martedì 10 febbraio 2015

UN DRAMMA D’EMIGRAZIONE RISOLTO SBRIGATIVAMENTE

Javi a Merica” era un detto villarosano usato per indicare un commerciante a cui gli affari andavano bene, anche se tra costui e gli U.S.A. non c’era mai stato collegamento alcuno.

Il motto era comunissimo perché generalmente chi rientrava da quel continente, partito povero in canna, dopo alcuni anni rientrava come un ricco signore, rispetto ad altrettanti laboriosi concittadini rimasti in patria, ed era  anche in grado di potere acquistare una casa ‘mpalazzata e alcune salme di terre fertili.

Il caso più sorprendente fu quello del cav. Salvatore Curione che al rientro dagli Stati Uniti fu in grado di creare un mulino  e un grande pastificio, con circa un centinaio di dipendenti, la cui eccellente produzione fu apprezzata in tanta parte della Sicilia.

Per moltissimi dei parenti rimasti al paese, cambiava pure l’esistenza, ad esempio, mastru Pippinu L. aveva in America due familiari, il grande era figlio della moglie già vedova e il minore nato da ambedue nuovi coniugi. Il vecchio era felice delle loro rimesse, tanto che si vantava con amici e vicini di casa, che egli si poteva considerare  un impiegato statale per via della mesata sempre puntuale, spedita da tutti e due i bravi giovani.

I casi come questo erano comuni, ma per tanti altri la medaglia aveva un doloroso rovescio.

L’economia locale, specialmente quella dei paesi a maggiore migrazione, quale il nostro, risultò scombussolata al massimo per il depauperamento delle forze maschili, ovviamente più vitali e, in rispondenza,  l’ espatrio favorì la percentuale d’invecchiamento e  femminilizzazione della popolazione locale, notoriamente meno produttiva.

A parte poi i malumori economici, c’erano quelli di natura sociale che crearono smarrimento e desolazione in molte famiglie.

Mia nonna, figlia della vedova successivamente sposata al citato Peppino L., mi raccontava di tanti toccanti drammi: di famiglie che avevano allevato con amore un trovatello che giunto alla nuova terra non si faceva più vivo, dimenticandosi persino di restituire almeno la somma, che gli avevano procurato con grandi sacrifici, per pagargli il costosissimo viaggio; di legittimi figli e mariti che si  riformavano un’altra famiglia in quel remoto angolo della Terra, trascurando del tutto i familiari e costringendo le donne di casa a divenire criàte presso famiglie facoltose e i maschietti ad andare in miniera come carusi.

Qualche mese fa, con un giovane amico si parlava di problemi familiari particolari, in special modo  di quelli del passato; poi, gli lessi sul viso un leggero sorriso tra lo spontaneo e il maliziosetto, e aggiunse che egli esisteva per una fortuita coincidenza. Io gli dissi che tutti potevamo asserire la stessa cosa,  per via degli imprevisti e l’aggrovigliarsi degli eventi fisici e umani: all’origine di ciascuno di noi, ad esempio, c’è uno spermatozoo fattosi un po’ più avanti rispetto ad un altro, microscopicamente, a lui accanto. Egli confermò la mia osservazione, ma volle precisare una circostanza d’altra natura, diciamo, piuttosto più vistosa.

Quando egli cominciò a esporre la stuzzicante vicenda familiare, lo invitai, riconoscendogli le personali capacità, a raccontare i fatti sul blog “Bellarrosa”, da me avviato e a disposizione di chiunque voglia scrivervi, senza essere tenuto a dichiarare che si trattava di una propria vicenda familiare. Subito mi chiarì che per i suoi impegni non aveva il tempo da dedicargli: in effetti ha ragione, è occupatissimo nel suo lavoro.

Una delle due sue nonne, Maruzza, quand’era giovane, aveva una segreta simpatia, tacitamente ben corrisposta per via di sguardi e sorrisini furtivi, con un giovane del vicinato, Pippinu.

 Questi un giorno, tramite un’amica, le fece sapere che era pronto per emigrare negli Stati Uniti alla ricerca di un lavoro più redditizio atto a consentirgli di costituire un discreto capitale e che dopo qualche anno sarebbe ritornato al paese, dove si sarebbero potuti felicemente sposare.

La ragazza ne parlò in famiglia; i genitori apprezzarono la volontà del giovane, ma pretesero che l’intesa si formalizzasse  con un fidanzamento ufficiale prima della partenza, soprattutto per consolidare un legame quasi parentale fra le due famiglie.

O nsinġu, com’era chiamato fino a decenni fa la festa di fidanzamento, parteciparono i più stretti parenti delle due famiglie. Al   sobrio trattenimento seguì la musica di una modesta orchestrina locale che accompagnò tanti festosi balli, che si protrassero fino a tarda ora.

Pochi giorni dopo Pippinu s’imbarcò per la lontana meta.

Per qualche tempo la corrispondenza fu frequente e nella busta Maruzza, inserita tra la cara lettera, trovava una moneta cartacea di scuti, com’erano  da noi chiamati i dollari. 

         Intanto, a poco a poco si diradarono  le lettere e i graditissimi contenuti, che erano utilizzati esclusivamente a preparare altri litti di biancarì.

Da Villarosa partivano lettere di fuoco, che avevano un riscontro un tantino freddo e debole di calde promesse.

La muta tristezza di Maruzza era visibilmente letta in faccia, non solamente da parte dei genitori, ma anche del vicinato che  vedeva intristire sempre più il visino smunto in proporzione al rarefarsi della figura del postino nell’atto di bussare alla porta della giovane.

Un pomeriggio d’inverno la gnura Minichina, dirimpettaia da gran tempo, chiamò a casa sua la malinconica giovanetta e la fece sedere di fronte a sé. Cominciò a parlarle accoratamente, chiudendo il pugno d’una sua mano e stringendolo con l’altra, come se volesse significare con quel gesto naturale, che le parlava col cuore in mano.

L’anziana donna, con le lacrime agli occhi, le raccontò la triste vicenda della sua vita di quando giovane madre di due teneri bimbi, il marito partì per l’America e dopo qualche tempo non si fece più  sentire; da parte di compaesani, residenti nella stessa città del vile consorte, apprese la struggente notizia: lo spregevole traditore s’era  ngaddruliatu con una bionda polacca, compagna di lavoro.

La poveretta, tra lamenti e singhiozzi, continuò a esporre le conseguenze  sulla sua triste esistenza successiva al gran tradimento: dovette adattarsi a fare la lavandaia di casa in casa per racimolare un pezzetto di pane e fruire, di tanto in tanto, del regalo di qualche frutto della campagna dei suoi clienti e di qualche vestitino smesso, utile a far difendere dal freddo invernale i suoi bambini.

Quando la tremolante sventurata ebbe sfogato con gemiti e lacrime amare  il suo immenso dolore, considerando che nei paesini era difficile trovare uno sposo per una ragazza promessa a un altro e poi abbandonata, abbracciò Maruzza e le disse: - Datti da fare come meglio puoi, figlia mia, prima che sia troppo tardi.

La giovane tornò a casa avvilita al massimo perché capiva che era troppo lontana Pittsburgh…

Riferì la storia appena conosciuta e il consiglio della gnura Minichina ai suoi genitori, che, ugualmente accorati , le precisarono che essi erano da gran tempo a conoscenza della triste vicenda della poverina.

Le parole sincere della buona vicina rimasero presenti nelle menti dei familiari, tutti protesi a trovare una soluzione tanto complessa.

Da tempo il padre di Maruzza, Turiddu, carezzava tra sé un’idea che trovava un po’ avventata: in quella lontanissima stessa città del promesso infame sposo viveva il suo lontano parente Gannurfu, con il quale aveva avuto in gioventù un buon rapporto. Questi quando viveva a Villarosa era percepito come un picciuttu ‘ntisu.

Il povero padre speranzoso si chiedeva: perché non debba essere  possibile che anche in quell’altra faccia della Terra, Gannurfu, sia pur maturo d’anni, non possa essere sempre considerato omu di rispittu?

Infine partì da Villarosa una toccante lettera di Turiddu per il parente lontano. La stessa Maruzza s'incaricò d'impostarla, dopo averla fortemente stretta al cuore e bagnata da un’invisibile goccia d’acqua benedetta.

Circa due settimane dopo, una mattina si presentò alla porta di Pippinu l’anziano Gannurfu in persona. Il padrone di casa confuso lo invitò ad entrare, quello si rifiutò e, consegnandogli vari biglietti di viaggio, gli disse perentoriamente:

-        Stasira stissu tu parti ppi Villarrosa!

Pippinu provò a schermirsi, l’altro gli tolse le carte di mano e, con veemenza, gliele infilò nella tasca interna di la bunàca, com’era allora chiamata nel nostro dialetto la giacca.

Subito si volse di scatto e lasciò di stucco sulla soglia di casa il vile fedifrago.

Passarono appena due mesi e due solenni “SIfurono pronunciati davanti all’Altare Maggiore della Chiesa Madre del paese natìo.


Conseguentemente, fu così che poté nascere,  tantissimi anni dopo,  il mio giovane amico.

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