domenica 27 dicembre 2015

"MA DUNA NA LIRA DI SSA COSA?"

"MA DUNA NA LIRA DI SSA COSA?"

               Lo scoppio della guerra nel giugno 1940 fece rallentare al massimo grado i rapporti commerciali tra Nord e Sud: la ferrovia e le relative stazioni erano bersaglio frequente di mitragliamenti e bombardamenti aerei, le autostrade ancora non esistevano e conseguentemente i prodotti industriali di qualsiasi genere erano pressoché inaccessibili. Al contrario, ad alto rischio, viaggiavano sulle strade soldati, carri blindati, cannoni ed esigue vettovaglie per la truppa.

            Successivamente allo sbarco nella zona di  Gela nel giro di pochi mesi l'Italia fu tagliata in due e  da tanto ne conseguì una scissione totale.
In quella situazione la merce principale che a un ragazzino potesse interessare era ovviamente quella alimentare che quando si era fortunati si riduceva al tozzo di pane, che non sempre si aveva la buona sorte d'avere in casa. Alla domanda del bambino che chiedeva ccu ccu s'aviva a mangiari u pani, cioè il companatico, spesso la risposta amaramente semischerzosa dei genitori era la solita: pani, crusta e muddricuni.

            Ricordo con tristezza quei ragazzini che tra ottobre e novembre chiedevano a vicini di casa proprietari di alberi di ulivo se potevano aiutarli a raccogliere da terra le relative bacche, che notoriamente non sono in quello stato direttamente mangiabili come in genere l'altra frutta: mi fu spiegato dai grandi che l'offerta della propria dura fatica, in apparenza gratuita, sarebbe stata ricompensata col tozzo di pane accompagnato da mezza sarda salata, che ciascuno avrebbe consumato durante la sosta di mezzogiorno.
Ricordo ancora che da scolaro a primavera ogni tanto il direttore consentiva alle scolaresche di andare "a passeggio". Era un tripudio per tutti, ma la maggioranza degli alunni s'infilava nei prati, tirava fuori dalla tasca un coltellino e si dedicava a raccogliere erbette a me sconosciute che divoravano con ingordigia: panipanuzzu, piscialazzi, cardeddra, pidi di gaddru e tante altre delle quali non ricordo più nemmeno il nome.
Contemporaneamente da parte mia vagamente ancora mi ricordavo di certi companatici, tipici di regioni nordiche, che papà, quando non c'erano frigoriferi nelle case, portava in piccole porzioni sera dopo sera e dei quali avevo dimenticato prestissimo i nomi, come un  morbido e gustoso formaggio rivestito all'esterno da carta stagnola, il "gorgonzola", i formaggini …

             Sempre a proposito di queste antiche carenze, mi sovviene un ricordo  recente: in un pomeriggio estivo un signore avanti negli anni, ma vivace, con la telecamera in mano usciva dalla Matrice, inquadrava e riprendeva la piazza, di fianco il Palazzo Ducale e la torre dell'orologio; poi, scendendo giù dalla scalinata, si rivolse all'amico con cui io parlavo e gli disse: - Cce fari vidiri e' ma figli ca cca nun simu propriu rrobba di terzu munnu…
Appena completammo con l'amico il discorso iniziato, ebbi la curiosità di chiedergli chi era quel villarosano tanto orgoglioso del suo paesello.
Appena ne appresi il nome, subito accorsi per raggiungerlo perché si trattava proprio di un mio caro compagno di classe, fra l'altro ritratto nella foto di gruppo della Prima Comunione del 1941, emigrato in qualche stato del Nord europeo alla fine degli anni ‘40. Fu vana la mia corsa, perché era forse ripartito in auto.
Ci rimasi molto male, ma nello stesso tempo fui molto compiaciuto del fatto che Minicuzzu aveva fatto nella vita all'estero passi avanti e difendeva il suo primo borgo agli occhi dei ben pasciuti figli. Di sicuro costoro conservavano ancora l'immagine che s'erano fatta del mondo dei tempi duri trascorsi da papà in Villarosa: chissà se egli aveva raccontato anche a loro quel che un giorno dei tempi  amari egli aveva consigliato a me: - U sa quantu sapi bbunu u pani accumpagnatu ccu na stizziddra d'agliu?

             1945: due tristi anni erano trascorsi dall'invasione Anglo-americana in  Sicilia; il commercio col Nord molto lentamente andava riprendendo il suo ritmo. I primi prodotti alimentari nordici cominciarono ad arrivare a Villarosa. Don Michele Castellano, fu il primo fra i suoi colleghi, che ordinò la già comunissima mortadella di Bologna.
Appena l'ebbe ricevuta, l'espose bene in vista sul bancone frontale.
Non si formò una coda d'acquirenti, ma di curiosi sì. Fra le giovani generazioni pochi capirono di cosa si trattasse.

               Tra costoro c'era u figliu di Caliddru. Egli abitava in un misero tugurio in contrada Garciuddra, col vecchio padre disabile per una marcatissima gobba, sicuramente originata da un precoce e lungo carusatu di pirrera: il ragazzo non aveva per tutti un proprio nome; seppi che era mio coetaneo solamente circa un decennio dopo, quando ci trovammo in uno stanzone della Pretura, nudi tutti insieme i maschi del 1934, quali comuni cittadini italiani, alla visita militare di leva.
Una delle primissime sere dell'arrivo del prodotto bolognese, mio padre, mentre andava a comprare il solito companatico serale, ebbe richiesta sul marciapiede la consueta carità dall' indigente ragazzo.

             Subito dopo si ritrovarono ambedue nella bottega del Castellano, nel momento in cui il figlio di Caliddru, con la misera moneta cartacea quadrata delle AM Lire in mano, indicando la mortadella, chiedeva:
          - Ma duna na lira di ssa cosa?

Il prezzo del dopoguerra di "ssa cosa" era di ben mille lire al chilogrammo, accessibile a pochissime famiglie in quel momento di lentissima ripresa. Don Michele abbozzò un sereno sorriso, tagliò una sottilissima porzione di fettina di mortadella, gliela porse in mano e gli fece cenno di tenere per sé l'altrettanta leggerissima liretta.

           Spesso mi chiedo perché mi ritrovo a evocare questi antichi ricordi e concordo pienamente che questa è la genuina storia del nostro popolo e non solamente quella che apprendiamo dai libri degli studiosi: è pure importante la conoscenza delle gloriose vicende degli Stati e delle Regioni: il Re che diventa Imperatore, la Regione nostra che ottiene l'Autonomia, l'Italia che col Fascismo acquista gran prestigio nel mondo, le due Guerre Mondiali…  ma non dobbiamo dimenticare tutto il cumulo di sofferenze e di morti, che sono stati pesantemente appioppati all'esistenza già triste d'intere popolazioni.
I nostri figli anche questo dovranno imparare a conoscere: non è la momentanea gloria a far grandi i popoli, ma il vivere sereno, senza atroci privazioni e morti violente.              
 In questo momento storico di rimasuglio di benessere che comincia a scemare fortemente a causa delle ingiustizie che nascono dall'ingordigia dei potenti, dalle mafie e dagli sperperi inutili, il mio vorrebbe essere un gesto scaramantico per allontanare la tristezza di quei tempi vissuti, sempre sperando che non tornino mai più.

lunedì 23 novembre 2015


Figure tipiche nel Corso Garibaldi di circa 80 anni fa


Il nostro Corso è da sempre è stato l’anima del paese, a parte che per esso scorre la S.S. n. 121.
Ero bambino e sentivo parlare ancora delle schermaglie verbali di vecchia data fra Vizzichinu e Castillanu, due personaggi che ho conosciuti bene nella loro tarda età, quando non erano più vicini di putìja, tanto da non potersi stuzzicare frequentemente come prima: il Castellano commerciava pane, farina e modesti insaccati, il Vizzichino vendeva stabilmente frutta e verdura.
Inizio a parlare dei personaggi che operavano durante la mia prima infanzia a cominciare dal Castellano che aveva bottega dove oggi è situata la cartoleria Lombardo: don Michele fu molto vicino a mio padre anche per gli ottimi rapporti che questi intratteneva con i figli e i generi del primo. Il più piccolo dei maschi, esile di costituzione, era bravo a scuola al punto che il padre volle che continuasse gli studi per diplomarsi da maestro.
Si chiamava Salvatore, per tutti era Totò, tranne che per il padre che continuò a chiamarlo all’antica, Tatò.
L'elettricità ancora non era arrivata in paese e quindi la stessa radio, oggetto di gran costo di per sé, non poteva esse operativa, soprattutto per quanto riguardavano le notizie di cronaca e di politica generale. Così ogni giorno il padre, cresciuto in più lontani tempi quando la scuola era un lusso non consentito al popolo minuto che avviava fin da ragazzini i figlioli a carriari, dava al piccolo scolaro una moneta perché andasse a comprare il “Giornale di Sicilia” di Palermo da don Peppino Gervasi, che tra la più varia merce che trattava, di sola lettura vendeva esclusivamente tale unico quotidiano che arrivava a Villarosa. Per meglio inquadrare la situazione culturale locale, preciso che nella mia primissima infanzia non esistette nessuna edicola di giornali: la prima fu aperta nei primi anni '40 da un certo Tumia. Solamente un settimanale era pure in vendita nella Tabaccheria del Sindaco Profeta, gestita da don Ciccio Marra, "La Domenica del Corriere", edito a Milano.
Appena Totò tornava in bottega, il papà lo sollevava da sotto le ascelle e lo poneva a sedere sul bancone.
Il ragazzino cominciava con la lettura dei titoli a caratteri cubitali e poi, al cenno del genitore, iniziava a leggere con calma l' intero articolo segnalatogli.
Don Michele rimaneva estasiato nell'atto di ammirare quel raro dono della padronanza della lettura, che fluiva dalla bocca di un minuto ragazzino.
Anni dopo, quando io conobbi i due famosi contendenti, essi di già operavano a distanza: li divideva la piazza e la diversità della merce in vendita.
Vizzichinu, La Posata all'anagrafe, era noto a tutti con questo soprannome, tanto che spesso i forestieri lo chiamavano "signor Vizzichino".  Era una figura minuta che si dava da fare a guadagnarsi da vivere per sé e la famiglia. Io lo ricordo soltanto come attivissimo fruttivendolo, quando già il caffè era divenuto introvabile a causa delle Sanzioni economiche subite dall’Italia. I più anziani, rispetto a me, lo ricordavano ancora nell'atto di girare di prima mattina per le vie del paese, con un trabiccolo spinto a mano, rassomigliante vagamente a quello dei gelatai, a vendere un profumato caffè caldo.
Annunciava la sua presenza in giro, manifestandosi col suono di una tromba:
 - Tuuu... Tutuuu!
E poi, gridando:
 - “Caffè, caffè venuto dall’Oriente “dicètelo” alla gente se non vi dico la verità”
Ora, anche se siamo fuori argomento rispetto al precedente personaggio, ma attigui come locale, voglio trattare della figura simpatica di don Michele Lentini, che io conobbi solamente da vivace pensionato.
Era un  barbiere vecchio stampo che aveva operato anche come cavadenti, senza poter far uso in quel tempo di nessuna forma di anestesia; ugualmente praticava “scarnazzi” , che  consistevano nel tagliuzzare, seconda un’antichissima credenza, la pelle nella zona sottostante la nuca  e aspirarne il sangue mediante coppette in vetro dentro cui bruciava per pochissimi secondi un pezzetto di bambagia, per curare certi disturbi, quali emicranie e generici mal di testa: tale pratica, ormai da molti decenni, è stata rimossa del tutto dai sistemi adottati dalla scienza moderna.
Io lo ricordo come un vecchietto spiritoso e socievole che s’intratteneva anche con i giovani con argomenti allettanti. Fra le tante battute che sentivo spesso riferire, me ne sovviene ancora una scherzosa rivolta a un giovane in difficoltà.
 Questi era un ragazzo vissuto al nord e che passava le ferie presso parenti a Villarosa. Un giorno scendendo in bicicletta dalla piazza dei Quattro Canti verso est, gli si ruppero i freni e cominciò a gridare a gran voce:
 - Chi mi tenga… Chi mi tenga….
A don Michele che era prossimo alla porta, non potendo far nulla per aiutarlo, gli scappò dalla bocca un’impropria espressione, rimasta famosa fino alla mia infanzia:
-Tènghiti tu e cu ti tenghi tenghi!
Ancora ricordo nn'aria nn'aria la gelateria da Cartanittisa, signora Bella di cognome,  che sorgeva nei due pianterreni che concludevano l'isolato dei due  precedenti personaggi e terminavano con l'imbocco di via Poeta.
Da piccolo ne sentivo spesso parlare e tanto rinnovava in me quella labile reminiscenza. Non ricordavo completamente  i visi dei due coniugi, che si trasferirono nella propria città, dove aprirono il Caffè Bella nei pianterreni dell'isolato a fianco di quello dell'ex Standa.
Quando frequentai il Liceo a Caltanissetta davo sempre un sbirciatina nel locale, ma nessuno mi suggeriva qualcosa come l'ombra d'un viso familiare.
Tanto non avvenne nemmeno trovandomi nello studio d'un medico, dove in attesa del mio turno, mi trovai, diciassettenne,  a conversare con un signore d'età avanzata che quando apprese che ero di Villarosa, mi informò che egli aveva gestito per tanti anni un locale proprio nel nostro paese.
Io  subito proruppi: - Allora lei è don Alfredo?
Al che il vecchietto obiettò che era difficile che un giovane della mia fresca età potesse ricordarsi di lui. Io precisai che avevo solamente tanto sentito parlare di lui, ma ovviamente non accennai al particolare, che me lo aveva reso indelebile nella memoria, relativo alla sua non visibile invalidità permanente acquisita nella Prima Guerra Mondiale.
La sua signora ben presto rimase vedova.
Quando questa raggiunse un’età ancora più avanzata suscitò tanto scalpore a Caltanissetta, e non solo nella sua città, per via di certe visioni di lacrimazione della sua statua della Madonna di Lourdes, eretta nel giardino della sua villa in contrada Nìscima. Ebbe il suo momento di notorietà, anche sulla stampa, ma ben presto però ugualmente raggiunse direttamente in Cielo la Madre di Gesù.
Ho cercato su internet traccia di questo evento, che io ricordo benissimo, ma ho trovato soltanto il seguente sito: http://www.preghiereagesuemaria.it/libri/dio%20cammina%20con%20gli%20uomini. htm  che riporta un libro, del quale cito di seguito queste poche parole in merito:
“A Nìscima (Caltanissetta) nella Villa Bella ha pianto moltissime volte la statua della Madonna di Lourdes: una volta un incredulo, che poi è dive­nuto mio amico (Aldo Martorelli di Catania), andato per curiosità sul luogo e presa la statua fra le mani, se la vide piangere e, naturalmente, subito si converti.”

mercoledì 22 luglio 2015

U TIRNU DO ZZI PEPPI

Ebbi il modo d'incontrare da vicino u zzi Peppi T. quando egli era già circa ottantenne. Era un vecchietto un po’ strano, perché non lo vedemmo quasi mai avere contatti con individui della sua generazione: nessuno, dei figli allora viventi e dei nipoti e pronipoti oggi tra noi, ha manifestato altrettanti segni di inadeguata socievolezza.

Il suo hobby era il gioco da pignateddra, una scatolina e due dadi che tirava fuori dalla tasca quando dei ragazzi gli si avvicinavano e lo invitavano a giocare.

Il gioco che proponeva ovviamente era di entità monetaria minima perché i giovanissimi clienti, in quel mio tempo, non possedevano somme con più zeri,  ma semplicemente degli spiccioli postbellici in AM lire di carta.

I giovani ponevano sullo scalino la somma che mettevano in gioco e u zzi Peppi agitava i dadi dintra a pignateddra. Quindi la rovesciava sullo stesso gradino e subito le due parti del gioco passavano a eseguire la somma dei punti rilevati sulle due facce superiori dei cubetti; poi si ripeteva il rimescolamento di essi nella scatolina con lo stesso procedimento: se i punti del giocatore giovane risultavano inferiori a quelli del vecchietto, quest’ultimo intascava la posta giacente sullo scalino; in caso contrario ovviamente era l’anziano che sborsava l’equivalente sommetta, con imparzialità.

Un tardo pomeriggio d’inizio di un’estate del dopoguerra, io con un gruppetto di amici ci eravamo avviati tranquillamente verso San Calogero, che era allora la meta abituale delle passeggiate, camminando con estrema sicurezza nel mezzo dello stradale, su cui eccezionalmente si trovavano a passare veicoli a motore o carretti a trazione animale, e inoltre perché, pur essendo rispettata la planimetria tracciata da Rosa Ciotti, non esistevano ancora invitanti marciapiedi, che erano solamente di terra battuta.


Giunti all’altezza della porta della chiesetta del Santo, scorgemmo seduto sullo scalino u zzi Peppi. A questo punto i jucatura spizzati della compagnia si precipitarono a invogliare il noto giocatore. Questi ne fu sommamente felice un po’ per scacciare la noia e poi, perché no, per provare a intascare qualche non prevista liretta.




Si procedette serenamente fino a quando forse vennero meno i soldini con i quali continuare le puntate.

I giocatori si ritirarono dal gioco, che li aveva appassionati tanto, e cominciammo a scummàttiri bonariamente il vecchietto.

A un tratto uno della compagnia, che forse conosceva la fissazione dell’anziano di predire l’avvenire, se ne uscì con una domanda, che a me apparve del tutto fuori luogo, oltre che stupidamente cattiva: - Zzi Pe’, vossì quannu a vo mòriri?

Il vecchio, senza scomporsi affatto, serenamente rispose: - U quìnnici di maju do millinovicintusittantadui.

Tutti, dopo aver riflettuto un istante, scoppiammo a ridere perché i venticinque anni circa che ci separavano dalla lontana data, aggiunti a quelli superati dell’ottuagenario avanzato, non glieli prevedevamo da vivere ancora.

Fu a questo punto che io proposi alla compagnia di ricordarci bene di quella data per verificare in avvenire, se per caso, u zzi Peppi possedesse realmente tale capacità divinatoria.

Intanto cercavo di escogitare un sistema sicuro per memorizzare quella predizione alquanto azzardata. Mi giravo intorno per esaminare la situazione quando gli occhi si posarono proprio sulla facciata della chiesetta che era stata restaurata da poco con gesso colorato di rosa in vista della festa del Santo, che era prossima. Cominciai a muovermi intorno finché non trovai un grosso chiodo, storto e arrugginito, col quale graffiai il liscio e morbido intonaco con la scritta: U ZZI PEPPI T. MORIRÀ IL 15 MAGGIO 1972.

Andammo via certi che il graffito sarebbe durato almeno fin quando la facciata non fosse stata rifatta, non potendo prevedere che al posto del luogo sacro sarebbe sorto anni dopo un moderno edificio in cemento armato.

Avevo quasi dimenticato la poco probabile profezia. Sul finire dell’estate, a settembre, s’erano ripresi a celebrare i matrimoni, che in quel tempo, per tradizione tutta villarosana, erano fermamente interdetti in due mesi dell’anno, maggio e agosto.

I trattenimenti allora si svolgevano in casa e un’ orchestrina locale allietava l’evento, il ricevimento e dava ritmo all’ immancabile ballo. Io, quella volta invitato con i miei genitori al matrimonio d’amici di famiglia, avevo scelto la compagnia di ragazzi della mia età in prossimità del complessino, il cui violinista era un amico di mio padre, u zzi Mariu Pipa, che io ammiravo molto da tanti punti di vista, principalmente da quelli della bravura musicale e della vivacità di carattere.

Durante il rinfresco il piccolo gruppo musicale sospese l’esecuzione e u zzi Mariu, tra un biscotto e un bicchierino di rosolio, volle menzionare un fatto sorprendente accaduto nelle ultime settimane in paese: un certo Regatuso aveva letto, incisa sulla facciata della Chiesetta di San Calogero, una scritta che trattava d’un insolito e insensato argomento relativo alla previsione della morte do zzi Peppi T., tanto che pensò di giocare al Lotto su tutte le Ruote i tre numeri rilevati sull’ anonima incisione, 15 - 19 - 72, vincendo un discreta sommetta, che in parte volle destinarla agli amici, presenti alla scoperta della scritta, invitandoli all’osteria. Ospite d’onore ovviamente fu l’inconsapevole protagonista, u zzi Peppi T., che poverino della faccenda non capì niente, ma in compenso fece onore alla tavola, accettando di buon gradimento.

Mentre io ero intontito per quelle insolite coincidenze che avevo vissuto in posizione di primo piano e nello stesso tempo ero attento a ogni parola e commento, u zzi Mariu riprese a stupirci quando aggiunse che lo stesso terno, ancora non scoperto né giocato, era uscito in altra “ruota” del lotto la settimana precedente a quello vincente e che un ambo con due degli stessi tre numeri, ovviamente non vincente, fu estratto nella settimana seguente in altra terza “ruota” ancora.

Avrei voluto inserirmi nella discussione e raccontarne il retroscena, ma tacqui perché sentivo forte il disagio per aver deturpato la liscia facciata da poco rifatta in onore del Santo.

Tutte quelle coincidenze non erano certamente poche e io ero molto curioso di sapere se in avvenire l’ultima, sia pur lontana, si sarebbe potuta avverare.

Poco tempo dopo invece, u zzi Peppi continuò Lassù il gioco da pignateddra, con gli Angioletti.




mercoledì 8 luglio 2015

CENNI SUL MONDO SOCIALE ANTERIORE AGLI ANNI ‘50

I segni più vistosi d'una certa distinzione sociale ai tempi della mia infanzia e prima giovinezza erano i copricapo, "cuppuli e cappedda", che però non erano obbligati come una divisa. 

Decenni prima era stato comune un copricapo di panno dalla forma cilindrica coperto in alto e senza fondo in basso per consentirgli di adagiarsi sulla testa, era “a scuzzitta”[Il berretto tipico di Giuseppe Garibaldi, anche se non di origine siciliano, si può considerare una "scuzzitta"] . Il colore della stoffa era scuro ma poco identificabile perché quei pochi che sono riuscito da ragazzo a vedere sul capo di qualche vecchietto erano molto unti per la scarsa igiene praticata in quel tempo. Oggi per sciccheria la porta qualche uomo di cultura legato alle tradizioni della nostra terra. Ricordo che alla celebrazione del Centenario della nascita di Vincenzo De Simone fu invitato il poeta Ignazio Buttitta, grande estimatore ed amico del Nostro. L’ospite si presentò al Cinema Italia dove si svolse la celebrazione con una “scuzzitta” di colore blu tradizionale con dei ricami in filo dorato. Qualche anno più tardi rividi un simile copricapo rosso e fregiato dei soliti ricami dorati indossato da un antiquario di Taormina, amante della cultura e amico di personalità del gotha internazionale e, per citare la più ragguardevole per arte e notorietà, dell’attrice Greta Garbo.

Fino a un decennio dopo la fine dell’ultima guerra, era impensabile che un operaio o un contadino, sia pur benestante, portasse il cappello. Di festa invece qualche artigiano l’indossava. A tal proposito ho un ricordo indelebile. Era il 1946: prime elezioni amministrative. A Villarosa erano in lizza due liste: quella della Democrazia Cristiana e quella civica con emblema “il Leone” capeggiata da un ex sindaco del periodo prefascista, don Peppino Profeta, a cui s'erano unite le sinistre.



       Mio padre fu invitato a candidarsi, non chiese il voto a nessuno, non tanto per superbia ma per il principio della libertà di scelta: fu eletto ugualmente e con moltissimi suffragi. Io dodicenne seguivo le manifestazioni democratiche che per me, e non solo, erano assolute novità.

      Vinse la lista popolare e subito a scrutinio completato spontaneamente si formò un immenso e composto corteo che fece il giro del paese lungo il tragitto delle processioni. Mi colpì la frase di un signore che rivolgendosi a mio padre disse: - Nun cc'è mancu un cappiddu!
Io curioso salii su degli scalini esterni d’una casa della via Milano e appurai l'affermazione appena sentita.


Altra distinzione sociale, a parte certe professioni particolari, dottore, professore o avvocato, era il modo di nominare le persone: Don e Donna, Mastru e Gnura. Artigiani, commercianti, impiegati e rispettive mogli erano chiamati col Don e Donna, il resto della popolazione con mastru e gnura. C'era pure una zona intermedia fra il Don e il Mastro, che si risolveva con “zzi”appellativi confidenziali che non presupponevano l'esistenza di parentela: zzi Pe', zzi Turì, zzi Marì, zzi Minichì....

Sconfinare da queste regole comportava biasimo ed ironia.
Ricordo che c'era una donna che proclamava, in italiano: - Io sono la signora Alessi...
Ma la si compativa come persona un po' stramba...

        Fino agli anni '60 i contadini, anche i più facoltosi, d'inverno usavano “ a scappulara”, scapolare, una specie di mantello di stoffa pesante di color blu con cappuccio. Gli altri che si volevano distinguere dal popolo minuto usavano “u palittò”, il cappotto. I più poveri s'arrangiavano come potevano...
In tempi più antichi, professionisti e galantuomini, portavano un elegante mantello con borchia dorata a chiusura alla base del collo, u firriulu.

Come si evince c'era una scala sociale variegata che ciascuno rispettava per timore d'essere preso in giro, ma non c'era un obbligo legale: era solamente una convenzione tacitamente rispettata.

In fondo era il reddito che creava il discrimine. In ogni categoria c'era anche una scala di  valori a seconda  delle capacità professionali o dal modo di proporsi al prossimo.

I vari mondi sociali erano poco permeabili, ma si poteva passare dall'uno all'altro nel corso delle generazioni. Importante era la considerazione morale della famiglia, ma il reddito e il potere erano più attraenti, come anche oggi del resto.


Della scala agricola l'ultimo era, ed è ancora, “u jurnataru”; di quella zolfifera “ u panuttaru”, quello che impastava le polveri inerti miste a scagliette di zolfo che asciugate venivano infornate per trarne un minimo di zolfo liquido. I “panutti” sbriciolati concorrevano a formare “u ginisi”, lo scarto inerte che rimane dalla combustione e liquefazione dello zolfo; esso era un ottimo materiale idrorepellente molto adatto per costruire stradelle.

A proposito “do ginisi” sono ancora visibili sullo sfondo del corso Regina Margherita verso nord dei grandissimi coni di deiezione di color rosa formati da tali rosticci. Oggi hanno perso il color vivo che ancora tengo negli occhi della mente e sono solcati dall’ erosione delle piogge nei numerosi decenni.

Sempre a proposito del suolo villarosano tutta la zona ai piedi del monte Respica, a destra dell’ “Ariazza”, appare come un paesaggio lunare, cumuli irregolari e buche sempre di color rosa per via dei rosticci, essi sono “i ginisara” di Verona: così comunemente è chiamata la zona. Da ragazzo mi chiedevo che cosa c’entrasse la città veneta col nostro paese, ma nessuno mi sapeva dare una risposta. Col tempo, leggendo, ho scoperto che Verona era il cognome d’una facoltosa famiglia palermitana di industriali dello zolfo e padroni di miniere nella zona.

Mi compiaccio di citare questi particolari che se non fissati nella forma scritta sono condannati ad inesorabile dimenticanza, come ad esempio l’origine del nome Respica.

Quand'era ragazzino sentivo chiedere a qualche giovane che scuola avesse frequentato e questi con un risatella rispondeva: - U quartu ginisaru di Verona! Io confondevo tale parola con ginnasio, ma i conti non minquadravano perché l’interpellato non corrispondeva ai canoni dello studente.

Teoricamente la scuola era aperta  a tutti, nella sostanza invece a una striminzita minoranza. Un solo esempio potrà dare un'idea approssimativa. Nella mia prima classe, anno scolastico 1940-41, gli iscritti eravamo 56 [ho la fotocopia dell’elenco del registro]. Non  tutti però i nati del 1934 [si tenga presente che allora al nostro Comune mancavano poche decine di abitanti per arrivare ai 12.000] varcarono quel primo ottobre il portone del novello palazzo scolastico Silvio Pellico”, almeno altrettanti erano per le strade del paese o in campagna. Dei miei 56 compagni originari, quelli che arrivammo in quinta si potevano contare si e no sulle dita d'una mano, gli altri dieci erano i reduci dalle altre prime e poi s’era aggiunto qualche ripetente. Restavano inesorabilmente fuori della scuola i poveri che non possedevano un paio di scarpe. A tal proposito fra le gallerie di foto del sito villarosani.it ce n'è una di gruppo nella quale tanti dei ritratti seduti a terra mostrano con assoluta naturalezza i piedi nudi, senza poter contare gli altri in piedi, nascosti alle estremità inferiori, da quanti stavano loro davanti. La foto mi pare degli anni '50, lascio immaginare quanti altri piedi scalzi nei decenni precedenti...

Non si finirebbe mai di raccontare aspetti tristi del tempo, che si spera tanto che non torni mai più: voglio lasciare spazio a qualche concittadino di aggiungere particolari nuovi o correggere eventualmente i miei.


martedì 23 giugno 2015

“U libru de conti fatti” e altre antiche utilità pratiche


Tanti giovani d’oggi, complici le calcolatrici elettroniche, vanno sempre più per le vie brevi, spingendo nel dimenticatoio la plurimillenaria Tavola Pitagorica, che pur rappresentando spesso la bestia nera per i ragazzini delle scuole elementari, si finiva per impararla per tutta la vita.
Nella trasmissione televisiva “L’Eredità”, condotta da Carlo Conti, è spesso argomento di domande la classica “Tabellina”. In essa eccellono in genere gli attempati concorrenti, mentre annaspano i più giovani.
Fino a non molti decenni fa erano pochi quelli che completavano le scuole primarie, gli altri, purtroppo i più numerosi, non andavano affatto a scuola, rimanendo del tutto analfabeti.
Tanto non accadeva solo ai carusi che andavano a “lezione” dal picconiere o ai figli di contadini che aiutavano in campagna o a poverissimi che andavano a garzone ddo curatulu, ma persino a “galantuomini” ai quali non sarebbero mancate le possibilità di frequentare scuole pubbliche o private. Da ragazzo con ironia sentivo ripetere ogni tanto la battuta: - Non firma perché galantuomo. Mi fu spiegato allora che certi ignoranti figli di papà, dovendo firmare dal notaio un atto e dal momento che si vergognavano di manifestare di non esserne capaci, ricorrevano a questo sciocco espediente.
I numeri erano più facili ad impararsi rispetto alle lettere dell’alfabeto e chi si dà al commercio ha una particolare inclinazione verso i primi. Inoltre da esperienza diretta, nei tempi in cui insegnavo, notavo che i ragazzi propensi ai giochi di strada, come ad esempio canniddu, cabissi, carti e altri simili, erano molto più bravi in matematica rispetti ad altri compagni che prediligevano la vita in casa ed eccellevano in argomenti tra i più vari e meno pratici.
Anche  gli antichi “putiara” non se la cavavano tanto bene con la scrittura, ma  in modo peggiore rispetto a loro si trovavano i clienti, che conoscevano i soldi e sapevano fare i conti spiccioli, ma ad arrivare a segnare il debito su carta era un arduo problema: era uso comune infatti, presso la maggioranza degli acquirenti che dipendevano da un misero salario che si esauriva prima che arrivasse il successivo, di comprare a debito dal bottegaio di fiducia per le spese strettamente necessarie. Chi conosceva il minimo di scrittura si faceva segnare il debito “nna libbretta”, un quadernetto di piccolo formato con copertina nera e lucida, ma quanti non sapevano leggere per nulla, specialmente nei tempi più antichi come mi raccontava mia nonna, si servivano del trancio di una ferula (la notissima ferla), spaccata longitudinalmente: su ciascuna delle due parti interne si incidevano sul tenero midollo di tale fusto tanti segni particolari differenti, a seconda che si trattava di debito a lire o a centesimi: mezza ferula rimaneva al commerciante e l’altra metà corrispondente la portava via il cliente. Al momento di liquidare il conto si confrontavano, fra compratore e bottegaio, i ‘nsignghi , i segni già incisi.
Per fare conteggi personali, i volenterosi, che conoscevano i numeri, si servivano do Libbru de cunti fatti: un piccolo libro stampato in tipografia, almeno quello che ho esaminato io, pur non avendolo mai usato, che era costituito da un determinato numero di pagine, in genere fino a 100.
Ogni pagina era dedicata a un numero e questo poi veniva moltiplicato per ciascun degli altri 100 della stessa pagina, offrendo il risultato ricercato: ad esempio la pagina 24 conteneva in perfette colonne la moltiplicazione del numero 24 x 1= 24; poi 24 x 2= 48; 24x3= 72 ecc  …. fino a 24x100=2400.
L’ultima pagina, la 100, arrivava a 100 x 100 = 10.000.
Per le moltiplicazioni di numeri successivi al 100, che era il massimo del “Libro”, si scomponeva il numero che si voleva esaminare, ad esempio 340 = 100 + 100 + 100 + 40.
Se  il 340 si voleva  moltiplicare x 25  si operava così: 100x25=2500 poi questo x3=7500; e in ultimo 40x25=1000. Infine si sommavano questi risultati parziali: 7500+1000=8500, ed ecco il risultato finale.
          Per noi, che conosciamo la matematica scolastica, questo processo può apparire complicato, ma per la comune intelligenza d’un povero semianalfabeta era un espediente pratico che lo faceva risaltare fra la grande massa, del tutto ignorante.
Intanto questo libretto, tanto umile quanto utile,  già a disposizione di commercianti e famiglie, faceva parte di una scienza esatta, la matematica.
I prossimi mezzi che ora provo a descrivere invece non possono essere annoverati tra quelli rigorosamente precisi e infallibili.
Un tempo esistevano altri libretti utili, come “Il Barba Nera”: era un almanacco periodico, pubblicato nel mese di settembre d’ogni anno, che forniva utili informazioni di oroscopo, previsioni del tempo, consigli per la semina e la coltivazione dei più comuni prodotti agricoli. Offriva inoltre informazioni relative alle principali fiere, regionali, nazionali e tante altre curiosità varie. Era insomma un indispensabile strumento per le più varie attività domestiche e di vita  a chi sapeva leggere o a chi se lo faceva leggere. Era considerato specialmente da tanti anziani una indispensabile regola del modo di vivere: non ci si può meravigliare tanto, dal momento che anche oggi sono molte le persone che seguono con altrettanto serio interesse gli oroscopi.
Insieme a questo c’erano altri similari, tipo il “Barba Bianca”,  offerto nelle fiere e nei mercati da venditori ambulanti. Ricordo che da ragazzo sentivo annunciare la vendita d’ambedue gli almanacchi a tale Peppe Biancucci, maturo villarosano che offriva la sua mercanzia a quanti fra i suoi concittadini, lo consideravano un vademecum indispensabile.
Accanto al citato Barba Nera era in voga, specialmente in certe case di agricoltori, un altro libro, scritto da uno studioso di astrologia, Rutilio Benincasa: era un altro almanacco perpetuo più antico di duecento anni rispetto al  primo. Nel nostro dialetto era popolarmente chiamato Rriddiliu, dalla storpiatura del nome del chiaroveggente.
Esso era come un vangelo per un mio caro amico, venuto meno tanti anni fa, Totò N., che spessissimo mi incitava a leggerlo, ma tanto più egli era infatuato per quei contenuti misteriosi, altrettanto io ne ero schivo: da razionalista quale credo di essere non ho mai voluto conoscere  questo genere di notizie, che finiscono spesso con l’essere recepite come assolute verità e poi all'opposto possono indurre a grosse cantonate, specialmente nella previsione dell’ antico, ma sempre vivo, “Gioco del   Lotto”. Totò aveva trovato questo libro in casa e ne era rimasto affascinato, quanto i suoi predecessori, al punto che quasi lo conosceva a memoria.
U Rriddìliu attraeva tante persone delle più varie classi sociali e persino uomini di cultura; inoltre è stato uno strumento che si può considerare un ottimo veicolo culturale per tanti volenterosi autodidatti che, sulla spinta della sua attrazione, si sono avvicinati alla lettura e alla lingua italiana.
Chiudo con due piccole  accezioni tipicamente nostrane: ogni tanto sentivo usare da parte dei grandi l’aggettivo dialettale  rriddiliu, quando si alludeva a un ragazzino troppo irrequieto, che creava un biasimevole scompiglio e rriddiliusu quando si parlava di persona di carattere difficile, seccante e anche indisponente.



sabato 6 giugno 2015

I sordi hannu l’ali e nun si sa unni si vann’a pusari

I sordi hannu l’ali
e nun si sa unni
si vann’a pusari

Jabbicu Mirtillu, tornato miracolosamente dalle trincee del Carso, sognava un vita migliore al suo paese dov’era vissuto da umile bracciante agricolo. Aveva scoperto, conversando a lungo, nelle interminabili giornate di trincea, con i commilitoni del Nord, che la loro vita lavorativa era molto diversa rispetto a quella degli italiani del Sud dove la terra si rimuoveva ancora con la zappa o con l’aratro tirato  da muli o asini. A Jabbicu sembrava una fiaba l’uso di mezzi meccanici che cominciavano a essere usati per rivoltare la terra.

Tutto al contrario, nella sua lontana terra del Centro Sicilia, dove era prevalente l’attività estrattiva dello zolfo, ma erano pressoché ignorati persino buoi e vacche che avrebbero offerto all’economia locale, oltre alla carne e al latte, una trazione più vigorosa dell’aratro.

Il povero Jabbicu, al di là di due braccia ancora valide non possedeva altro, se non l’usurato zappuni, che aveva bisogno, ogni tanto, di essere portato nno firraru per una periodica azzariatura.

Fintantoché i meridionali non si furono incontrati, a pieno tempo, con l’altra Italia, la nostra nuova Patria, per moltissimi, era la Tàlia, smisurata e sconosciuta. È risaputo che l’incontro fra popoli spesso li rinnova: il processo è lento, ma inevitabile. Jabbicu avrebbe voluto emigrare al Nord, ma si sentiva inadeguato a realizzare quel salto culturale, proprio lui che era analfabeta totale.

Nondimeno, a Villarosa, egli si sentiva personalmente differente rispetto a quei compaesani che non erano venuti a contatto con l’altro mondo italico. Egli, ch’ era consapevole di possedere una considerevole prestanza fisica, avrebbe voluto fare un minimo di salto sociale ed economico; tante ragazze lo avrebbero gradito, ma per i genitori di quelle, anche se piccoli proprietari agricoli, Jabbicu era sempre un giornaliero e di conseguenza si opponevano decisamente all’unione matrimoniale con le figlie. I tempi erano molto diversi degli attuali: è vero sì che, nei casi di severa intromissione parentale, erano comuni le fujtine, ma queste avvenivano quando tra i due giovani c’erano state lunghe intese o chiacchierati contatti sessuali.

Nel rione abitava una ragazza fisicamente ben messa e di costumi castigatissimi, Maruzza. Era orfana di ambedue i genitori e viveva con un vecchia zia, a gnura Marì, in un catùju di proprietà di questa, in via Mazzini, ma senza alcuna risorsa finanziaria se non  quel poco che ricavavano, zia e nipote, da piccoli servizi resi a famiglie che, di tanto in tanto, se le facevano venire a casa.

L’intesa fu facile a raggiungersi e nel giro di poche settimane convolarono a nozze. Il trattenimento fu molto parco, secondo l’uso comunissimo tra le classi povere: ccu cìciri e favi caliati. Un amico portò l’organetto e si poterono fare quattro salti nel vano terrano della sorella di Jabbicu, Michilina, che se pur essendo la sua dimora di bracciante, era un po’ più spazioso.

La somma di tante povertà non creò nessun rilevante floridezza nella misera casa da zzi Marì. Jabbicu nel periodo dei lavori agricoli e quando il bel tempo lo permetteva, portava a casa il sempre misero salario.

Al reduce da terra lontana, la propria cominciava a stargli stretta, specialmente quando osservava il benessere di quelle famiglie che avevano i loro uomini negli Stati Uniti. Ma il difficile era trovare le “cento lire” della ben nota canzone, né aveva una madre che gliele potesse procurare.

Degli amici suoi alcuni erano rimasti vittima della grande strage bellica e un paio vivevano ancora alla macchia, quali renitenti di leva, fin da prima dello scoppio del conflitto mondiale.

Jabbicu spesso non dormiva la notte pensando a come risolvere il suo serio problema.

Una mattina, a seguito di una notte insonne, cercò un approccio tramite “un amico degli amici”. Non passò molto ch’egli  fu ricontattato e gli fu indicato il luogo e l’ora del convegno richiesto.

Puntuale all’appuntamento non trovò il vecchio amico ch’egli attendeva: c’era solamente tra i campi uno sconosciuto contadino che zappava. Jabbicu, dopo un’attesa che s’era resa snervante, voltò le spalle per tornare verso il paese, quando lo zappatore, dopo ch’ebbe verificato che in giro non c’erano altri individui sospetti, lo chiamò e con un allusivo sorriso gli indicò, questa volta, l’esatto luogo dell’appuntamento.

Gli amici di Jabbicu promisero che l’avrebbero aiutato, ma intanto chiedevano a lui, che si era esercitato su armi moderne, un reale sostegno in una lotta tra bande opposte.

Il neo bandito, ancora sconosciuto a Carabinieri e a bande opposte, fu di grande aiuto in tutte le operazioni in corso; la sua presenza, riuscì a capovolgere la situazione che rischiava di manifestarsi catastrofica per i suoi amici, da tempo in crisi.

Il tenore di vita in casa Mirtillo cambiò di molto, anche se con moderato risalto.

Però, passo dopo passo, senza accorgersene, Jabbicu si trovò coinvolto in una situazione danarosa, ma deprimente per i profili umani più intimi.

Il giovane sposo non poté più incontrarsi tanto facilmente con la sua cara donna. Ogni contatto risultava problematico e rischioso.

Le autorità avevano percepito che il cambio di guida alla banda aveva rotto gli equilibri generali e nella lotta c’era un forte accanimento non avvertito prima.

Intanto molti fra amici e nemici intuivano che Jabbicu aveva bisogno di  qualcuno  di fiducia e di carattere che potesse  saper  custodire, senza   dare  all'occhio  dell'  autorità e delle varie bande, il  denaro  accumulato, mettendo a rischio la propria vita e anche quella delle persone care; fra le più intime era indicata l’ottima Maruzza, ma appariva la meno adatta per il suo carattere schivo e poco risoluto. Intanto Jabbicu era divenuto il capo di fatto della banda; gli stessi accoliti si rendevano conto ch’egli con le sue tecniche militari era divenuto, non solo il detentore del potere, anche quello della finanza della banda.

Qualche anno dopo, in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine, Jabbicu Mirtillu, fu ferito ed esalò l’ultimo respiro nelle mani inesperte dei suoi compagni, che se lo erano trascinato in un luogo impervio, verso cui gli stessi carabinieri, non ritennero di non addentrarsi per prudenza.

Quando la ferale notizia si diffuse fra quanti vivevano alla macchia, il primo pensiero di ognuno fu quello di poter mettere le mani sul capitale accumulato, della cui entità non trascurabile tutti erano certi.  

Quanti erano persuasi dell’incapacità di Maruzza a gestire una situazione simile, volsero lo sguardo intorno verso parenti e amici di Jabbicu. In tutti loro non era rilevabile il minimo segno di un nuovo, sia pur minimo, incremento.

Nondimeno fu ancora la povera Maruzza che tornava a essere incalzata, ma quando gli assillanti inquisitori capirono che al dolore provocato dal grande lutto, non si poteva aggiungere una soffocante e inutile pressione, la mollarono lasciandola a piangere la sua antica miseria e il novello dolore.

Infine si dedicarono a cercare il tesoretto tra grotte e anfratti, ma inutilmente. Col tempo tutti si rassegnarono: avevano capito che era come cercare un ago in un pagliaio.

Intanto con l’avvento di Mussolini cambiò il quadro politico siciliano: i “pesci” del calibro dei briganti  di questa terra finirono nella rete del prefetto Mori, tornò una certa tranquillità, ma poveri come Maruzza e a zzi Mari, non mutarono l’antico tenore di vita.

La sorella di Jabbicu, Michilina, aveva già messo al mondo i primi figli e altri se ne aspettava, considerata che la giovane era in piena età fertile. Aveva l’ambizione di dare ai figli un avvenire migliore e così cominciò a essere più vicina alla Chiesa, sperando di potere avviare qualche figlio al sacerdozio e realizzare il ben noto proverbio nostrano: Cu javi un figliu parrinu javi un biddru jardinu.

Michilina, coadiuvata da altre parrocchiane, divenne molto attiva nella raccolta delle offerte durante la Messa e le Processioni; aiutava i poveri con modesti interventi economici o con generi di prima necessità.

A un tratto si apprese in paese la novità che il bracciante agricolo, marito di Michelina, aveva comprato un piccolo podere vicino al paese. Da tanto molti  malignarono e trassero la conclusione che non tutte le raccolte devote finivano ai poveri…

Non passò molto tempo ancora, il potere statale si era maggiormente affermato, quando si seppe che il giornaliero cognato di Jabbicu aveva acquistato diversi ettari di terra fertile.

Fu a questo punto che si scoprì con ovvio intuito dov'erano andati a posarsi i sordi di Jabbicu: nei materassi dei due pezzenti coniugi, che facevano uscire l’umile arfa e vi sistemavano al suo posto i larghi bigliettoni della moneta d’allora, i c.d. “linzola”, d’indubbia provenienza illecita.

I banditi intanto si erano di già autodistrutti o riempivano le carceri e nessuno aveva il potere di dimostrare la provenienza dei fondi “neri” della religiosa famiglia.

Quand’ero io ragazzo, questi fatti erano avvenuti da tempo, ma conoscevo Maruzza e a gnura Marì, mie vicine di casa, quindi seguivo i discorsi dei grandi su queste vicende perché la loro miseria strideva al confronto con il benessere di Michilina e famiglia.

La donna di Chiesa, che vendeva frumento “d’intrallazzo”, prodotto in terre che, ormai sicura, andava sempre più comprandosi, non si curò mai di passare sottobanco un modesto aiuto materiale alla cognata, specialmente nei durissimi tempi della seconda guerra mondiale e del dopo, quando quella poverina provò la più nera fame.

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