lunedì 7 aprile 2014

L’AMORE NON È BRODO DI CECI


              Quando vediamo disfarsi tanti matrimoni spesso si desidera fortemente che essi non siano stati mai celebrati, ma ci sono amori intensi che non arrivano all’altare e nel tempo creano vuoti incolmabili anche nella futura esistenza.

               Spesso mi affiora nella memoria la storia bellissima dei due innamoratissimi giovani che verso la fine degli anni quaranta e nei primi del decennio successivo vivevano un rapporto sentimentale che loro credevano furtivo, ma solamente per modo di dire perché esso era noto a “Ciccu e u pupulu”.  

          Quelli erano tempi difficili per l’amore, specialmente per quello vero e puro, che si esternava con sguardi furtivi, col passare e ripassare sotto la finestra della bella, col seguirla alla Messa domenicale o standole dietro a opportuna distanza nella passeggiata festiva: tutti gesti silenziosi che si ritenevano invisibili, ma erano altamente comunicativi. Insomma prima che il rapporto si consolidasse, con una lettera fatta arrivare a destinazione nei modi più accortamente escogitati, tutto il paese era a conoscenza della novità. Non per niente esiste da noi il proverbio: “Amuri, prinizza e dinari, su tri cosi ca nun si punu ammucciari”.

              Brunella e Gabriele, così li chiamo per rispettare la privacy di ciascuno, appartenevano a due modeste famiglie borghesi. I genitori d’entrambi lasciavano liberi nella scelta i ragazzi; ugualmente la pubblica opinione reputava armoniosa la futura completa unione, anche se, come sempre accade, le immancabili malelingue ci mettevano il consueto pizzico di veleno, come su ogni umana circostanza.

             La cerchia d’amici cui apparteneva Gabriele era vasta e coesa. Io ero più giovane rispetto a loro e quindi non ne facevo parte, ma li ammiravo tanto.

        Per anni il rapporto continuò senza mai ufficializzarsi, forse perché, per le difficoltà dei tempi, Gabriele attendeva un’opportunità di lavoro che gli consentisse di mantenere la futura famiglia.

              A un certo momento tra la gioventù del paese s’inserì un bel giovane, proveniente da una città della Penisola, che era fratello della moglie forestiera di un nostro facoltoso concittadino.
Benedetto, chiamiamolo così, fu accolto nei vari gruppi giovanili con tutte le premure che noi notoriamente siamo soliti offrire ai forestieri.
Bisogna ammettere però che il giovanotto si mostrava da vero signore e meritava ogni attenzione, che egli ricambiava con serena riconoscenza.

                   Una mattina deflagrò, come bomba, per il paese la notizia che il pluriennale fidanzamento tra Gabriele e Brunella si era spezzato e che quest’ultima si era promessa come sposa a Benedetto.
Lascio immaginare i commenti che si espressero a tutti i livelli della popolazione, ma nessuno ovviamente era in grado di ravvisare i dettagli intimi di una scelta tanto discutibile.
La novella copia convolò a nozze e si stabilì nella lontana città dello sposo.

             Quel rapporto durato lunghi anni amareggiò tanto la gioventù villarosana e la massima comprensione fu orientata alla, pur non palesata, amarezza del giovane umiliato.
Passarono alcuni mesi e Gabriele trovò una stabile occupazione fuori Villarosa.

                   Erano passati pochi anni dal periodo di tutte le amarezze alle quali intervennero con spirito di umana partecipazione buona parte della cittadinanza, quando Villarosa approvò con sincero favore il fidanzamento ufficiale di Gabriele con Giusy, una seria e più giovane ragazza di una famiglia locale.

              La nuova coppia di sposi andò a vivere, per motivi di lavoro, in una città siciliana.

                  
          Gli anni scorrevano e le due famiglie in questione erano state allietate da diverse nascite, quando a Villarosa, come fulmine a ciel sereno, si venne a sapere che Benedetto era mancato all’affetto di tutti i suoi cari.

     La notizia sconvolse i parenti e buona parte dell’opinione pubblica. Di certo non mancarono i soliti sapientoni che vedevano, in un fatto naturale come il trapasso ad altra vita, un segno di castigo del destino inesorabile.

              Passarono altri anni ancora e si aggiunse alle già tanto discusse vicende quella della prematura dipartita di Giusy.


                 Questa volta le interpretazioni sulla fatalità incombente sugli esseri umani uscirono dai naturali binari ed entrarono in commenti e soluzioni che sfiorarono persino la meschinità.

                 La più ovvia e la meno infelice delle ipotesi era quella che auspicavano, finalmente, il ritorno all’antico amore, imposto, secondo loro, indiscutibilmente dal destino.

             I più assennati capirono che tal eventualità era, almeno al momento, inopportuna.

            Passò più di un anno dall’ultimo funesto evento, quando due degli amici di sempre furono riconosciuti dagli altri, i più idonei a cimentarsi su quel delicato argomento.

            L’occasione non mancò di certo e quando uno dei due con garbo riprese discorsi antichi, prima ancora che fosse entrato nel cuore della specifica confidenziale proposta, Gabriele, che aveva intuito dove andava a parare quel dire, accennò un triste sorriso e troncò la pur lodevole proposta non ancora proferita, precisando:

            - L’amuri nunn’è brudu di cìciri, speci quannu d’assà timpu jè mucàtu.

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