domenica 8 gennaio 2017

U MMIRNU JÈ NFIRNU     

        Al primo segno di freddo d’autunno si era soliti dire: “Prima di Natali né friddu né fami, duppu Natali lu friddu e la fami”.
       Infatti si dice che l’Epifania tutte le feste porta via: e … ci lascia il freddo.
       Questa Befana, datata 2017, si sarà trovata immersa anch’ella nella presente crisi economica e ha voluto far gioire i bimbi con l’abbondante, quanto gratuita, nevicata che non si vedeva da diversi anni.
        Il detto ripetuto spesso da mia nonna Angelina che è citato nel titolo, a me bambino non suonava correttamente, perché vi trovavo una stridente contraddizione: l’inverno freddo non poteva avere nulla a che fare con le fiamme dell’Inferno, minacciato a tutti i cattivi del mondo.
        Crescendo, d’anno in anno, rielaboravo il detto della nonna sopra citato e intuivo che un nesso c’era: se l’Inferno è un terribile tormento, altrettanto lo sono la fame, le disgrazie, il malessere e ogni altra privazione di generi di assoluta necessità.
          Intanto i tempi miglioravano d’anno in anno e lasciavamo indietro le antiche tristezze economiche e, in particolare quelle belliche.
         La nonna era sensibile ai bisogni dei poveri e di ogni altro sventurato. Fu lei che per prima mi parlò dei ragazzini infreddoliti, malnutriti e spesso piangenti che già prima dell’alba lasciavano il calduccio del misero giaciglio nel freddo pianterreno, u catuiu, per andarsi ad infilare nel buco che portava sottoterra e caricarsi sulle gracili e macilente spalle u stirraturi, pieno di dure pietre per portarle dal profondo buio alla luce del giorno. Questi ragazzi guadagnavano qualche soldino che potavano a casa perché avevano un fisico normale per affrontare, col carico addosso, la risalita dalle viscere della terra.
         Tanti altri deboli maschietti e le femmine in genere che non potevano consegnare a mamma un pur misero guadagno, pativano pure loro la triste povertà dei tempi.
         Nelle case di questa umana gente non esistevano riscaldamenti, non dico come quelli odierni, ma nemmeno gli antichi bracieri, a cunculina, o lo scaldino, u tanginu.
       La mancanza di tale minimo conforto, di un’adeguata alimentazione, e conseguentemente di vitamine, favorivano il formarsi alle estremità corporali, maggiormente nei piedi, dei geloni, i rùsuli, che erano, e forse ancor sono, delle tormentose infiammazioni, che finivano col trasformarsi in piaghe dolenti.
          Mi raccontava pure papà che molti ragazzi, disperati per tali stagionali sofferenze, escogitavano strambi, quanto crudeli modi, per cercare scioccamente di scacciarle.
         Le vecchiette, sole in casa, nel clima freddo dell’inverno andavano a letto presto per trovare conforto fisico accovacciate nel loro scarno giaciglio.
        Al contrario i ragazzi si soffermavano ancora insieme sulla via per trarne una comune distrazione alla sofferenza con giochi e monellerie varie.
        Era frequente fra i ragazzi la bizzarra opinione che i propri geloni si potessero scaricare a qualche altro. Ma a chi? Ovviamente a quante nel rione che non avevano l’abilità fisica di rendere loro pane per focaccia: alle povere vecchiette forse di già crogiolate nel confortevole sonno.
       Gli screanzati, che non tenevano conto che un giorno lontano si sarebbero potuti trovare nelle stesse condizioni delle attempate creature, bussavano rumorosamente alla porta dell’infelice solitaria che, svegliatasi di soprassalto, agitata gridava: - Cu jè?... Cu jè?
Gli scostumati rispondevano: - Cci lassu i rùsuli e minni vàjiu!
         Queste storie antiche sembrano sorpassate e che non torneranno mai più…. Lo voglio sperare con tutta l’anima.
Intanto mentre sto scrivendo, s’è fatto buio: la neve di Villarosa stenta a sciogliersi perché resiste per la bassa temperatura.
         Grazie a Dio il riscaldamento di casa mia, al momento, è a posto…

         Il pensiero intanto mi porta lontano, a tutta la parte imprecisa- bile del mondo che vive ancora come ai tempi dei nostri nonni, ma soprattutto ho in cima ai pensieri i terremotati dell’Italia Centrale, che, dopo già tante sofferenze fisiche e morali, sono entrati, con fioche speranze, nno nfirnu do mmirnu.

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