martedì 26 novembre 2013

QUANNU VIDITI NÌSPULI CHIANCÌTI, SUNU L’URTIMI FRUTTI DI LA STATI




        È da diversi decenni che non vedo in giro un frutto già comune nella mia infanzia, i nìspuli.

       Ho comprato la modica quantità in foto non tanto che ne avessi desiderio di gustarli ancora una volta, quanto per mostrarli ai miei figli e nipotini; poi ho pensato di presentarli in immagine a quanti altri giovani che pure non hanno avuto occasione di vederli. È un frutto dal gusto per nulla prelibato, tant’ è che è stato quasi dimenticato: è di sapore intensamente aspro, appena mangiabile quando è molto maturo; i suoi semi durissimi sono incarniti nella polpa e difficilissimi a separarli e sputarli.

        Esse erano l’unico frutto con questo nome nei tempi passati; l’altro dolcissimo e succoso che matura in primavera, che ben conosciamo e apprezziamo, ne ha usurpato il nome, ma un tempo era conosciuto con l’aggiunta dell’aggettivo “giapponese” perché proveniente dall’estremo Oriente. (1)

        Il motivo della mia presentazione non è soltanto una curiosità botanica, ma un’ occasione di conoscenza dei tempi passati, quando il frutto, oggi a tal punto sottovalutato, rappresentava una risorsa alimentare modesta ma atta ad attenuare un po’ i morsi della fame.

       Un altro proverbio si accoppia a questo per condurci idealmente a quel mondo che speriamo di non sperimentare più: “Prima di Natali né friddu né fami, duppu u Natali lu friddu e la fami”.
Quando le scorte delle spighe, raccolte una a una fra le stoppie assolate (i ristucci) durante l’estate, erano esaurite e non c’erano più le carrube e nemmeno le allappanti nespole nostrane sopra presentate, nel momento che si facevano sentire i morsi della fame venivano masticate e ingoiate tutte le bacche e le erbette che si trovavano lungo i viottoli fra i campi; non per niente un altro vecchio proverbio del passato recitava: “ìnchi la panza e ìnchila di spini”.

       Io prego sempre l’Inconoscibile Creatore, che ha messo in cantiere questo immenso Universo, che faccia sì che quei tempi tristi e duri non tornino più nel Mondo intero.
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(1)      A proposito di nespole d’origine orientale colgo l’occasione di un mio ricordo di bambino, sia pure fuori argomento, per introdurre una memoria di guerra; nel 1941 quando avevo sette anni, c’era in voga una ironica canzone che conteneva il nome di tale frutto e notavo che chi la canticchiava calcava “…nespole, nespole giapponesi…”. Tale canto mi sembrava qualcosa di banale da non considerare nemmeno, ma quando fui più maturo collegai quelle presunte  insipidezze al tragico attacco proditorio di Pearl Harbour, dove avvenne a sorpresa e senza che si fosse dichiarata guerra, il bombardamento vile degli aerei giapponesi contro la base militare statunitense, dove, insieme ai mezzi navali e aerei distrutti, furono uccise tante creature umane.
Gli Italiani alleati, oltre che con i tedeschi, pure con i giapponesi, godettero di quell’attacco vile a tradimento: però non passò molto che le “nespole” inglesi e americane piovvero anche sulle nostre teste.

Non aggiungo altro: spero che tali antichi fatti portino insegnamento: dice il proverbio che “chi gode del male altrui il suo è dietro la porta”.

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