INVITO I LETTORI A COLLABORARE PER CERCARE DI FAR PIU' LUCE SULL'ARGOMENTO DI SEGUITO PRESENTATO
Nel presumibile sito dell’antica
Pizarolo, ricco di reperti come cocci di crateri e mozziconi di pezzi
architettonici, gli antichi manufatti, per i contadini del luogo, erano
qualificati, con chiara disistima, semplicemente come “grasti”, cioè rottami
del tempo dei Saraceni. Infatti fino a non molto tempo fa, ogni oggetto antico
rinvenuto sotto terra per il popolo siciliano è sempre stato attribuito agli
Arabi, ultimi invasori non cristiani della loro terra. Addirittura quand'ero ragazzo sentivo dire che i secolari ulivi del nostro territorio sarebbero stati piantati ugualmente dai Saraceni
Ogni rinvenimento d'oggetti antichi cominciò
a infiammare la fantasia popolare, che ha intessuto il tutto con la speranza di
scoprire prima o poi una copiosa truvatura.
Solamente più tardi s'intuì che se tali monete, non rugginose e di color
dell'oro, pur non essendo legalmente riconosciute
nel presente, la semplice materia con cui esse erano state realizzate poteva
avere un sostanziale valore di gran lunga superiore a qualsiasi valuta corrente
nel loro tempo.
Di qui si scatenò la caccia alla truvatura.
Aggiungo ancora a questa storia una
piccola mia esperienza acquisita nella
giovane età, di quand'ero maestro supplente a Villapriolo a metà degli
anni '50. Era ancora in servizio, alla vigilia della pensione, il maestro Mario
Baglìo, padre del medico che esercitò per molti anni a Villarosa. Durante la
ricreazione ci si trovava insieme nel corridoio della piccola scuola conversando
del più o del meno, fra cui della brama sempre in corso per le truvature, che per alcuni era diventata
una vera fissazione, che spesso faceva mettere a repentaglio la loro stessa
vita.
In una di quelle mattine successive, l'anziano
insegnante trasse fuori dalla tasca un lucente dischetto argenteo: era un
"denario" della Roma imperiale. Mi spiegò che quella era una delle altre
recuperate da una veste, di decenni precedenti, confezionata dalla madre sarta del
falegname Speranza, già nel nostro tempo operante in Villarosa. Tali monete,
ovviamente senza valore legale, venivano utilizzate, fra l'altro, cucite nel
risvolto interno delle lunghe vesti femminili, allora decisamente di norma, per
tenerle ritte e senza svolazzi.
Alla luce di queste premesse e della
chiara constatazione che immediatamente a sud-est di monte Respica-Giulfo,
esiste una piccola elevazione naturale, indicata nella Carta d’Italia
dell’Istituto Geografico Militare al foglio 268 IV N.E., col nome di Rocca
Danzise, quanto segue non può essere considerato semplicemente una leggenda.
La voce popolare racconta di due compari
di Calascibetta, dei tempi antichi quando si andava a caccia di lepri e conigli
con lacci e furetti.
Una mattina i due avviarono uno di
questi animaletti in un cunicolo davanti al quale avevano notato “rasti” di roditori. L’animale s’infrittà e pare che non avesse più voglia
d’ uscire o forse aveva già tagliato la corda da un’altra apertura, al lato
opposto. Quando si furono spazientiti fin troppo uno
dei due infilò un braccio nell’ anfratto per cercare di stanare la bestiola
recalcitrante e la mano si trovò a toccare materiale non confrontabile a
semplici sassi. Trasse fuori il braccio stringendo in pugno alcuni dischetti
metallici impiastricciati di sporco stratificato che li rendeva indecifrabili.
Il fortunato scopritore sputò sopra uno di questi, lo stropicciò fra pollice ed
indice e fra le incrostazioni secolari brillò al sole un minuscolo luccichio
riconducibile ad oro.
I compari si guardarono negli occhi e lì
per lì due mani contemporaneamente si scontrarono nella fessura. Subito dopo, una
mano alla volta trasse sempre materiale non comune, presumibilmente prezioso.
Con grossi rami secchi, coltelli ed arnesi impropri, scavando e facendo leva,
allargarono la breccia fino a poterci entrare, uno alla volta. Il primo fece
grande fatica; vi s’infilò pericolosamente e brancicando a pancia a terra
scivolò per anfratti bui su pietre aguzze che gli straziavano il torace. L’altro
fremeva di curiosità interessata per l’inconsueta facilità di trovare monete in
metallo prezioso, così, bando ad ogni prudenza, seguì il compare.
Ansimanti, accaldati, sporchi di
terriccio e polveri sottili impastate col sudore che colava dal cuoio capelluto
attraverso la fronte e le sopracciglia fino ad offendere gli occhi, si
ritrovarono dentro un’ampia cavità fiocamente illuminata da un indiretto timido
raggio di sole che s' infiltrava attraverso la roccia non assolutamente
compatta.
Lo spettacolo che si offrì ai loro occhi
era molto più prodigioso di quanto il più fortunato tombarolo potesse
immaginare: cofani di legno infracidito che lasciavano scivolare spille, monili
e anelli; ceste, già robuste ma ormai
corrose dal tempo, custodivano un tesoro di antiche monete, vasi, pesanti
gioielli in oro e argento d’inestimabile valore, che poteva trovar posto
solamente in decine di capienti bisacce, le sole adatte a nascondere a curiosi
il reale e insospettabile contenuto.
I due fortunati rinvenitori non si
reggevano in piedi tra l’eccitazione e il turbamento. Uscirono all’aperto,
s’abbracciarono e, come ubriachi, si
lasciarono trascinare, senza alcun controllo, a terra presi totalmente
dall’emozione e dalla stanchezza.
Quando si posero in ginocchio, ciascuno
dei due, indicando col dito il volto dell'altro, rideva sonoramente del viso
impiastricciato del proprio dirimpettaio.
I cani guardavano curiosi i loro
eccitatissimi padroni senza capire.
I compari, dopo un po', si rasserenarono; il sole s’era posto in alto
nell’orizzonte e picchiava sulle loro teste, così d’istinto cercarono l’ombra e
qui cominciarono a far piani, che dovevano ovviamente rimanere assolutamente
segreti.
I due erano poveri cacciatori che non
disponevano né di un mulo, né di un macilento asinello. Cominciarono col
calcolare a grandi linee il numero di muli che sarebbero stati necessari per il
trasporto e convennero che l’unica soluzione era quella di ricorrere alla rìtina di muli di Anzise, che li affittava
a quanti ne avessero bisogno.
Sulla via del ritorno, dopo essersi
lavati alla meglio al primo abbeveratoio, andarono a contrattare con Anzise
adducendo come spiegazione l’acquisto di una partita di grano da rivendere a
Castrogiovanni.
Tornati a casa, quando i bambini erano già addormentati, ognuno dei due
cacciatori raccontò, con emozione e particolari dettagliati, alla rispettiva
consorte l’incredibile fortunata avventura conclusasi con tale inimmaginabile rinvenimento .
Giunse così il turno delle donne a
rimanere scombussolate. Mentre i mariti sul tardi furono sopraffatti dal sonno,
le mogli, ognuna nella rispettiva abitazione, rimasero sveglie a rimuginare,
architettando, ciascuna per proprio conto, un vile progetto: perché dover dare
la metà del tesoro all’altro?
All’alba gli uomini s’alzarono: uno dei cacciatori trovò in piedi la moglie che
nottetempo aveva preparato due focacce, una carica di veleno per topi l’altra
normale destinata al proprio marito; l’altro trovò, pronta e decisa, la
consorte che aveva preparato pane con olive e altre conserve, accompagnati da
una bottiglia di buon vino messo da parte per occasioni speciali, carico
d’uguale prodotto tossico per topi, da destinare esclusivamente al compare,
visto che il marito era notoriamente astemio.
Ambedue i mariti non furono
entusiasti dell’idea delle rispettive mogli, ma dovettero soccombere alla vile
proposta per non rischiare di mettere a repentaglio la gran fortuna che avevano
tra le mani.
Con la rìtina dei muli di Anzise raggiunsero la grotta del tesoro. La zona
intorno era deserta e non vi sorgeva alcuna costruzione, quindi non c’era il
rischio d’esser visti da sguardi curiosi.
Come primo atto s’affrettarono ad
allargare con paletti di ferro e picconi l’accesso all’antro e quando furono
all’interno cominciarono a riempire le bisacce d’ogni oggetto prezioso, ripulendo
il sito, con accuratezza e avidità, d’ogni più piccolo oggetto metallico.
Trascinarono le bisacce fuori, la caricarono sui muli, assicurandole ben bene
con corde e prisagli.
Prima d’affrontare il viaggio di ritorno e anche per evitare di entrare in paese di giorno, si sedettero a riposare e a consumare l’ultimo pasto da poveri. Nel giro di qualche ora si consumò la tragedia fra atroci crampi e feroci accuse reciproche, finché spirarono senza poter ricevere aiuto alcuno.
I poveri muli testimoni inconsapevoli aspettarono inutilmente che si desse loro
il comando del rientro.
Quando le bestie, appesantite dal
metallico basto, cominciarono a sentire in
aggiunta i pressanti i morsi della fame, appena la prima si mosse per il
ritorno subito fu seguita da tutte le altre lungo i già noti sentieri che
portavano alla loro dimora abituale.
Era notte fonda quando a rìtina di muli al completo giunse alla
masseria d’Anzise e cominciarono a raspuliare
con gli zoccoli il terreno per attirare l’attenzione del padrone che di già
era a letto, sperando che li venisse a liberare al più presto dell’ormai
insopportabile carico. Anzise scese giù, diede voce ai suoi clienti, che li
credeva fuori della portata della sua vista, e quando appurò che non c’era
nessuno, ritenne opportuno disimpegnare al più presto le bestie dall’ intollerabile
soma. Capì subito che non si trattava di frumento ma di oggetti metallici,
quando aprì la prima bisaccia rimase basito; ripresosi subito pensò per il
momento di acquisire il tutto e poi vedere il da farsi.
Nessuno reclamò il carico e quando si scoprì in paese la misteriosa morte dei
due compari, ad Anzise si chiarì del tutto il quadro della situazione e rimase
il proprietario indiscusso di tutto quel ben di Dio.
La storia raccontatami ha un seguito che
potrebbe essere ben confermato o smentito da testimonianze storiche
inoppugnabili: io la raccontò così come l’ho avuta riferita, anche se le mie
riserve in merito rimangono numerose.
Passarono gli anni, Anzise, non avendo
eredi, pare che avrebbe fatto testamento lasciando il suo smisurato patrimonio
a favore della chiesa che si fosse impegnata a custodire nell’avvenire il suo
corpo imbalsamato.
Sempre secondo la mia fonte verbale, abitanti di Castrogiovanni nottetempo
avrebbero trafugato le spoglie di Anzise, assicurandosi per la propria comunità
la lucrosa rendita. Gli stessi però, nella fretta, avrebbero dimenticato a
Calascibetta le interiora del defunto, anch’esse mummificate.
La controversia sarebbe stata risolta
dopo lunghe trattative: la rendita maggiore sarebbe stata assegnata alla chiesa
di Castrogiovanni, una quota minore a quella di Calascibetta.
Cosa ci sarà di vero in tutta questa storia?
Mi resta solamente d' aggiungere che,
secondo me, non potrà essere una semplice coincidenza la denominazione di Rocca
Danzise all'altura della zona in questione, riportata in modo inequivocabile
nella succitata Carta d’Italia, molto simile al cognome citato nella leggenda.
Aggiungo ancora che una lunga serie di
rinvenimenti succedutesi nel tempo, furono raccontati nell'800 in una ricerca
che io anni fa ho avuto tra le mani, scritta da tale dottore Falzone. Spero tanto
che qualcuno la possegga e la metta a disposizione degli amatori, pubblicandola nel blog o dove meglio crede.
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