mercoledì 4 marzo 2015

L’ALTRA “FACCIA” DI “SAN CALÒ” E ALTRO ANCORA


Della chiesa di San Calogero non esiste più traccia, ma ancora la zona ne porta il nome; tanto certamente non avverrà per molto tempo ancora e succederà come per la zona San Giuseppe, la cui chiesa era ubicata dove oggi sorge il Monumento ai Caduti, costruito prima che io nascessi, ma ancora, da grandetto, sentivo chiamare il rione col nome del Santo, “a  San Giuseppi”, ma a poco a poco per tutti divenne “o monumentu” .

Prima di parlare del lato tetro della vecchia chiesa, sorta come cappella gentilizia della famiglia Deodato nel 1870, è bene informare i lettori dello stato generale delle nostre ampie e ben squadrate strade d’un tempo, esaminate però dal punto di vista del fondo praticabile, igiene compresa.

Questo al tempo della mia prima giovinezza era quasi totalmente a terra battuta. Il servizio di nettezza urbana era costituito da un carretto a trazione animale che faceva più volte alla settimana il giro del paese servendo soltanto le strade “dei Santi”, cioè delle Processioni, senza inoltrarsi nelle vie più interne. Poche erano le famiglie che tenevano un “cufiniddu” per raccoglierci le immondizie da riversare sul carretto di mastru Giuguanninu, tanto però non era facile per le altre che abitavano lontane da quelle del transito consueto del mezzo e di conseguenza risultava più comodo e immediato buttare i resti di cucina e altro sulla pubblica via alla portata di galline e di rari poverissimi bimbi, e non soli, che spesso racimolavano cosette da destinare alla propria pancia, quali “taddi” di cavoli, broccoli, frutta sfatta o toccata da muffa e tutto quello che c’era da poter masticare per lenire la struggente fame, allora presente. Non sto esagerando, e anzi aggiungo che in certe freddissime mattinate di rigido inverno, quando nelle pozzanghere luride e fangose si formava qualche lastrina di ghiaccio sudicio, alcuni ragazzi che non avevano mai avuta la ventura di poter gustare un cono gelato, cercavano di sperimentarne, almeno la caratteristica, sciogliendo in  bocca qualcosa di analogo, ignorandone la lurida pozzanghera di provenienza.

A tanta miseria e lordura c’è d’aggiungere che ancora non tutte le vie erano fornite di fogne e quindi lascio immaginare le ulteriori rivoltanti conseguenze. Molte famiglie, pur essendo fornite di gabinetto, spingevano i figlioli a fare i vari bisogni all’aperto, anche perché non tutte le case era fornite d’acqua potabile per la debita pulizia. Questi bimbi appena erano un po’ indipendenti e in grado di stare sulla strada, dove per fortuna erano quasi inesistenti i pericoli delle automobili, erano coperti in basso da una semplice mutandina con un piccolo foro anteriore da dove permanentemente pendeva il cosiddetto “pisellino”, per agevolare i piccoli bisogni. Nella parte opposta, sempre in basso, era praticato dalle mamme al centro del pantaloncino un largo spacco verticale, poco visibile, che si allargava automaticamente quando il piccino istintivamente si chinava per defecare. Le femminucce in genere erano coperte dal semplice vestitino, che arrivava sotto il ginocchio e copriva, soltanto alla vista, le parti delicate d’ambedue le vie naturali delle escrezioni e ovviamente in tal modo erano sempre pronte al momento dei bisogni: bastava solo chinarsi a ginocchia piegate.

Mentre mi trovo in argomento, spero che mi perdoniate questa divagazione. Io da ragazzo non  ero il tipo che trascorressi molto tempo per le strade, ma per due volte ho assistito a orinazioni all’aperto da parte di due vecchiette che ben conoscevo, i cui nipoti sono in paese. Tutte le donne anziane indossavano allora una veste che arrivava fino alle caviglie, di conseguenza era impensabile che qualcuno potesse intravedere minimamente, non dico di più, ma il semplice polpaccio d’una gamba, pertanto molte ne approfittavano liberamente per non usare biancheria intima. Altro vantaggio aggiunto era quello che percependo un piccolo bisogno per la strada non c’era motivo di cercare un luogo chiuso per liberarsene, ma allargavano le gambe e scaricavano liberamente il premente liquido, protette alla vista dalla lunga vestina, anche in presenza di ragazzi che esse non consideravano idonei a giudicare criticamente il gesto. Delle due vecchie osservate da me, una si liberò dell’ incomodo nel bel mezzo della via Notarianni e poi continuò a camminare con estrema serenità, l’altra la vidi uscire dalla sua abitazione in via Mazzini, allargare le gambe sempre nascoste, scaricare il liquido proprio a fianco della sua porta e subito rientrare in casa.

Spero che per quanto ho detto, e sto ancora per dire, non fossimo giudicati male dalle nuove generazioni: in ogni caso siamo sopravvissuti a tanta sudiceria, almeno i presenti.

Prima di arrivare all’argomento principale che giustifichi il titolo del post, colgo l’occasione per illustrare una scenetta colta da me personalmente e oggi assolutamente irripetibile.

Sempre a proposito dell’igiene di quei tempi, l’intestino dei piccoli in generale, e qualche volta anche degli adulti, era infestato da vermi di varia forma e natura che sottraevano sostanze, già di per sé insufficienti, al povero ignaro ospitante.  Forse quando la famiglia di questi parassiti si faceva molto numerosa o qualcuno aveva concluso il suo ciclo vitale, era necessario che esso lasciasse il posto e uscisse dall’ unica uscita finale dell’intestino.

Un pomeriggio d’estate, seduto di fronte a casa mia, stavo tranquillamente leggendo un giornaletto a fumetti, quando udii un rumorosissimo e inconsueto svolazzare d’ali: un mio piccolo vicino di casa, oggi nonno in Belgio, stava tranquillamente evacuando, come d’uso, sulla via le sue feci che contenevano un verme grosso e lungo che non aveva voglia o facilità d’uscire. Le galline intorno, ingorde d’ogni tipo di cibo come i maiali, appena ebbero avvistata la pendente preda, si precipitarono attorno al poveretto per impossessarsi del prelibato e raro cibo. Il piccolo sconvolto dall’inconsueta calca animale scappò via gridando, sempre inseguito da quello stormo imbestialito. Lo lasciarono libero quando si furono impossessate del lungo parassita intestinale e continuarono tra loro la lotta per il possesso della non facilmente divisibile preda.

La crudezza dei particolari appena esposti e in aggiunta le privazioni dovute alla guerra e al dopoguerra, non devono far pensare che i vecchi tempi non avessero i loro lati gradevoli, sempre presenti in ogni aspetto dell’esistenza: quella era la nostra realtà e sognavamo sì una vita migliore, ma non potevamo immaginare minimamente che avremmo potuto un giorno raggiungere un tenore di vita paragonabile a quello dei nostri parenti emigrati negli Stati Uniti, il cui benessere era il massimo sogno della gran maggioranza del nostro popolo.

 Ho parlato di vecchiette e di bambini, ma ho ignorato i maturi ca s’attaccanu i cavusi cca currìa. Villarosa da molti decenni era priva di un orinatoio, per via di polemiche antiche con le autorità religiose che non gradivano tale servizio in vicinanza della Chiesa Madre. Raccontavano i più vecchi che nel secondo cinquantennio dell’ ‘800, i Sindaci addirittura fecero costruire l’orinatoio dove fino a poco tempo fa esisteva la pescheria. Fu l’Amministrazione del Sindaco Profeta che ruppe ogni indugio e ne fece costruire uno sotto il terrapieno davanti al Palazzo Ducale, con ingresso dal Corso Regina Margherita.

Ricominciarono le polemiche e dopo qualche anno si tornò al punto di partenza e quello che era il gabinetto pubblico divenne continuazione del bar ex Marra.

I bisogni naturali non possono essere repressi ed è ovvio che si doveva trovare una soluzione: si ritornò ancora una volta a San Calogero, dove l’abside che guardava a ponente, fu adibita nuovamente a pubblico cesso all’aperto.

Il luogo era frequentatissimo e tanto è ancora deducibile osservando le rare foto della costruzione semicircolare in laterizi, pantofuli, che avevano acquisito colore più cupo nella fascia al di sotto di circa un metro e settanta, senz’altro impregnata dall’assorbimento pluridecennale lento e continuo dei sali contenuti nelle escrezioni umane.

Anch’io, trovandomi fuori porta a passeggiare, ne approfittavo qualche volta per un atto piccolo, ma solamente di giorno perché ci tenevo tanto a sapere dove poggiavo i piedi.

A onor del vero anche oggi non esiste un gabinetto pubblico con i crismi dell’igiene, ma la polemica è svaporata perché in ogni casa ci sono i servizi essenziali e inoltre bar, associazioni e sezioni di partito sono al servizio dei propri frequentatori.

Nel tempo più antico della grande industria estrattiva, quando Villarosa contava ben 18.000 abitanti, la zona di San Calogero era quasi sempre deserta perché le abitazioni si fermavano, al lato nord del Corso, al Ponte Caramanna e al lato sud all’unica casa dei Manganaro di via Cossa e a salire da lì cominciava a muramma che serviva da confine occidentale del paese.

I fumi dell’alcool e le varie vertenze umane, compresi i tipici regolamenti di conto, spingevano ad esagerare e la sfida era sempre la stessa: - T’aspittu stasira a San Calò.

Per dirla col linguaggio cinematografico la zona era una specie di O.K. Corral siculo, tant’è vero che i nostri vecchi affermavano con decisa consapevolezza che nei tempi precedenti non passava un sabato sera che non ci scappasse il morto.

Ai tempi della mia giovinezza sentivo parlare in genere di scazzottate, tranne una sera d’estate quando appresi con grave angoscia che tale Peppe Calà, che io conoscevo come persona matura, fine e responsabile, aveva scaricato il suo revolver sull’addome d’uno degli uomini più miti di Villarosa, Stefano Mirabella, per una questione reputata ormai chiusa: s’era da poco interrotto il fidanzamento tra il primo e la sorella del secondo.

La mia angoscia fu grande perché conoscevo i litiganti, ma in particolare Stefano, molto più grande di me, che mi aveva voluto sempre un gran bene fin da quando ero bambino.


Qualcuno Lassù ascoltò la preghiera corale dei villarosani: qualche settimana dopo il ferito tornò dall’ospedale a casa sua guarito e il carcere ovviamente si aprì al feritore. 

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