"MA DUNA NA LIRA
DI SSA COSA?"
Lo scoppio della guerra nel
giugno 1940 fece rallentare al massimo grado i rapporti commerciali tra Nord e
Sud: la ferrovia e le relative stazioni erano bersaglio frequente di
mitragliamenti e bombardamenti aerei, le autostrade ancora non esistevano e
conseguentemente i prodotti industriali di qualsiasi genere erano pressoché inaccessibili.
Al contrario, ad alto rischio, viaggiavano sulle strade soldati, carri blindati,
cannoni ed esigue vettovaglie per la truppa.
Successivamente allo sbarco
nella zona di Gela nel giro di pochi
mesi l'Italia fu tagliata in due e da
tanto ne conseguì una scissione totale.
In quella situazione la merce
principale che a un ragazzino potesse interessare era ovviamente quella
alimentare che quando si era fortunati si riduceva al tozzo di pane, che non
sempre si aveva la buona sorte d'avere in casa. Alla domanda del bambino che
chiedeva ccu ccu s'aviva a mangiari u
pani, cioè il companatico, spesso la risposta amaramente semischerzosa dei
genitori era la solita: pani, crusta e
muddricuni.
Ricordo con tristezza quei
ragazzini che tra ottobre e novembre chiedevano a vicini di casa proprietari di
alberi di ulivo se potevano aiutarli a raccogliere da terra le relative bacche,
che notoriamente non sono in quello stato direttamente mangiabili come in
genere l'altra frutta: mi fu spiegato dai grandi che l'offerta della propria dura
fatica, in apparenza gratuita, sarebbe stata ricompensata col tozzo di pane
accompagnato da mezza sarda salata, che ciascuno avrebbe consumato durante la
sosta di mezzogiorno.
Ricordo ancora che da scolaro
a primavera ogni tanto il direttore consentiva alle scolaresche di andare "a passeggio". Era un tripudio per
tutti, ma la maggioranza degli alunni s'infilava nei prati, tirava fuori dalla
tasca un coltellino e si dedicava a raccogliere erbette a me sconosciute che
divoravano con ingordigia: panipanuzzu,
piscialazzi, cardeddra, pidi di gaddru e tante altre delle quali non
ricordo più nemmeno il nome.
Contemporaneamente da parte
mia vagamente ancora mi ricordavo di certi companatici, tipici di regioni
nordiche, che papà, quando non c'erano frigoriferi nelle case, portava in
piccole porzioni sera dopo sera e dei quali avevo dimenticato prestissimo i
nomi, come un morbido e gustoso formaggio
rivestito all'esterno da carta stagnola, il "gorgonzola", i
formaggini …
Sempre a proposito di queste antiche
carenze, mi sovviene un ricordo recente:
in un pomeriggio estivo un signore avanti negli anni, ma vivace, con la
telecamera in mano usciva dalla Matrice, inquadrava e riprendeva la piazza, di
fianco il Palazzo Ducale e la torre dell'orologio; poi, scendendo giù dalla
scalinata, si rivolse all'amico con cui io parlavo e gli disse: - Cce fari vidiri e' ma figli ca cca nun simu propriu
rrobba di terzu munnu…
Appena completammo con l'amico
il discorso iniziato, ebbi la curiosità di chiedergli chi era quel villarosano tanto
orgoglioso del suo paesello.
Appena ne appresi il nome, subito
accorsi per raggiungerlo perché si trattava proprio di un mio caro compagno di
classe, fra l'altro ritratto nella foto di gruppo della Prima Comunione del
1941, emigrato in qualche stato del Nord europeo alla fine degli anni ‘40. Fu
vana la mia corsa, perché era forse ripartito in auto.
Ci rimasi molto male, ma nello
stesso tempo fui molto compiaciuto del fatto che Minicuzzu aveva fatto nella vita all'estero passi avanti e
difendeva il suo primo borgo agli occhi dei ben pasciuti figli. Di sicuro costoro
conservavano ancora l'immagine che s'erano fatta del mondo dei tempi duri trascorsi
da papà in Villarosa: chissà se egli aveva raccontato anche a loro quel che un
giorno dei tempi amari egli aveva consigliato
a me: - U sa quantu sapi bbunu u pani
accumpagnatu ccu na stizziddra d'agliu?
1945: due tristi anni erano
trascorsi dall'invasione Anglo-americana in
Sicilia; il commercio col Nord molto lentamente andava riprendendo il
suo ritmo. I primi prodotti alimentari nordici cominciarono ad arrivare a
Villarosa. Don Michele Castellano, fu il primo fra i suoi colleghi, che ordinò
la già comunissima mortadella di Bologna.
Appena l'ebbe ricevuta, l'espose
bene in vista sul bancone frontale.
Non si formò una coda
d'acquirenti, ma di curiosi sì. Fra le giovani generazioni pochi capirono di
cosa si trattasse.
Tra costoro c'era u figliu di Caliddru. Egli abitava in un
misero tugurio in contrada Garciuddra,
col vecchio padre disabile per una marcatissima gobba, sicuramente originata da
un precoce e lungo carusatu di pirrera: il
ragazzo non aveva per tutti un proprio nome; seppi che era mio coetaneo solamente
circa un decennio dopo, quando ci trovammo in uno stanzone della Pretura, nudi tutti insieme i maschi del 1934, quali comuni cittadini italiani, alla visita militare di leva.
Una delle primissime sere
dell'arrivo del prodotto bolognese, mio padre, mentre andava a comprare il solito
companatico serale, ebbe richiesta sul marciapiede la consueta carità dall' indigente
ragazzo.
Subito dopo si ritrovarono ambedue
nella bottega del Castellano, nel momento in cui il figlio di Caliddru, con la misera moneta cartacea
quadrata delle AM Lire in mano, indicando la mortadella, chiedeva:
- Ma
duna na lira di ssa cosa?
Il prezzo del dopoguerra di "ssa cosa" era di ben mille
lire al chilogrammo, accessibile a pochissime famiglie in quel momento di lentissima
ripresa. Don Michele abbozzò un sereno
sorriso, tagliò una sottilissima porzione di fettina di mortadella, gliela porse
in mano e gli fece cenno di tenere per sé l'altrettanta leggerissima liretta.
Spesso mi chiedo perché mi
ritrovo a evocare questi antichi ricordi e concordo pienamente che questa è la
genuina storia del nostro popolo e non solamente quella che apprendiamo dai
libri degli studiosi: è pure importante la conoscenza delle gloriose vicende degli
Stati e delle Regioni: il Re che diventa Imperatore, la Regione nostra che ottiene
l'Autonomia, l'Italia che col Fascismo acquista gran prestigio nel mondo, le
due Guerre Mondiali… ma non dobbiamo
dimenticare tutto il cumulo di sofferenze e di morti, che sono stati pesantemente
appioppati all'esistenza già triste d'intere popolazioni.
I nostri figli anche questo
dovranno imparare a conoscere: non è la momentanea gloria a far grandi i
popoli, ma il vivere sereno, senza atroci privazioni e morti violente.
In questo momento storico di rimasuglio di benessere che comincia a scemare fortemente a causa delle ingiustizie che nascono dall'ingordigia dei potenti, dalle mafie e dagli sperperi inutili, il mio vorrebbe essere un gesto scaramantico per allontanare la tristezza di quei tempi vissuti, sempre sperando che non tornino mai più.
In questo momento storico di rimasuglio di benessere che comincia a scemare fortemente a causa delle ingiustizie che nascono dall'ingordigia dei potenti, dalle mafie e dagli sperperi inutili, il mio vorrebbe essere un gesto scaramantico per allontanare la tristezza di quei tempi vissuti, sempre sperando che non tornino mai più.
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