E CCHI
JÈ ARTI DI PINNA…?
L'arti
di pinna era la capacità di saper scrivere e ovviamente anche di leggere.
Tale espressione che io da
giovane sentivo spesso ripetere aveva perso però il significato specificatamente
originario dei tempi precedenti all'Avviso pubblico del 1864 emanato dal Comune
di Castrogiovanni, oggi Enna, riprodotto
in calce, che, in mancanza d’altro a noi più prossimo, tengo quale punto di
riferimento del mutamento culturale avvenuto nella nostra terra e non solo.
Ad avere questa abilità di scrittura fra la
popolazione fino all'Unità d'Italia erano in pochissimi: notai, avvocati,
sacerdoti, maestri, figli di genitori benestanti, altri giovani che dopo
qualche anno di studi in seminario avevano rinunciato a prendere i voti. (Parlando
di questi ultimi si era soliti dire che "avevano rubato gli studi al
Vescovo").
Per quasi tutto il resto della
cittadinanza tale competenza era soltanto una irraggiungibile meta.
Erano i tempi in cui persino
molti benestanti rimanevano analfabeti e così, spesso per non fare conoscere
questa loro comunissima incapacità, non firmavano nemmeno gli atti pubblici, facendo apporre al connivente
notaio, la nota: “Non sottoscrive perché galantuomo”.
L'espressione citata nel
titolo del post era comune ne
i casi in cui qualcuno mostrava forte incertezza
nel portare a termine un certo compito e il compagno, che se ne reputava
capace, si meravigliava fortemente, dal momento che non si trattava di un'abilità
complessa come l'arte dello scrivere.
Lo scopo precipuo del nostro
blog resta sempre quello di far conoscere, alla presente e alle successive
generazioni, quali erano i modi di vivere di quanti ci hanno preceduti su
questo territorio e non solo.
Non tutti però i conoscitori
di tale rara "arte" necessariamente si rivelavano dei fortunati, forse
perché molto spesso l'insuccesso derivava da
inabilità personali.
Quand'ero giovanissimo sentivo
parlare tanto "do maistru menza lira",
un poveretto a cui "l'arti di
pinna" non poté tanto giovare. Io non ebbi modo di conoscerlo direttamente
perché aveva lasciato questo mondo poco prima che io nascessi, solamente conobbi
l'anziana sorella, ch'era mia vicina di casa. Era chiamato "maestro"
solamente perché sapeva leggere e scrivere, ma per il resto non ebbe nemmeno un
incarico minimo al Municipio, quale poteva essere quello di messo, o essere assunto quale scritturale alla
contabilità di una delle tante miniere nel nostro territorio.
L'eccezionale "allittratu" si dava da fare la sera per impartire qualche
sporadica lezione privata a qualche rarissimo volenteroso lavoratore di miniera,
ansioso di lasciare quella pericolosa
attività: la ricompensa pecuniaria ovviamente era da giudicare assai scarsa, dal
momento che la stessa era stata accorpata al nomignolo.
Il poveraccio esercitava anche
attività di doposcuola a rari bimbi di famiglie benestanti: la signora M., nota
a Villarosa per la sua pubblica funzione, mi parlava, tempo addietro, pure
delle lezioni impartite a suo tempo dallo stesso alla sua defunta madre e della
circostanza che il tapino uomo di lettere all'ora del pranzo ogni tanto si
presentava con qualche scusa in casa dei piccoli clienti, con l'intuibile
speranza che i genitori lo invitassero a mensa dicendogli: "a ppiacissi!"
È il caso di menzionare il
noto motto latino: "Litterae non dant panem"
La fine do maistru menzalira fu assai tragica. Un mattino d'inverno il
poveretto fu trovato morto sul suo letto vittima do fitu do carbuni, come era inteso popolarmente l'ossido di
carbonio.
Rimase il tragico dubbio: fu una disgrazia o comprò, con l'ultima mezza
lira stentatamente guadagnatasi, il carbone per il braciere, lasciato acceso
durante la lunga notte, per porre fine, con un espediente indolore, alla sua
triste e misera esistenza?
Torniamo al problema
scolastico come fatto sociale, che dopo l'Unità d'Italia, molto lentamente si
avviò.
Il primo Ottobre di uno degli
ultimi anni ‘30, si apriva a molti giovanissimi villarosani il primo giorno di
scuola elementare nel nuovo plesso "Silvio Pellico", chiamato da
tutti per antonomasia "Palazzo scolastico". Prima d'allora le poche aule
esistenti erano sparse in varie aree cittadine, solamente la parallela al corso
Regina Margherita a salire, partendo a ridosso della sacrestia della Matrice,
porta ancora il nome di "Via Scuole", perché vi erano situate più di
una classe nel suo tratto.
Non ho notizie specifiche
dell'istruzione nel nostro paese in tempi precedenti all'Unità d'Italia, ma il
detto da me raccolto dalla viva voce dei nostri più anziani cittadini, qui anni
addietro postato, "Granni Ddì quant'è
rranni sta Tàlia, jiu a l'Armena e sempri Tàlia jera", lascia intuire qual era la cognizione
geografica e politica del nostro popolo.
Circa trent'anni fa nell’ufficio
del Direttore del Circolo "S.Chiara" di Enna, notai incorniciato e
appeso alla parete un esemplare dell' annuncio in fondo riportato. Chiesi al
collega se gentilmente ne potevo avere una riproduzione; lì per lì fece tirar
fuori lo storico avviso dalla cornice e cortesemente me ne consegnò la
fotocopia.
Ovviamente nel periodo
post-unitario sarà stato emanato un corrispondente annuncio nel nostro Comune,
ma dal momento che non ne siamo in possesso e per dare un'idea storica
dell'avvenimento che concluse il lungo periodo d'ignoranza diffusissima, invito
i nostri lettori a leggere l'omologo ennese, con la viva preghiera di rifletterci
sopra, tenendo presente che lo spirito socio-culturale di tali iniziative era
analogo in ogni città e in ogni comunità, piccola o grande che sia.
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