lunedì 29 marzo 2010

A GRUTTA D’ ANZISI


Il presumibile sito dell’antica Pizarolo, ricco di reperti come cocci di crateri e mozziconi di pezzi architettonici, che per i contadini del luogo erano qualificati con disistima semplicemente come “grasti”, cioè rottami del tempo dei Saraceni, ha da sempre infiammato la fantasia popolare che ha intessuto il tutto di leggende relative a ingenti "truvatura".
Vincenzo De Simone in Bellarrosa, Uomo serio, a pg. 89 parla di streghe che all’Agnelleria venivano evocate da fattucchiere, che si facevano luce con candele fatte col sego dei morti, per conoscere l’ubicazione di tesori smarriti.
Nella zona, immediatamente a sud-est di monte Respica-Giulfo, esiste una piccola elevazione naturale indicata nella Carta d’Italia dell’Istituto Geografico Militare al foglio 268 IV N.E., e denominata rocca Danzise.
La leggenda narra di due compari, cacciatori di Calascibetta, dei tempi antichi quando uno schioppo non era arma di poveri per via dell’alto costo e si andava a caccia di lepri e conigli con lacci e furetti.
Una mattina i due compari avviarono un furetto in un cunicolo davanti al quale avevano notato “rasti” di roditori. L’animale "s’infrittà" e pare che non avesse voglia d’ uscire o forse aveva già tagliato la corda da un’altra apertura, al lato opposto.
Quando si furono spazientiti abbastanza uno dei due infilò un braccio nell’ anfratto per cercare di stanare l’animaletto e la mano si trovò a toccare materiale non confrontabile a semplici ciottoli. Trasse fuori il braccio col pugno chiuso e si ritrovò nel palmo sterro e alcuni dischetti metallici impiastricciati di sporco stratificato che li rendeva indecifrabili. Il fortunato scopritore sputò sopra uno di questi, lo stropicciò fra pollice ed indice e fra l’incrostazione secolare brillò al sole un luccichio riconducibile ad oro.
I compari si guardarono negli occhi e due mani contemporaneamente si scontrarono alla fessura. Una mano alla volta trasse sempre materiale presumibilmente prezioso. Con rami secchi, coltelli ed arnesi impropri, scavando e facendo leva allargarono la breccia fino a poterci entrare uno alla volta. Il primo ad entrare fece grande fatica; vi s’infilò pericolosamente e brancicando a pancia a terra scivolò per anfratti bui su pietre aguzze che gli tormentavano il torace; l’altro fremeva di curiosità interessata per l’inconsueta facilità di trovare monete in metallo prezioso, così, bando ad ogni prudenza, seguì il compare.
Ansimanti, accaldati, sporchi di terriccio e polveri sottili impastate col sudore che colava dal cuoio capelluto attraverso la fronte e le sopracciglia fino ad offendere gli occhi, si ritrovarono dentro un’ampia cavità fiocamente illuminata da un indiretto timido raggio di sole che filtrava attraverso la roccia non assolutamente compatta.
Lo spettacolo che si offrì ai loro occhi era molto più prodigioso di quanto il più fortunato tombarolo potesse immaginare: cofani di legno infracidito che lasciavano scivolare monili e anelli, ceste già robuste ora corrose dal tempo custodivano un tesoro d’antiche monete, vasi, pesanti gioielli in oro e argento d’inestimabile valore, che poteva trovar posto solamente in decine di capienti bisacce, le sole adatte a nascondere a curiosi il reale ed insospettabile contenuto.
I due fortunati rinvenitori non si reggevano in piedi tra l’eccitazione e il turbamento. Uscirono all’aperto, s’abbracciarono e si lasciarono trascinare a terra presi totalmente dall’emozione e dalla stanchezza.
Quando si rialzarono ciascuno dei due rise sonoramente del viso impiastricciato dell’altro.
I cani guardavano curiosi i loro eccitatissimi padroni senza capire.
Si rasserenarono un po’; il sole s’era posto in alto nell’orizzonte e picchiava sulle teste, d’istinto cercarono l’ombra e qui cominciarono a far piani che dovevano rimanere assolutamente segreti.
I due erano cacciatori che oltre a non potersi permettere di possedere un’arrugginita arma da fuoco, altresì non disponevano né di un mulo, né di un macilento asinello.
Cominciarono col calcolare a grandi linee il numero di muli che sarebbero stati necessari per il trasporto e convennero che l’unica soluzione era quella di ricorrere alla "rìtina" di muli di Anzise, che l’ affittava a quanti ne avessero bisogno.
Sulla via del ritorno, dopo essersi lavati alla meglio al primo beveratoio, andarono a contrattare con Anzise adducendo come giustificazione l’acquisto di una partita di grano da rivendere a Castrogiovanni.
Tornati a casa, quando i bambini erano già addormentati, ognuno dei due cacciatori raccontò con emozione e particolari dettagliati alla rispettiva consorte l’incredibile fortunata avventura.
La notizia questa volta sconvolse le donne. Mentre i mariti sul tardi furono sopraffatti dal sonno, le mogli, ognuna nella rispettiva abitazione, rimasero sveglie a rimuginare, architettando, ognuno per proprio conto, un vile progetto: perché dover dare la metà del tesoro all’altro?
All’alba gli uomini s’alzarono: uno dei cacciatori trovò in piedi la moglie che nottetempo aveva preparato due focacce, una carica di veleno per topi l’altra normale destinata al proprio marito; l’altro trovò, pronta e decisa, la consorte che aveva preparato pane con olive e altre conserve, accompagnati da una bottiglia di buon vino messo da parte per occasioni speciali, carico d’uguale prodotto tossico per topi, da destinare esclusivamente al compare, visto che il marito era notoriamente astemio.
Ambedue i mariti non furono entusiasti dell’idea delle rispettive mogli, ma queste alla fine seppero far valere il loro diabolico piano.
Con la "rìtina" di muli di Anzise raggiunsero la grotta del tesoro. La zona intorno era deserta e non vi sorgeva alcuna costruzione, quindi non c’era il rischio d’esser visti da sguardi curiosi.
Come primo atto s’affrettarono ad allargare l’accesso dell’antro e quando furono all’interno cominciarono a riempire le bisacce d’ogni oggetto prezioso, ripulendo il sito, con accuratezza ed avidità, d’ogni più piccolo oggetto metallico. Trascinarono le bisacce fuori, la caricarono sui muli, assicurandole ben bene con corde e "prisagli".
Prima d’affrontare il viaggio di ritorno ed anche per evitare di entrare in paese di giorno, si sedettere a riposare e a consumare l’ultimo pasto da poveri.
Nel giro di qualche ora si consumò la tragedia fra atroci crampi e feroci accuse reciproche, finchè spirarono senza poter ricevere aiuto alcuno.
I poveri muli testimoni inconsapevoli aspettarono inutilmente che si desse loro il comando del rientro.
Quando le bestie cominciarono a sentire i morsi della fame, partita la prima subito fu seguita da tutte le altre lungo i sentieri che portavano alla loro dimora abituale.
Era notte fonda quando "a rìtina" di muli al completo giunse alla masseria d’Anzise e cominciarono a raspuliare con gli zoccoli il terreno per attirare l’attenzione del padrone, sperando che li liberasse al più presto dell’ormai insopportabile basto. Anzise scese giù, diede voce ai suoi clienti che credeva fuori della portata della sua vista e quando appurò che non c’era nessuno, ritenne opportuno disimpegnare al più presto le bestie dall’ insostenibile soma. Capì subito che non si trattava di frumento ma di oggetti metallici, quando aprì la prima bisaccia rimase basito; ripresosi subito pensò per il momento di acquisire il tutto e poi vedere il da farsi.
Nessuno reclamò il carico e quando si scoprì in paese la misteriosa morte dei due compari, ad Anzise si chiarì del tutto il quadro della situazione e rimase il proprietario indiscusso di tutto quel ben di Dio.
La storia raccontatami ha un seguito che potrebbe essere ben confermato o smentito da fatti storici inoppugnabili, io la raccontò così come l’ho avuta raccontata, anche se le mie riserve rimangono moltissime.
Passarono gli anni, Anzise, non avendo eredi, pare che avrebbe fatto testamento lasciando il suo smisurato patrimonio a favore della chiesa che si fosse impegnata a custodire nell’avvenire il suo corpo imbalsamato.
Sempre secondo la mia fonte verbale, abitanti di Castrogiovanni nottetempo avrebbero trafugato le spoglie di Anzise, assicurandosi per la propria comunità la lucrosa rendita. Gli stessi però, nella fretta, avrebbero lasciato a Calascibetta le interiora del defunto, anch’esse imbalsamate.
La controversia sarebbe stata risolta dopo lunghe trattative: la rendita maggiore sarebbe toccata alla chiesa di Castrogiovanni, una quota minore a quella di Calascibetta.
Cosa ci sarà di vero in tutta la storia?
È una semplice coincidenza la denominazione Rocca Danzise riportate in modo inequivoco nella Carta d’Italia?
La leggenda mi fu raccontata, quand’ero bambino e nei termini essenziali, da mio padre; ho letto pure altre versioni provenienti d’altri paesi che differiscono in alcuni particolari.
Invito i lettori, in grado di farlo, a partecipare arricchendo il racconto e possibilmente completandolo di riferimeni storici più precisi.

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