UNA FREDDA CRUENTISSIMA VENDETTA
Abbiamo avuto modo di conoscere la patetica vicenda di don Vannuzzu Milano che a freddo ebbe a subire la mortificante vendetta conseguente al suo vizietto di devastare i pomposi ciuffi ostentati dai giovani villarosani di fine ‘800.
Don
Vannuzzu partendo per l’America lasciò in Villarosa un
figlio naturale, tale Jabbicu Cianciana.
Questi cresciuto in un nucleo familiare molto modesto ebbe nondimeno
l’opportunità di frequentare la scuola e di metter su un emporio molto fornito,
in special modo di attrezzature e materiali di consumo in uso nelle decine di
miniere, grandi e piccole, del territorio.
Egli
era un personaggio benestante e molto noto in paese, tanto che gli era pure consentito di essere un permissanti, cioè aveva avuto rilasciato
dalle autorità di polizia un regolare porto d’armi.
Questi
particolari li ho raccolti dalla viva voce di un mio amico il cui padre era
imparentato con la moglie del Cianciana.
A
quel tempo le liti violente erano all’ordine del giorno e le stesse spesso si risolvevano
con ferimenti spesso mortali.
Un
triste mattino scoppiò una lite tra don
Jabbicu e un malandrino della famiglia dei B. I presenti e i passanti occasionali
ben conoscendo i soggetti cercarono di interporsi fra i due; ma il B. ebbe l’opportunità
di appioppare un sonoro schiaffo sul viso dell’avversario.
Il gruppo che tratteneva il B. lo trascinò verso
la sua abitazione, l’altro capannello che teneva a freno il Cianciana cercò di
non farselo sfuggire per evitare il peggio, conseguente ad una più
pesante reazione.
A
questo punto scesero in campo i “pezzi da
novanta” del paese, che dopo lunghissime trattative fra le ragioni dei due
contendenti pervennero ad un accordo accettato dalle parti: il Cianciana
rinunciava alla sua vendetta in difesa del suo onore solamente alla condizione
che il B. avesse lasciato Villarosa e non vi avesse posto più piede per tutta
la vita: in caso contrario l’offeso si sarebbe ripreso il diritto di eliminare
l’offensore.
I
tempi erano abbastanza duri; da poco s’era conclusa la Prima Guerra mondiale
con una vittoria che non risolvette un bel niente dal punto di vista economico
e sociale. L’epoca precedente non era stata meno triste perché il banditismo,
di costume e di protesta, era stata e rimaneva una piaga sempre viva; ora
specialmente che le bande si erano rafforzate per via dei numerosi casi di renitenza
in genere alla lunga leva militare e al rifiuto al richiamo alle armi per i motivi strettamente bellici.
In
quel clima di crudele azione e reazione era d’obbligo che ogni offesa si
lavasse col sangue.
In
Villarosa nessuno credeva che uno dei più baldi rappresentanti del clan dei B.
potesse accettare una condizione così umiliante; dall’altro versante ugualmente
si era certi di un’analoga aspra reazione pronta a scattare.
Passò
qualche anno e la cittadina quasi dimenticò la temuta resa dei conti, ritenendo
che il B. avesse varcato l’Oceano.
Una
mattina come di consueto don Jabbicu Cianciana lasciò nel negozio u giùvini e si avviò o rrivìlu, cioè alla fermata della
carrozza che collegava il paese alla Stazione ferroviaria, per ritirare la sua
copia del “Giornale di Sicilia” a cui era abbonato, quando si trovò faccia a
faccia col suo indimenticato offensore.
Gli
astanti non ebbero il tempo di percepire il tanto temuto tragico incontro, solamente
se ne resero conto quando furono scossi dai colpi secchi della pistola ancora
fumante che don Jabbicu aveva estratta dalla fondina e usata con fredda matura
determinazione.
L’onore
era salvo, la libertà compromessa.
Gli
restava aperta solamente la via della macchia; ripose l’arma nel suo fodero,
s’immise nella via Poeta, rasentò u
chianu di Giugnu e attraverso u
pasciuguagliu si cacciò nel segreto mondo di una malavitosa esistenza.
Nei
primi tempi nulla si seppe di lui, ma tutti pensarono che non gli sarebbe
mancato l’appoggio materiale e morale degli oppositori alla banda a cui
aderivano i B.
Don
Jabbicu Cianciana presto diventò il punto di riferimento e capo indiscusso d’un
cospicuo segmento della malavita della zona e mantenne saldo il potere per
qualche anno.
L’epilogo
di questa triste faida ebbe come tragico teatro il cinquecentesco palazzo
sant’Anna, nell’omonima contrada del nostro territorio.
Sentii
i primi accenni a questa atroce vicenda nella Pasquetta dei miei quindici anni
quando la mia famiglia fu invitata a trascorrere la giornata di festa in
quell’antica dimora. Fu allora che mi fu indicato con raccapriccio un
comunissimo forno a legna e mi fu fatto il nome di tale Cianciana di cui
sentivo ancora parlare come famoso bandito del primo dopoguerra.
Si
dice comunemente che la vendetta è un piatto che si serve freddo, ma spesso per
amore di pace si vuole dimenticare il profondo e spietato significato del detto
e si spera che il tempo possa essere riuscito a spegnere i distruttivi bollori
originari.
Ciascuna
delle bande era braccata dai carabinieri e contemporaneamente dagli avversari.
Il desiderio di pace sordamente si faceva strada negli animi che erano ora più
disponibili a possibili aperture a qualche forma di tregua.
Questa
umana ed intima voglia di tregua dovette essere il grimaldello che fece
scattare la subdola trappola tesa dai malvagi più impenitenti.
È
comune il detto nostrano che “la porta si apre dal di dentro”; non è facile
espugnare una città fortificata senza un manipolo pur piccolo di traditori.
Sedicenti
pacieri sparsero la voce che l’accordo era stato raggiunto e che l’evento si
sarebbe festeggiato nel palazzo di sant’Anna. Un gruppo di sostenitori di
Cianciana raggiunsero il luogo fissato; furono accolti con esultanza e nel contempo appresero che il loro capo aveva
fatto sapere che sarebbe arrivato con qualche ora di ritardo e che intanto li
invitava a cominciare a pranzare, considerata la circostanza che erano stati in
viaggio e digiuni da diverse ore.
Il
gaudio sprizzava dai volti esultanti degli ex avversari; la mensa era imbandita
con addobbi principeschi; la fragranza di carne con patate al forno si spandeva
per l’immensa sala; le caraffe di vino abbondavano sulla tavola.
Per
ore gozzovigliarono da allegri compagnoni dimentichi dell’odio che li aveva
divisi per molti anni e delle armi che per la prima volta avevano potuto
lasciare nell’attiguo camerino, senza distinzione della cosca d’appartenenza.
Quando
i fumi dell’alcol ebbero fatto il loro prevedibile effetto, gli invitanti si distanziarono
dagli ospiti, mentre il capo della banda rivolgendosi a quest’ultimi comunicò loro
che avevano mangiato i pezzi delle carni più pregiate dell’amato Jabbicu Cianciana.
Mentre
gli ospiti, storditi dalle bevande e trasecolati per l’inimmaginabile annuncio,
si guardavano inebetiti, cominciarono ad essere passati tutti per le armi.