della città!
Gnaziu che, giulivo e confuso com’era non capì il contenuto della richiesta, ma dal momento che era risaputo che in tempo di elezioni si promette tutto di tutto, solennemente gridò:
- E l’avrete!
L’entusiasmo appariva al massimo; io da parte mia pur intuendo che tanta bagarre  poteva essere fatto per celia, cominciai ad avere conferma del mio sospetto riflettendo a come si poteva far salire un treno su per  le curve di San Giulano…
Nella successiva pausa seguita ad altro delirante applauso, il solito cittadino col vocione la sparò più grossa ancora:
- Vogliamo il mare a Villarosa!
Gnaziu ancora più ubbriacato dall’ entusiasmo dei suoi concittadini e più stordito di prima, promise fermamente:
- L’avrete!
La piazza era tutta una festa, l’ardore era al massimo, il poverino volle concludere e gridò con tutto il fiato che gli restava:
- Per il bene di Villarosa, votate e fate votare il comm. Paolo Savoca! Arrivederci al 19 aprile sera!
Sul balcone Gnaziu fu preso d’assalto con abbracci e baci; spuntò un mazzo di fiori di campo che gli furono offerti e che lui pimpante agitava per farlo vedere alla folla osannante.
Finalmente Gnaziu col codazzo dei “sostenitori” scese giù.
Un tale, serio in viso (dicevano che era il cognato), si avvicino al comiziante e lo voleva trascinare fuori dal seguito, ma Gnaziu si schermiva perché voleva ancora ringraziare il suo popolo… il signore gli sussurrò qualcosa all’orecchio e con più decisione se lo tirò fuori della piazza.
Rimase proverbiale nei decenni successivi il mare promesso da Gnaziu ai suoi concittadini.
Finchè un giorno, dopo tante lotte, s’inaugurò il lago sulla Diga di Villarosa.
Quanti fummo presenti a quel famoso comizio del ’48, commentavamo:
- Abbiamo riso di Gnaziu e invece il “mare” è arrivato per davvero!

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