martedì 27 aprile 2010

CENNI SUL MONDO SOCIALE ANTERIORE AGLI ANNI ‘50

I segni più vistosi d'una certa distinzione sociale erano i copricapo, "cuppuli e cappedda", che però non erano obbligati come una divisa.
Era impensabile che un operaio o un contadino, sia pur benestante, portasse il cappello. Di festa qualche artigiano l’indossava.
A tal proposito ho un ricordo indelebile. Era il 1946: prime elezioni amministrative. A Villarosa erano in lizza due liste: quella della Democrazia Cristiana e quella civica con emblema il Leone capeggiata da un ex sindaco del periodo prefascista, don Peppino Profeta, a cui s'erano unite le sinistre.
Mio padre fu indotto a candidarsi, non chiese il voto a nessuno, non tanto per superbia quanto per rispetto del principio della libertà del voto: fu eletto ugualmente e con molti suffragi. Io dodicenne seguivo le manifestazioni democratiche che per me, e non solo, erano assolute novità.
Vinse la lista popolare e subito a scrutinio completato spontaneamente si formò un immenso e composto corteo che fece il giro del paese lungo il tragitto consueto delle processioni.
Mi colpì la frase di un signore che diceva: - Nun cc'è mancu un cappiddu!
Io curioso salii su degli scalini d’un portoncino della via Milano e appurai l'affermazione appena sentita.
Altra distinzione relativa a: Don e Donna, Mastru e Gnura. Artigiani, commercianti, impiegati e rispettive mogli erano chiamati col Don e Donna, il resto della popolazione con mastru e gnura.
C'era pure una zona intermedia fra il Don e il Mastro, che si risolveva con “zzi”: zzi Pe', zzi Turì, zzi Marì, zzi Minichì.... non sempre erano parenti.
Sconfinare da queste regole comportava biasimo ed ironia.
Ricordo che c'era una donna che proclamava, in italiano: - Io sono la signora Alessi...
Ma la si compativa come persona un po' stramba...
Fino agli anni '60 i contadini, anche i più facoltosi, d'inverno usavano “ a scappulara”, lo scapolare, una specie di mantello di stoffa pesante di color blu con cappuccio. Gli altri s'arrangiavano come potevano...
In tempi più antichi, professionisti e galantuomini, portavano un elegante mantello con borchia dorata a chiusura alla base del collo, u firriulu. Ai tempi della mia infanzia chi si voleva distinguere dal popolino indossava il cappotto.
Come si evince c'era una scala sociale variegata che ciascuno rispettava per timore d'essere preso in giro, ma non c'era alcun obbligo legale: era solamente una convenzione tacitamente rispettata.
In fondo era il reddito che creava il discrimine. In ogni categoria c'era anche una scala di valori a seconda delle capacità professionali o dal modo di proporsi al prossimo.
I vari mondi sociali erano poco permeabili, ma si poteva passare dall'uno all'altro nel corso delle generazioni. Importante era la considerazione morale della famiglia, ma il reddito e il potere erano più attraenti, come oggi del resto.
Della scala agricola l'ultimo era, e lo è ancora, “u jurnataru”; di quella zolfifera “ u panuttaru”, quello che impastava le polveri inerti miste a scagliette di zolfo che asciugate venivano infornate per trarne un minimo di zolfo liquido. I “panutti” sbriciolati concorrevano a formare “u ginisi”, lo scarto inerte che rimaneva dalla combustione e liquefazione dello zolfo; esso era un ottimo materiale idrorepellente molto adatto per costruire stradelle.
A proposito “do ginisi” sono ancora visibili sullo sfondo del corso Regina Margherita verso nord dei grandissimi coni di deiezione di color rosa formati da tali rosticci. Oggi hanno perso il color vivo che ancora tengo negli occhi della mente e sono solcati dall’erosione delle piogge nel corso dei numerosi decenni.
Sempre a proposito del suolo villarosano di tutta la zona ai piedi del monte Respica, a destra dell’ “Ariazza”, appare ancor oggi come un paesaggio lunare, cumuli irregolari e buche sempre di color rosa per via dei rosticci, essi sono “i ginisara” di Verona: così comunemente è chiamata la zona. Da ragazzo mi chiedevo che cosa c’entrasse la città veneta col nostro paese, ma nessuno mi sapeva dare una risposta. Col tempo ho scoperto che Verona era il cognome d’una facoltosa famiglia palermitana di industriali dello zolfo e padroni di miniere nella zona.
Mi compiaccio di citare questi particolari che se non fissati nella forma scritta sono condannati ad inesorabile dimenticanza, come già è avvenuto ad esempio con l’origine del nome Respica.
Quand'ero ragazzino spesso sentivo chiedere a qualcuno il tipo di scuola che avesse freqentato; questi accenando una risatella rispondeva: - U quartu ginisaru di Verona! Giocando ironicamente sull'assonanza dei nomi, ma per significare nella sostanza che la sua scuola era stata la miniera.
Io non coglievo queste sfumature anche perchè confondevo la parola “ginisaru” con ginnasio; i conti però non mi quadravano perché l’interpellato non corrispondeva ai canoni dello studente.
Teoricamente la scuola era aperta a tutti: esisteva la legge dell'obbligo scolastico, nella riforma del 1923 era prevista persino la post-elementare, ma nella vera sostanza le aule era aperte ai figli di borghesi e a una striminzita minoranza di figli di operai. Un solo esempio potrà dare un'idea approssimativa. Nella mia prima classe, anno scolastico 1940-41, gli iscritti eravamo 56 [ho la fotocopia della pagina dell'elenco del registro]. Però non tutti i nati del 1934 [si tenga presente che allora al nostro Comune mancavano poche decine di abitanti per arrivare ai 12.000] varcarono quel primo ottobre il portone del novello palazzo scolastico Silvio Pellico”, almeno altrettanti erano per le strade del paese o ad aiutare in campagna. Dei miei 56 compagni originari, quelli che arrivammo in quinta si potevano contare si e no sulle dita d'una mano, gli altri dieci erano formati con i reduci dalle altre prime classi e l'aggiunta di qualche ripetente. Restavano inesorabilmente fuori della scuola i poveri che non possedevano un paio di scarpe.
Fra le gallerie di foto del sito villarosani.it ce n'è una di gruppo dove la metà dei ritratti seduti a terra mostrano con assoluta naturalezza i piedi nudi. La foto mi pare degli anni '50, lascio immaginare quanti piedi scalzi nei decenni precedenti.
Non si finirebbe mai di raccontare aspetti di un tempo che si spera che non torni mai più: ora voglio lasciare spazio a qualche concittadino di aggiungere particolari nuovi o di correggere i miei.

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