martedì 12 novembre 2013

L’ ”ELDORADO” DI ZIO PEPPINO

Ogni popolo d’ogni luogo sogna un Eldorado, l’introvabile uomo tutto d’oro: si può chiamare zolfo, oro o petrolio, è in ogni caso una chimera comune a tutta l’umanità.
La nostra terra, in antico coperta di boschi e pascoli, divenne, per opera prima dei Romani e poi d’illuminati feudatari, terra del grano. Il borgo a seguito dei vannii del Duca andò pian piano popolandosi, per quanto di braccia il territorio poteva assorbire.
Improvvisamente sotto i pascoli si scoprì lo zolfo e di conseguenza, senza bisogno di vannii, una marea di cercatori di fortuna si riversò nelle nostre contrade, dalla Sicilia e persino dal Meridione d’Italia.
La fascia Centro-meridionale dell’Isola divenne una specie di Klondike; il piccolo borgo agro-pastorale arrivò a contare, dalle poche centinaia d’anime dei primi decenni, ben oltre diciottomila nel 1860.
La giovane comunità di Villarosa, ove ogni famiglia era stata forestiera, divenne paese d’accoglienza perché ogni suo cittadino aveva conosciuto il dramma dell’immigrato che lascia la sua terra per tentare di far miglior fortuna.
Dalla non lontana Delia, sulla fine del XIX secolo, arrivava il mio bisnonno Angelo, seguito dalla forza-lavoro di cinque validi figli maschi e una sola figliola. La prole maschile era a quei tempi una “ricchezza”: non per niente una figliolanza a prevalenza femminile era considerata una mala sorte.
Dei cinque fratelli, a Villarosa era rimasto solamente Zio Peppino, che io conobbi, quand’era già vecchio, ma ancora abbastanza lucido. Infatti, raccontava con precisi particolari l’evento vissuto come una calamità da tutta la nostra famiglia.
Egli allora era poco più che bambino, ma già lavoratore a tutti gli effetti come ogni figlio del popolo bisognoso.
Il sogno di diventare esercenti di miniera, principali, comune a tante famiglie di Villarosa e dei centri zolfiferi tutti, ai Corbo si presentava concreto per via di segnali ben fondati: a poca distanza dall’abitato, in contrada Spina, tra Garciulla e il Salso, a soli pochi metri di profondità dal suolo, avevano scoperto un grosso filone di zolfo, di quelli che ogni zolfataro poteva sognare solo la notte.
Tutti, padre in testa e figli appresso, si erano messi di gran lena a lavorare di piccone, pala e sterratore.
La notte non pareva l’ora che spuntasse l’alba per tornare al gratificante lavoro che distava solo qualche chilometro dall’abitato.
Ammonticchiavano il giallo minerale misto a pietra calcarea fuori del buco; valutavano con compiacimento la bontà del minerale estratto. Progettavano già la costruzione del calcarone, con gli occhi della fantasia vedevano colare il biondo fluido nello stampo ligneo che l’avrebbe accolto e che raffreddato sarebbe diventato la prima valata… Già sulle ali del sogno da sempre inseguito, contavano dieci… cento… mille… di valati, pronte da abbassari, così era chiamata la spedizione per Catania, via ferrovia. Sognavano d'incassare i bullittuna, bigliettoni di carta-moneta di grosso taglio, che qualunque povero non aveva avuto la ventura nemmeno solamente di vedere, ma di quella lira che in quel tempo era ancora convertibile in oro.
La vita, si sa, spesso è beffarda, ti fa sognare persino sul concreto e subito ti scippa di mano con feroce crudeltà la promessa tangibile ricchezza: improvvisamente, sotto i colpi delle vigorose picconate, "scassàru l’acqua", cioè incontrarono la falda idrica sotterranea, sciagura da tutti temuta e sempre in agguato.
In meno che non si dica la breve galleria fu invasa d’acqua salmastra. Disperati piansero la loro mala sorte, perché per quei tempi non c’era rimedio a quella calamità: le pompe a vapore se le potevano permettere solamente le grandi società come la Sikelia, che addirittura più tardi sarebbe stata in grado di costruire persino una ferrovia privata per fare arrivare lo zolfo raffinato dal nord-est del paese direttamente alla stazione ferroviaria.
Ai poveri è da sempre proibito persino sognare.
Disperati più che mai, in tutta fretta rimisero alla meglio ogni cosa a posto per non lasciare segni che offrissero ad altri la possibilità di individuare in seguito quel sito, con la vaga speranza che un giorno ci si sarebbe potuto tornare con più moderni mezzi.
Zio Peppino, il piccolo della famiglia, man mano che padre e fratelli lasciavano questa terra per l’ineludibile legge di natura, era rimasto il solo a tenere in segreto l’ubicazione esatta del promettente luogo e a raccontare la sventurata esperienza alle nuove generazioni di famiglia.
Quando Villarosa fu servita dall’energia elettrica e le pompe furono alla portata anche di piccoli impresari, zio Peppino capì che ora poteva essere il momento opportuno per riprendere l’antico sogno interrotto di necessità. Se non proprio per lui ormai vecchio, per opera di figli e nipoti, che intanto purtroppo andavano disperdendosi per il mondo.
Della numerosa discendenza, restava a Villarosa solo mio padre e così zio Peppino, saggiamente dal suo punto di vista, prima che egli per legge di natura dovesse seguire i suoi vecchi, insisteva col nipote nel voler indicargli il posto esatto che ancora serbava il biondo minerale, ignoto a tutti tranne che a lui.
Io ascoltavo con interesse le parole di zio Peppino; mio padre prometteva al vecchietto che qualche mattina si sarebbero recati nel sito segreto; anch’io mi ero prenotato per l’insolita gita, ma quel mattino non arrivava mai.
Curioso e ansioso di vedere quel luogo misterioso e foriero di benessere futuro, cominciai anch’io a far pressione su papà, vedendo che non si decideva mai.
Un giorno papà con molta serietà mi spiegò che lo zolfo era stato la rovina di tante famiglie, compresa la nostra, perché aveva fatto inseguire un sogno difficile a realizzarsi.
Aggiungeva l’amaro detto che “u surfaru fa ridiri e fa rudiri”, che nella fascia zolfifera della Sicilia, salvo qualche rara eccezione, ha fatto più piangere che gioire. Egli credeva fermamente che conoscere il posto dello zolfo era una tentazione che non si voleva concedere e poi perché riteneva rischioso lasciare il poco certo per il molto incerto: già quella lezione di famiglia aveva lasciato una seria traccia sulla sua esistenza e anche su di quelli che andavano nascendo.
Papà aveva capito che i momenti “eroici” dello zolfo erano finiti da gran tempo; il dopoguerra aveva ridato fiato a speranze industriali a decine di zolfatari, nostalgici di tempi ritenuti memorabili, ma fu per tutti un pieno fallimento; era la concorrenza internazionale che aveva spento le speranze siciliane: la stratificazione dello zolfo texano ne consentiva l’estrazione col metodo Frash che portava direttamente in superficie, senza fumi e senza sprechi, il biondo minerale.
Nessun "principale" fece fortuna, inseguendo un semplice miraggio. Questo ingannò tanti bravi picconieri, “arditori” e “armatori” che chiudevano la settimana di lavoro con un misero acconto che mai si trasformò in liquidazione e in aggiunta per quel sudato servizio non furono mai versati contributi assicurativi e previdenziali.
Ricordo che a uno di questi “principali" (così pomposamente si facevano chiamare certi piccoli imprenditori di miniera), l’ufficiale giudiziario più volte pignorò il “portaservizio” e altri mobili di poco valore, esponendoli alla pubblica asta in piazza San Giacomo, davanti alla Chiese Madre.
Mio padre mi additava nomi di famiglie note che si erano rovinate a causa dello zolfo e altre che, piene di debiti, si erano trasferite all’estero promettendo che avrebbero soddisfatto il loro impegno con i creditori; costoro però non videro mai più una lira.
Per la cronaca solo una famiglia a Villarosa, negli ultimi rantoli dell’industria estrattiva, fece fortuna, non  tanto per lo zolfo prodotto, quanto per la politica regionale che, col pretesto del sostegno degli zolfatai nel diritto al loro posto di lavoro, distribuiva miliardi di lire che andavano  a finire, per lo più, in tasca agli industriali e di qui anche a sostegno elettorale degli stessi politici, erogatori dell’ipocrita aiuto ai lavoratori. Quando vennero meno tali fondi della Regione, i lavoratori più giovani furono costretti a partire ugualmente per il Belgio e il Nord-Italia.
Così si chiudeva un capitolo onorevole e soprattutto doloroso della storia del nostro paese, nato agricolo e diventato industriale, con alterne vicende tra un ambiguo benessere e una reale disperazione.

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