venerdì 29 novembre 2013

GIOCHI d’INFANZIA del passato


Firricchiocchiaru, u-
Vàzzica, – a
Càbbissi, – i
Cannìddu, – o
Santaramùnnu, - a
Putiedda, –
Capusedda, - a
casuzza  - a Costruita con pietre piatte o cocci di vasi o mattonidi terracotta (i grasti)
strummula – u, la trottola; strummuluni – u; piricuttu – parti o proprietà della trottola; a lazzata, lo spago grosso (u rumaniddu) che faceva girare la trottola – Un detto a proposito:nun vali un sordu cu tutta a lazzata, detto di persona di poco conto) - u pizzu, l’asse metallico su cui girava la trottola; esso era piscazzuni se esso non era liscio sulla pianta della mano; giacanedda o na filìnia se era come un leggero solletico
Ammucciaredda,  – a
Latri carrabba, – a
 Affirrariddu, – a
Quattru cantuna, i –
Jhiucu de' grasti (i cocci di piatti decorati purchè con un frammento di figura; quelli solo col bianco del piatto non avevano valore)  
mmarredda –
Telefunu, - u, con due scatolette di latta (pignateddi) legate ai rispettivi fondi con un filo di spago, tenuto teso a distanza: in una scatoletta si parlava dentro e l’altro ragazzo che stava all’ estremità opposta la  portava all’orecchio, le vibrazioni sonore arrivavano lungo lo spago se tenuto teso… E viceversa: la scatoletta si alternava  dalla bocca all’orecchio.
carrittiddu  costruito con i cloatodi, le pale di ficodindia, – u
casuzza, - a( con pietre e impasto di sola sabbia)
vussica [la vescica del maiale macellato e gonfiata col fiato; sostituiva i palloncini di gomma allora molto rari....]

CHI PIU’ NE HA PIU’ METTA, grazie per la collaborazione


martedì 26 novembre 2013

QUANNU VIDITI NÌSPULI CHIANCÌTI, SUNU L’URTIMI FRUTTI DI LA STATI




        È da diversi decenni che non vedo in giro un frutto già comune nella mia infanzia, i nìspuli.

       Ho comprato la modica quantità in foto non tanto che ne avessi desiderio di gustarli ancora una volta, quanto per mostrarli ai miei figli e nipotini; poi ho pensato di presentarli in immagine a quanti altri giovani che pure non hanno avuto occasione di vederli. È un frutto dal gusto per nulla prelibato, tant’ è che è stato quasi dimenticato: è di sapore intensamente aspro, appena mangiabile quando è molto maturo; i suoi semi durissimi sono incarniti nella polpa e difficilissimi a separarli e sputarli.

        Esse erano l’unico frutto con questo nome nei tempi passati; l’altro dolcissimo e succoso che matura in primavera, che ben conosciamo e apprezziamo, ne ha usurpato il nome, ma un tempo era conosciuto con l’aggiunta dell’aggettivo “giapponese” perché proveniente dall’estremo Oriente. (1)

        Il motivo della mia presentazione non è soltanto una curiosità botanica, ma un’ occasione di conoscenza dei tempi passati, quando il frutto, oggi a tal punto sottovalutato, rappresentava una risorsa alimentare modesta ma atta ad attenuare un po’ i morsi della fame.

       Un altro proverbio si accoppia a questo per condurci idealmente a quel mondo che speriamo di non sperimentare più: “Prima di Natali né friddu né fami, duppu u Natali lu friddu e la fami”.
Quando le scorte delle spighe, raccolte una a una fra le stoppie assolate (i ristucci) durante l’estate, erano esaurite e non c’erano più le carrube e nemmeno le allappanti nespole nostrane sopra presentate, nel momento che si facevano sentire i morsi della fame venivano masticate e ingoiate tutte le bacche e le erbette che si trovavano lungo i viottoli fra i campi; non per niente un altro vecchio proverbio del passato recitava: “ìnchi la panza e ìnchila di spini”.

       Io prego sempre l’Inconoscibile Creatore, che ha messo in cantiere questo immenso Universo, che faccia sì che quei tempi tristi e duri non tornino più nel Mondo intero.
______________________________
(1)      A proposito di nespole d’origine orientale colgo l’occasione di un mio ricordo di bambino, sia pure fuori argomento, per introdurre una memoria di guerra; nel 1941 quando avevo sette anni, c’era in voga una ironica canzone che conteneva il nome di tale frutto e notavo che chi la canticchiava calcava “…nespole, nespole giapponesi…”. Tale canto mi sembrava qualcosa di banale da non considerare nemmeno, ma quando fui più maturo collegai quelle presunte  insipidezze al tragico attacco proditorio di Pearl Harbour, dove avvenne a sorpresa e senza che si fosse dichiarata guerra, il bombardamento vile degli aerei giapponesi contro la base militare statunitense, dove, insieme ai mezzi navali e aerei distrutti, furono uccise tante creature umane.
Gli Italiani alleati, oltre che con i tedeschi, pure con i giapponesi, godettero di quell’attacco vile a tradimento: però non passò molto che le “nespole” inglesi e americane piovvero anche sulle nostre teste.

Non aggiungo altro: spero che tali antichi fatti portino insegnamento: dice il proverbio che “chi gode del male altrui il suo è dietro la porta”.

domenica 17 novembre 2013

L’ULTIMO SCHIAVO DI VILLAROSA


Già più volte ho tentato, ma invano, di ricordarmi il nome del personaggio di cui vado a trattare; ho interpellato tanti della mia età, persino i fratelli Cirino suoi vicini di casa, tutti ricordano perfettamente il soggetto ma non il nome.
Almeno per il momento, voglio indicarlo come Caluzzu.
Questi, quando io ero nella prima adolescenza, aveva superato la mezza età e ancora lo ricordo nel particolare rilevante di due gote d’ intenso colore roseo, che per chi non conoscesse bene il soggetto sarebbe apparso quello d’un avvinazzato.
 Non ebbi mai motivo di parlargli, ma mi colpiva di lui la seria indole, ben lontana da certe sgarbatezze tipiche della categoria di uomini da fatica, cui poteva essere accomunato, che a quei tempi bighellonavano in piazza in cerca di qualche occasione di piccolo guadagno.
Quello che m’impressionava di quell’uomo era la circostanza che nelle domeniche e nei giorni di festa si presentava in giro, pur senza lusso, con camicia e cravatta e ben pettinato, mentre coloro che io annoveravo nella categoria di esecutori di lavori umili non mutavano d’abito né mostravano apparenti segni di ordine e pulizia.
Questa diversità attraeva la mia attenzione, ma non ritenevo di fare domande in merito perché non valutavo che, pur nella sua eccezionalità, si trattasse di fatto straordinario.
Un pomeriggio di festa del dopoguerra, trovandomi in piazza con mio padre, di punto in bianco egli m’indicò a distanza Caluzzu e mi disse: - Vedi? Quello è l’ultimo schiavo di Villarosa.
Nella mia ingenuità ritenevo che la schiavitù fosse scomparsa in Europa con l’avvento del Cristianesimo e che fino a circa un secolo prima la tratta degli schiavi di colore fosse ancora in vigore negli U.S.A., secondo quanto da poco tempo avevo letto in un’edizione ridotta de “La Capanna dello Zio Tom”.
La frase di mio padre mi è da sempre sembrata estemporanea, ma oggi che scrivo questa nota reputo che egli abbia voluto introdurre di proposito l’argomento avendomi visto già fra le mani quel libro e voleva forse farmi capire che la schiavitù non era stata tanto lontana dalla nostra terra.
Nei giorni seguenti fra me e papà s’intrecciarono nei ritagli di tempo mie domande con altrettante sue risposte, che in genere erano brevi e il tutto mirava forse a non esaurire l’argomento per indurmi a riflettere ancora di più.
Caluzzu era l’ultimo nato di una famiglia numerosissima quanto poverissima. I fratelli dai sei anni in poi divenivano carusi di pirrera e le sorelle criate presso famiglie benestanti.
I genitori, come di solito avviene in molte case, sono più cedevoli nei riguardi dell’ultimo rampollo; nel caso del nostro personaggio alla tenerezza dell’età si associava destrezza speciale nella soluzione di piccoli problemi di vita pratica e sveltezza nell’eseguire mansioni più che adeguate alla tenera età.
Queste doti positive del ragazzino, appena egli si avvicinava all’età per divenire carusu, non sfuggirono a don Peppino Profeta, che conosciamo come Sindaco da non dimenticare, che da sempre aveva avuto modo di verificare l’onestà di quella famiglia, perciò ritenne opportuno utilizzare il ragazzo per i più vari piccoli servizi, che specialmente in un’attività di commercio sono utili e frequenti.
I bisogni delle famiglie povere sono sempre infiniti e in quella di Caluzzu ci fu un momento di estrema necessità che indusse i genitori a cedere, in parola, il ragazzo ai Profeta come pegno e garanzia di un modestissimo prestito che già s’era certi di non poter restituire in avvenire.
Questa forma inumana di anticresi che nel nostro dialetto è indicata con l’espressione godi e godi era molto comune, principalmente nell’ambito minerario, in cui poveri ragazzini erano affidati a picconieri per conto dei quali portavano alla luce del sole minerali di zolfo greggio su una cesta a forma di cono, detto stirraturi, e anche in campo agricolo-pastorale erano consegnati a curatoli per la custodia del gregge e per altri più umili incarichi.
Tanto mi faceva rabbrividire, ma molto di più mi faceva allibire l’affidamento a vita di un ragazzo a un estraneo.
Mio padre, leggendo in me il grande turbamento, mi ricordò la nota fiaba di Pollicino, e mi spiegò che il gesto di genitori che abbandonavano in un bosco i propri figli non era una gratuita crudeltà, ma un espediente straziante di affidarli alla fortuna d’un vago quanto possibile miglior destino, al solo scopo di non vederseli davanti a sé e lentamente morire di fame.
Chiudo questa triste storia con una battuta di mio padre che quando qualcuno di noi figli faceva qualche piccola bizza verso il gradimento di un cibo, diceva con tristezza:
- Cumu si vidi ca nunn’aviti fattu u Viaggiu a Beddra Matri do Pitittu!


martedì 12 novembre 2013

L’ ”ELDORADO” DI ZIO PEPPINO

Ogni popolo d’ogni luogo sogna un Eldorado, l’introvabile uomo tutto d’oro: si può chiamare zolfo, oro o petrolio, è in ogni caso una chimera comune a tutta l’umanità.
La nostra terra, in antico coperta di boschi e pascoli, divenne, per opera prima dei Romani e poi d’illuminati feudatari, terra del grano. Il borgo a seguito dei vannii del Duca andò pian piano popolandosi, per quanto di braccia il territorio poteva assorbire.
Improvvisamente sotto i pascoli si scoprì lo zolfo e di conseguenza, senza bisogno di vannii, una marea di cercatori di fortuna si riversò nelle nostre contrade, dalla Sicilia e persino dal Meridione d’Italia.
La fascia Centro-meridionale dell’Isola divenne una specie di Klondike; il piccolo borgo agro-pastorale arrivò a contare, dalle poche centinaia d’anime dei primi decenni, ben oltre diciottomila nel 1860.
La giovane comunità di Villarosa, ove ogni famiglia era stata forestiera, divenne paese d’accoglienza perché ogni suo cittadino aveva conosciuto il dramma dell’immigrato che lascia la sua terra per tentare di far miglior fortuna.
Dalla non lontana Delia, sulla fine del XIX secolo, arrivava il mio bisnonno Angelo, seguito dalla forza-lavoro di cinque validi figli maschi e una sola figliola. La prole maschile era a quei tempi una “ricchezza”: non per niente una figliolanza a prevalenza femminile era considerata una mala sorte.
Dei cinque fratelli, a Villarosa era rimasto solamente Zio Peppino, che io conobbi, quand’era già vecchio, ma ancora abbastanza lucido. Infatti, raccontava con precisi particolari l’evento vissuto come una calamità da tutta la nostra famiglia.
Egli allora era poco più che bambino, ma già lavoratore a tutti gli effetti come ogni figlio del popolo bisognoso.
Il sogno di diventare esercenti di miniera, principali, comune a tante famiglie di Villarosa e dei centri zolfiferi tutti, ai Corbo si presentava concreto per via di segnali ben fondati: a poca distanza dall’abitato, in contrada Spina, tra Garciulla e il Salso, a soli pochi metri di profondità dal suolo, avevano scoperto un grosso filone di zolfo, di quelli che ogni zolfataro poteva sognare solo la notte.
Tutti, padre in testa e figli appresso, si erano messi di gran lena a lavorare di piccone, pala e sterratore.
La notte non pareva l’ora che spuntasse l’alba per tornare al gratificante lavoro che distava solo qualche chilometro dall’abitato.
Ammonticchiavano il giallo minerale misto a pietra calcarea fuori del buco; valutavano con compiacimento la bontà del minerale estratto. Progettavano già la costruzione del calcarone, con gli occhi della fantasia vedevano colare il biondo fluido nello stampo ligneo che l’avrebbe accolto e che raffreddato sarebbe diventato la prima valata… Già sulle ali del sogno da sempre inseguito, contavano dieci… cento… mille… di valati, pronte da abbassari, così era chiamata la spedizione per Catania, via ferrovia. Sognavano d'incassare i bullittuna, bigliettoni di carta-moneta di grosso taglio, che qualunque povero non aveva avuto la ventura nemmeno solamente di vedere, ma di quella lira che in quel tempo era ancora convertibile in oro.
La vita, si sa, spesso è beffarda, ti fa sognare persino sul concreto e subito ti scippa di mano con feroce crudeltà la promessa tangibile ricchezza: improvvisamente, sotto i colpi delle vigorose picconate, "scassàru l’acqua", cioè incontrarono la falda idrica sotterranea, sciagura da tutti temuta e sempre in agguato.
In meno che non si dica la breve galleria fu invasa d’acqua salmastra. Disperati piansero la loro mala sorte, perché per quei tempi non c’era rimedio a quella calamità: le pompe a vapore se le potevano permettere solamente le grandi società come la Sikelia, che addirittura più tardi sarebbe stata in grado di costruire persino una ferrovia privata per fare arrivare lo zolfo raffinato dal nord-est del paese direttamente alla stazione ferroviaria.
Ai poveri è da sempre proibito persino sognare.
Disperati più che mai, in tutta fretta rimisero alla meglio ogni cosa a posto per non lasciare segni che offrissero ad altri la possibilità di individuare in seguito quel sito, con la vaga speranza che un giorno ci si sarebbe potuto tornare con più moderni mezzi.
Zio Peppino, il piccolo della famiglia, man mano che padre e fratelli lasciavano questa terra per l’ineludibile legge di natura, era rimasto il solo a tenere in segreto l’ubicazione esatta del promettente luogo e a raccontare la sventurata esperienza alle nuove generazioni di famiglia.
Quando Villarosa fu servita dall’energia elettrica e le pompe furono alla portata anche di piccoli impresari, zio Peppino capì che ora poteva essere il momento opportuno per riprendere l’antico sogno interrotto di necessità. Se non proprio per lui ormai vecchio, per opera di figli e nipoti, che intanto purtroppo andavano disperdendosi per il mondo.
Della numerosa discendenza, restava a Villarosa solo mio padre e così zio Peppino, saggiamente dal suo punto di vista, prima che egli per legge di natura dovesse seguire i suoi vecchi, insisteva col nipote nel voler indicargli il posto esatto che ancora serbava il biondo minerale, ignoto a tutti tranne che a lui.
Io ascoltavo con interesse le parole di zio Peppino; mio padre prometteva al vecchietto che qualche mattina si sarebbero recati nel sito segreto; anch’io mi ero prenotato per l’insolita gita, ma quel mattino non arrivava mai.
Curioso e ansioso di vedere quel luogo misterioso e foriero di benessere futuro, cominciai anch’io a far pressione su papà, vedendo che non si decideva mai.
Un giorno papà con molta serietà mi spiegò che lo zolfo era stato la rovina di tante famiglie, compresa la nostra, perché aveva fatto inseguire un sogno difficile a realizzarsi.
Aggiungeva l’amaro detto che “u surfaru fa ridiri e fa rudiri”, che nella fascia zolfifera della Sicilia, salvo qualche rara eccezione, ha fatto più piangere che gioire. Egli credeva fermamente che conoscere il posto dello zolfo era una tentazione che non si voleva concedere e poi perché riteneva rischioso lasciare il poco certo per il molto incerto: già quella lezione di famiglia aveva lasciato una seria traccia sulla sua esistenza e anche su di quelli che andavano nascendo.
Papà aveva capito che i momenti “eroici” dello zolfo erano finiti da gran tempo; il dopoguerra aveva ridato fiato a speranze industriali a decine di zolfatari, nostalgici di tempi ritenuti memorabili, ma fu per tutti un pieno fallimento; era la concorrenza internazionale che aveva spento le speranze siciliane: la stratificazione dello zolfo texano ne consentiva l’estrazione col metodo Frash che portava direttamente in superficie, senza fumi e senza sprechi, il biondo minerale.
Nessun "principale" fece fortuna, inseguendo un semplice miraggio. Questo ingannò tanti bravi picconieri, “arditori” e “armatori” che chiudevano la settimana di lavoro con un misero acconto che mai si trasformò in liquidazione e in aggiunta per quel sudato servizio non furono mai versati contributi assicurativi e previdenziali.
Ricordo che a uno di questi “principali" (così pomposamente si facevano chiamare certi piccoli imprenditori di miniera), l’ufficiale giudiziario più volte pignorò il “portaservizio” e altri mobili di poco valore, esponendoli alla pubblica asta in piazza San Giacomo, davanti alla Chiese Madre.
Mio padre mi additava nomi di famiglie note che si erano rovinate a causa dello zolfo e altre che, piene di debiti, si erano trasferite all’estero promettendo che avrebbero soddisfatto il loro impegno con i creditori; costoro però non videro mai più una lira.
Per la cronaca solo una famiglia a Villarosa, negli ultimi rantoli dell’industria estrattiva, fece fortuna, non  tanto per lo zolfo prodotto, quanto per la politica regionale che, col pretesto del sostegno degli zolfatai nel diritto al loro posto di lavoro, distribuiva miliardi di lire che andavano  a finire, per lo più, in tasca agli industriali e di qui anche a sostegno elettorale degli stessi politici, erogatori dell’ipocrita aiuto ai lavoratori. Quando vennero meno tali fondi della Regione, i lavoratori più giovani furono costretti a partire ugualmente per il Belgio e il Nord-Italia.
Così si chiudeva un capitolo onorevole e soprattutto doloroso della storia del nostro paese, nato agricolo e diventato industriale, con alterne vicende tra un ambiguo benessere e una reale disperazione.

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