venerdì 29 gennaio 2016

A GRUTTA D’ ANZISI: È SOLO LEGGENDA?



INVITO I LETTORI A COLLABORARE PER CERCARE DI FAR PIU' LUCE SULL'ARGOMENTO DI SEGUITO PRESENTATO


        Nel presumibile sito dell’antica Pizarolo, ricco di reperti come cocci di crateri e mozziconi di pezzi architettonici, gli antichi manufatti, per i contadini del luogo, erano qualificati, con chiara disistima, semplicemente come “grasti”, cioè rottami del tempo dei Saraceni. Infatti fino a non molto tempo fa, ogni oggetto antico rinvenuto sotto terra per il popolo siciliano è sempre stato attribuito agli Arabi, ultimi invasori non cristiani della loro terra. Addirittura quand'ero ragazzo sentivo dire che i secolari ulivi del nostro territorio sarebbero stati piantati ugualmente dai Saraceni


        Ogni rinvenimento d'oggetti antichi cominciò a infiammare la fantasia popolare, che ha intessuto il tutto con la speranza di scoprire prima o poi una copiosa truvatura. Solamente più tardi s'intuì che se tali monete, non rugginose e di color dell'oro,  pur non essendo legalmente riconosciute nel presente, la semplice materia con cui esse erano state realizzate poteva avere un sostanziale valore di gran lunga superiore a qualsiasi valuta corrente nel loro tempo.
        Di qui si scatenò la caccia alla truvatura.

        Aggiungo ancora a questa storia una piccola mia esperienza acquisita nella  giovane età, di quand'ero maestro supplente a Villapriolo a metà degli anni '50. Era ancora in servizio, alla vigilia della pensione, il maestro Mario Baglìo, padre del medico che esercitò per molti anni a Villarosa. Durante la ricreazione ci si trovava insieme nel corridoio della piccola scuola conversando del più o del meno, fra cui della brama sempre in corso per le truvature, che per alcuni era diventata una vera fissazione, che spesso faceva mettere a repentaglio la loro stessa vita.
        In una di quelle mattine successive, l'anziano insegnante trasse fuori dalla tasca un lucente dischetto argenteo: era un "denario" della Roma imperiale. Mi spiegò che quella era una delle altre recuperate da una veste, di decenni precedenti, confezionata dalla madre sarta del falegname Speranza, già nel nostro tempo operante in Villarosa. Tali monete, ovviamente senza valore legale, venivano utilizzate, fra l'altro, cucite nel risvolto interno delle lunghe vesti femminili, allora decisamente di norma, per tenerle ritte e senza svolazzi.

        Alla luce di queste premesse e della chiara constatazione che immediatamente a sud-est di monte Respica-Giulfo, esiste una piccola elevazione naturale, indicata nella Carta d’Italia dell’Istituto Geografico Militare al foglio 268 IV N.E., col nome di Rocca Danzise, quanto segue non può essere considerato semplicemente una leggenda.
        La voce popolare racconta di due compari di Calascibetta, dei tempi antichi quando si andava a caccia di lepri e conigli con lacci e furetti.
        Una mattina i due avviarono uno di questi animaletti in un cunicolo davanti al quale avevano notato “rasti” di roditori. L’animale s’infrittà e pare che non avesse più voglia d’ uscire o forse aveva già tagliato la corda da un’altra apertura, al lato opposto. Quando si furono spazientiti fin troppo uno dei due infilò un braccio nell’ anfratto per cercare di stanare la bestiola recalcitrante e la mano si trovò a toccare materiale non confrontabile a semplici sassi. Trasse fuori il braccio stringendo in pugno alcuni dischetti metallici impiastricciati di sporco stratificato che li rendeva indecifrabili. Il fortunato scopritore sputò sopra uno di questi, lo stropicciò fra pollice ed indice e fra le incrostazioni secolari brillò al sole un minuscolo luccichio riconducibile ad oro.

        I compari si guardarono negli occhi e lì per lì due mani contemporaneamente si scontrarono nella fessura. Subito dopo, una mano alla volta trasse sempre materiale non comune, presumibilmente prezioso. Con grossi rami secchi, coltelli ed arnesi impropri, scavando e facendo leva, allargarono la breccia fino a poterci entrare, uno alla volta. Il primo fece grande fatica; vi s’infilò pericolosamente e brancicando a pancia a terra scivolò per anfratti bui su pietre aguzze che gli straziavano il torace. L’altro fremeva di curiosità interessata per l’inconsueta facilità di trovare monete in metallo prezioso, così, bando ad ogni prudenza, seguì il compare.
        Ansimanti, accaldati, sporchi di terriccio e polveri sottili impastate col sudore che colava dal cuoio capelluto attraverso la fronte e le sopracciglia fino ad offendere gli occhi, si ritrovarono dentro un’ampia cavità fiocamente illuminata da un indiretto timido raggio di sole che s' infiltrava attraverso la roccia non assolutamente compatta.

        Lo spettacolo che si offrì ai loro occhi era molto più prodigioso di quanto il più fortunato tombarolo potesse immaginare: cofani di legno infracidito che lasciavano scivolare spille, monili e anelli;  ceste, già robuste ma ormai corrose dal tempo, custodivano un tesoro di antiche monete, vasi, pesanti gioielli in oro e argento d’inestimabile valore, che poteva trovar posto solamente in decine di capienti bisacce, le sole adatte a nascondere a curiosi il reale e insospettabile contenuto.

        I due fortunati rinvenitori non si reggevano in piedi tra l’eccitazione e il turbamento. Uscirono all’aperto, s’abbracciarono e, come ubriachi,  si lasciarono trascinare, senza alcun controllo, a terra presi totalmente dall’emozione e dalla stanchezza.

        Quando si posero in ginocchio, ciascuno dei due, indicando col dito il volto dell'altro, rideva sonoramente del viso impiastricciato del proprio dirimpettaio.
        I cani guardavano curiosi i loro eccitatissimi padroni senza capire.

I compari, dopo un po', si rasserenarono; il sole s’era posto in alto nell’orizzonte e picchiava sulle loro teste, così d’istinto cercarono l’ombra e qui cominciarono a far piani, che dovevano ovviamente rimanere assolutamente segreti.


        I due erano poveri cacciatori che non disponevano né di un mulo, né di un macilento asinello. Cominciarono col calcolare a grandi linee il numero di muli che sarebbero stati necessari per il trasporto e convennero che l’unica soluzione era quella di ricorrere alla rìtina di muli di Anzise, che li affittava a quanti ne avessero bisogno.

        Sulla via del ritorno, dopo essersi lavati alla meglio al primo abbeveratoio, andarono a contrattare con Anzise adducendo come spiegazione l’acquisto di una partita di grano da rivendere a Castrogiovanni.

Tornati a casa, quando i bambini erano già addormentati, ognuno dei due cacciatori raccontò, con emozione e particolari dettagliati, alla rispettiva consorte l’incredibile fortunata avventura conclusasi  con tale inimmaginabile rinvenimento .


        Giunse così il turno delle donne a rimanere scombussolate. Mentre i mariti sul tardi furono sopraffatti dal sonno, le mogli, ognuna nella rispettiva abitazione, rimasero sveglie a rimuginare, architettando, ciascuna per proprio conto, un vile progetto: perché dover dare la metà del tesoro all’altro?

All’alba gli uomini s’alzarono: uno dei cacciatori trovò in piedi la moglie che nottetempo aveva preparato due focacce, una carica di veleno per topi l’altra normale destinata al proprio marito; l’altro trovò, pronta e decisa, la consorte che aveva preparato pane con olive e altre conserve, accompagnati da una bottiglia di buon vino messo da parte per occasioni speciali, carico d’uguale prodotto tossico per topi, da destinare esclusivamente al compare, visto che il marito era notoriamente astemio.

        Ambedue i mariti non furono entusiasti dell’idea delle rispettive mogli, ma dovettero soccombere alla vile proposta per non rischiare di mettere a repentaglio la gran fortuna che avevano tra le mani.

        Con la rìtina dei muli di Anzise raggiunsero la grotta del tesoro. La zona intorno era deserta e non vi sorgeva alcuna costruzione, quindi non c’era il rischio d’esser visti da sguardi curiosi.

        Come primo atto s’affrettarono ad allargare con paletti di ferro e picconi l’accesso all’antro e quando furono all’interno cominciarono a riempire le bisacce d’ogni oggetto prezioso, ripulendo il sito, con accuratezza e avidità, d’ogni più piccolo oggetto metallico. Trascinarono le bisacce fuori, la caricarono sui muli, assicurandole ben bene con corde e prisagli.

           
           Prima d’affrontare il viaggio di ritorno e anche per evitare di entrare in paese di giorno, si sedettero a riposare e a consumare l’ultimo pasto da poveri. Nel giro di qualche ora si consumò la tragedia fra atroci crampi e feroci accuse reciproche, finché spirarono senza poter ricevere aiuto alcuno.

I poveri muli testimoni inconsapevoli aspettarono inutilmente che si desse loro il comando del rientro.

        Quando le bestie, appesantite dal metallico basto,  cominciarono a sentire in aggiunta i pressanti i morsi della fame, appena la prima si mosse per il ritorno subito fu seguita da tutte le altre lungo i già noti sentieri che portavano alla loro dimora abituale.

        Era notte fonda quando a rìtina di muli al completo giunse alla masseria d’Anzise e cominciarono a raspuliare con gli zoccoli il terreno per attirare l’attenzione del padrone che di già era a letto, sperando che li venisse a liberare al più presto dell’ormai insopportabile carico. Anzise scese giù, diede voce ai suoi clienti, che li credeva fuori della portata della sua vista, e quando appurò che non c’era nessuno, ritenne opportuno disimpegnare al più presto le bestie dall’ intollerabile soma. Capì subito che non si trattava di frumento ma di oggetti metallici, quando aprì la prima bisaccia rimase basito; ripresosi subito pensò per il momento di acquisire il tutto e poi vedere il da farsi.

Nessuno reclamò il carico e quando si scoprì in paese la misteriosa morte dei due compari, ad Anzise si chiarì del tutto il quadro della situazione e rimase il proprietario indiscusso di tutto quel ben di Dio.

        La storia raccontatami ha un seguito che potrebbe essere ben confermato o smentito da testimonianze storiche inoppugnabili: io la raccontò così come l’ho avuta riferita, anche se le mie riserve in merito rimangono numerose.
        Passarono gli anni, Anzise, non avendo eredi, pare che avrebbe fatto testamento lasciando il suo smisurato patrimonio a favore della chiesa che si fosse impegnata a custodire nell’avvenire il suo corpo imbalsamato. 

Sempre secondo la mia fonte verbale, abitanti di Castrogiovanni nottetempo avrebbero trafugato le spoglie di Anzise, assicurandosi per la propria comunità la lucrosa rendita. Gli stessi però, nella fretta, avrebbero dimenticato a Calascibetta le interiora del defunto, anch’esse mummificate.


        La controversia sarebbe stata risolta dopo lunghe trattative: la rendita maggiore sarebbe stata assegnata alla chiesa di Castrogiovanni, una quota minore a quella di Calascibetta.

        Cosa ci sarà di vero in tutta questa storia?
        Mi resta solamente d' aggiungere che, secondo me, non potrà essere una semplice coincidenza la denominazione di Rocca Danzise all'altura della zona in questione, riportata in modo inequivocabile nella succitata Carta d’Italia, molto simile al cognome citato nella leggenda.

        Aggiungo ancora che una lunga serie di rinvenimenti succedutesi nel tempo, furono raccontati nell'800 in una ricerca che io anni fa ho avuto tra le mani, scritta da tale dottore Falzone. Spero tanto che qualcuno la possegga e la metta a disposizione degli amatori,  pubblicandola nel blog o dove meglio crede.

venerdì 15 gennaio 2016

Pubblico questi versi dialettali di COSENTINO Rosa Bianca, mia moglie, relativi a un aspetto della vita di paese negli anni della sua infanzia.

A GADDINA “STRAVIATA”

"Cicci… cicci… puripò…"
e la fimmina chiamava,
iva n’cerca da gaddina
cca taccaglia gilestrina.
S’addannava puviredda
giriannu pi li strati,
si cridiva ca a gaddina
fussi propriu straviata.
Tutti l’autri gaddini
già s’avivanu aggiuccatu
n’di la caggia pianu pianu,
ppi  passari la nuttata.
Cci mancava sulu didda
“Unni iera, unni stava?”
Ccu li lacrimi nni ll’ucchi
la patruna la circava.
E vicini addumannava:
“A  tu vistu a ma gaddina
di culiri pirnicigna
cca taccaglia gilistrina?”
Turnà dintra stanca e abbinta,
nun sapiva cchiù cchi fari…
Si curcà ma nni lu sunnu:
“coccodè” sintiva fari.
Si susì di notti e notti,
grapì a porta e s’affaccià;
sintì sciauru di brodu
e lu cori cci siccà…
Capì allura ca a vicina
a gaddina cucinava,
mentri u priju de carusi
n’di l’aricchi cci arrivava.
Iera festa n’di dda casa,
n’di dda casa puviredda
ca a pignata finarmenti
cucinava a gaddinedda.
Iera luttu ppa patruna
ca lu cori cci abbattiva,
cci abbattiva tantu forti    
ca o 'n momentu assantumava.
Lu duluri  la purtava
a mmazzari la vicina:
cumu didda senza cori
ammazzà la so gaddina!
Già la scupa avìa pigliatu
pp’ammaccaricci la testa…
ma un pinsiri la firmà:
nnì  dda casa puviredda
ppe carusi iera festa!
Lu duluri iera forti,
ma lu cori cci trimava
pirchì quannu era carusa
puru didda disijava
un pizzuddu di gaddina…
E allura, cota cota,
turnà dintra Cuncittina.


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