U MMIRNU
JÈ NFIRNU
Al primo segno
di freddo d’autunno si era soliti dire: “Prima
di Natali né friddu né fami, duppu Natali lu friddu e la fami”.
Infatti si dice che l’Epifania tutte le feste porta via: e …
ci lascia il freddo.
Questa Befana, datata 2017, si sarà trovata immersa anch’ella
nella presente crisi economica e ha voluto far gioire i bimbi con l’abbondante,
quanto gratuita, nevicata che non si vedeva da diversi anni.
Il detto ripetuto spesso da mia nonna Angelina che è citato
nel titolo, a me bambino non suonava correttamente, perché vi trovavo una
stridente contraddizione: l’inverno freddo non poteva avere nulla a che fare
con le fiamme dell’Inferno, minacciato a tutti i cattivi del mondo.
Crescendo, d’anno in anno, rielaboravo il detto della nonna
sopra citato e intuivo che un nesso c’era: se l’Inferno è un terribile
tormento, altrettanto lo sono la fame, le disgrazie, il malessere e ogni altra
privazione di generi di assoluta necessità.
Intanto i tempi miglioravano d’anno in anno e lasciavamo indietro
le antiche tristezze economiche e, in particolare quelle belliche.
La nonna era sensibile ai bisogni dei poveri e di ogni altro
sventurato. Fu lei che per prima mi parlò dei ragazzini infreddoliti,
malnutriti e spesso piangenti che già prima dell’alba lasciavano il calduccio
del misero giaciglio nel freddo pianterreno, u catuiu, per andarsi ad infilare nel buco che portava sottoterra e
caricarsi sulle gracili e macilente spalle u
stirraturi, pieno di dure pietre per portarle dal profondo buio alla luce
del giorno. Questi ragazzi guadagnavano qualche soldino che potavano a casa
perché avevano un fisico normale per affrontare, col carico addosso, la
risalita dalle viscere della terra.
Tanti altri deboli maschietti e le femmine in genere che non
potevano consegnare a mamma un pur misero guadagno, pativano pure loro la
triste povertà dei tempi.
Nelle case di questa umana gente non esistevano
riscaldamenti, non dico come quelli odierni, ma nemmeno gli antichi bracieri, a cunculina, o lo scaldino, u tanginu.
La mancanza di tale minimo conforto, di un’adeguata
alimentazione, e conseguentemente di vitamine, favorivano il formarsi alle
estremità corporali, maggiormente nei piedi, dei geloni, i rùsuli, che erano, e forse ancor sono, delle tormentose
infiammazioni, che finivano col trasformarsi in piaghe dolenti.
Mi raccontava pure papà che molti ragazzi, disperati per tali
stagionali sofferenze, escogitavano strambi, quanto crudeli modi, per cercare
scioccamente di scacciarle.
Le vecchiette, sole in casa, nel clima freddo dell’inverno
andavano a letto presto per trovare conforto fisico accovacciate nel loro
scarno giaciglio.
Al contrario i ragazzi si soffermavano ancora insieme sulla
via per trarne una comune distrazione alla sofferenza con giochi e monellerie
varie.
Era frequente fra i ragazzi la bizzarra opinione che i propri
geloni si potessero scaricare a qualche altro. Ma a chi? Ovviamente a quante nel rione che non avevano l’abilità
fisica di rendere loro pane per focaccia: alle povere vecchiette forse di già
crogiolate nel confortevole sonno.
Gli screanzati, che non tenevano conto che un giorno lontano
si sarebbero potuti trovare nelle stesse condizioni delle attempate creature,
bussavano rumorosamente alla porta dell’infelice solitaria che, svegliatasi di
soprassalto, agitata gridava: - Cu jè?...
Cu jè? …
Gli scostumati rispondevano: - Cci lassu i rùsuli e minni vàjiu!
Queste storie antiche sembrano sorpassate e che non
torneranno mai più…. Lo voglio sperare con tutta l’anima.
Intanto mentre sto scrivendo, s’è fatto buio: la neve di
Villarosa stenta a sciogliersi perché resiste per la bassa temperatura.
Grazie a Dio il riscaldamento di casa mia, al momento, è a
posto…
Il pensiero intanto mi porta lontano, a tutta la parte
imprecisa- bile del mondo che vive ancora come ai tempi dei nostri nonni, ma
soprattutto ho in cima ai pensieri i terremotati dell’Italia Centrale, che,
dopo già tante sofferenze fisiche e morali, sono entrati, con fioche speranze, nno
nfirnu do mmirnu.
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