Curioso come tanti bambini e
stimolato dall’esperienza che avevo raccolto sulla strada con i granelli
residui di carburo di calcio buttati in strada dagli zolfatai nell’atto di
preparare le lampade ad acetilene per l’alba del giorno dopo, il sentir parlare
do vuddru nella campagna darrì a Cruci, stuzzicava fortemente in me il desiderio di approfondire
tale fenomeno, per me misterioso.
Intanto, mentre vagheggiavo
questa vecchia voglia, contemporaneamente ero combattuto da un forte contrasto,
avvertivo in me un cori d’asinu e un cori
di liuni, per via di una esperienza negativa che da qualche tempo tenevo
inconfessata, soprattutto ai miei genitori.
Io e miei amichetti da lungo
periodo eravamo soliti a mettere le dita fra la materia umidiccia grigio-chiara
di scarto delle lampade di miniera per raccogliere qualche piccolissimo granulo
di “petra citalena” non consumata. La
raccoglievamo in una fossetta sulla strada, vi versavamo un po’ d’acqua e alla
fine coprivamo il tutto “ccu na
pignatedda” rovesciata, alla quale avevamo prima praticato con un chiodo un
forellino al centro del fondo. Avvicinavamo “un pòsparu addrumato” e godevamo del nostro modesto esperimento che
ci dava solamente la soddisfazione morale, e nulla più, d’essere riusciti a
imitare una forma semplice e rustica “di
citalena”.
Durante uno di questi tentativi
qualcosa andò storto e al posto della solita fiammella venne fuori un’inattesa
vampata che mandò furiosamente in aria il barattolo che, per fortuna, sfiorò
solamente i nostri visi, molto concentrati nell’esito già sperimentato, che stavolta
risultò assai più preoccupante di quanto ci attendevamo.
Io avevo già prima sognato di poter
ripetere la prova con le bolle di gas che scaturivano dalla massa melmosa di cui avevo sentito parlare, ma quando mio
padre mi annunciò che il mattino dopo Pino Gurrieri, che dovendo passare da
quelle parti, mi avrebbe finalmente fatto conoscere u vuddru, quasi rabbrividii e giurai tacitamente con me stesso che
non avrei minimamente pensato a portare fiammiferi con me.
Il tanto decantato vuddru non corrispose però alle mie
attese; mi aspettavo qualcosa di più imponente, tuttavia stuzzicò abbastanza la
mia aspettativa perché da quel momento iniziò l’infantile osservazione scientifica,
chiedendo maggiori ragguagli a quanti potevano offrirmi qualche elementare risposta.
Anni dopo, studente a
Caltanissetta e quindi scolasticamente addentrato nello studio di scienze e
fisica, volli riesaminare l’analogo fenomeno di Terrapelata, che risultò solamente
un po’ più consistente del nostro, ma non tale da stuzzicare ulteriormente le
mie ricerche, anche perché appresi, in quell’occasione, che esistevano fenomeni
analoghi in Sicilia, ben più apprezzabili dei due da me già visitati.
Il fenomeno è indicato col
termine “maccaluba” dalla parola d’origine araba, maqlùb, che in quella lingua vuol dire “rivoltato”, come la massa
limacciosa, lanciata in alto e quindi ricadente in basso. Questo misto di
sostanze non è formata solamente di terreno e acqua, ma anche di gas, come l’idrogeno,
e di liquidi, quale il petrolio, tutti altamente incendiari, che talvolta prendendo
fuoco si rendono assai più pericolosi della semplice mole melmosa.
Queste giovanili ricerche erano
rimaste da gran tempo interrate in “faldoni” zeppi di pensieri e di ricordi nel
mio cervello, quando la recente tragedia della Riserva naturale di Aragona,
nell’agrigentino, mi ha riportato indietro nel tempo e mi ha fatto rivivere, nel
piccolo, lo scoppio del barattolo che, per buona sorte, ci aveva solamente rasentato.
Il primo sabato d’autunno di
quest’anno, due bimbi, accompagnati dal padre, erano andati a visitare la
maccaluba di Aragona. Il grandicello dei due, circa della mia stessa età del
tempo in cui bramavo di vedere il nostro vuddru,
quello stesso giorno compiva nove anni e forse la gita faceva parte anche del
regalo di compleanno.
Il mese precedente erano state
interdette le visite alla località per prevenire qualche tragedia, dal momento
che il ribollente suolo aveva ostentato segni poco rassicuranti. Visto però che
nel frattempo nulla di grave era successo, lasciarono affisso il cartello di
pericolo, ma come di solito accade, lasciarono passare ugualmente quanti erano interessati
al fenomeno.
È tutto italiano il ragionamento,
antico quanto il nostro clima intellettuale, quello di affidarci
ottimisticamente al nostro “stellone”: in questa terra di per sé e povera
d’iniziative industriali non priviamoci almeno del poco che la natura ci offre… E che Dio ci aiuti.
Quando la tragedia colpisce
qualcuno, o ripetutamente una zona vasta come Genova e tante località a forte
rischio, si è soliti accusare sempre la Fatalità, l’irreperibile dea che residenza
non ha! Si cominciano a cercare gli imprudenti responsabili, ma alla fine non
si riesce mai a trovarne uno, partendo dall’elasticità tipica delle nostre
leggi. Per questo, con serena filosofia, dalle nostre parti si dice: amara cu mori, ca cu campa si marita.
Era “destino” che quella
mattina, all’improvviso e senza dare segni di emergenza un mastodontico spruzzo
di fango, misto a tanti altri gas, alto circa 20 metri, ribaltò dalla sua sede e
nel ricadere seppellì i tre innocenti familiari.
Solo il padre, aiutato dai primi
soccorritori, ebbe la fortuna di emergere col busto dalla nauseabonda e
pesantissima melma, ma dei due bimbi nessuno ne uscì vivo.