“Javi a Merica” era un detto villarosano usato per indicare un
commerciante a cui gli affari andavano bene, anche se tra costui e gli U.S.A.
non c’era mai stato collegamento alcuno.
Il motto era comunissimo perché
generalmente chi rientrava da quel continente, partito povero in canna, dopo
alcuni anni rientrava come un ricco signore, rispetto ad altrettanti laboriosi concittadini
rimasti in patria, ed era anche in grado
di potere acquistare una casa ‘mpalazzata
e alcune salme di terre fertili.
Il caso più sorprendente fu
quello del cav. Salvatore Curione che al rientro dagli Stati Uniti fu in grado
di creare un mulino e un grande
pastificio, con circa un centinaio di dipendenti, la cui eccellente produzione
fu apprezzata in tanta parte della Sicilia.
Per moltissimi dei parenti
rimasti al paese, cambiava pure l’esistenza, ad esempio, mastru Pippinu L.
aveva in America due familiari, il grande era figlio della moglie già vedova e il
minore nato da ambedue nuovi coniugi. Il vecchio era felice delle loro rimesse,
tanto che si vantava con amici e vicini di casa, che egli si poteva considerare
un impiegato statale per via della
mesata sempre puntuale, spedita da tutti e due i bravi giovani.
I casi come questo erano
comuni, ma per tanti altri la medaglia aveva un doloroso rovescio.
L’economia locale, specialmente
quella dei paesi a maggiore migrazione, quale il nostro, risultò scombussolata
al massimo per il depauperamento delle forze maschili, ovviamente più vitali e,
in rispondenza, l’ espatrio favorì la
percentuale d’invecchiamento e femminilizzazione
della popolazione locale, notoriamente meno produttiva.
A parte poi i malumori
economici, c’erano quelli di natura sociale che crearono smarrimento e desolazione
in molte famiglie.
Mia nonna, figlia della vedova successivamente
sposata al citato Peppino L., mi raccontava di tanti toccanti drammi: di
famiglie che avevano allevato con amore un trovatello che giunto alla nuova
terra non si faceva più vivo, dimenticandosi persino di restituire almeno la
somma, che gli avevano procurato con grandi sacrifici, per pagargli il costosissimo
viaggio; di legittimi figli e mariti che si riformavano un’altra famiglia in quel remoto
angolo della Terra, trascurando del tutto i familiari e costringendo le donne
di casa a divenire criàte presso
famiglie facoltose e i maschietti ad andare in miniera come carusi.
Qualche mese fa, con un giovane
amico si parlava di problemi familiari particolari, in special modo di quelli del passato; poi, gli lessi sul viso
un leggero sorriso tra lo spontaneo e il maliziosetto, e aggiunse che egli
esisteva per una fortuita coincidenza. Io gli dissi che tutti potevamo asserire
la stessa cosa, per via degli imprevisti
e l’aggrovigliarsi degli eventi fisici e umani: all’origine di ciascuno di noi,
ad esempio, c’è uno spermatozoo fattosi un po’ più avanti rispetto ad un altro,
microscopicamente, a lui accanto. Egli confermò la mia
osservazione, ma volle precisare una circostanza d’altra natura, diciamo, piuttosto
più vistosa.
Quando egli cominciò a esporre
la stuzzicante vicenda familiare, lo invitai, riconoscendogli le personali capacità,
a raccontare i fatti sul blog “Bellarrosa”, da me avviato e a disposizione di
chiunque voglia scrivervi, senza essere tenuto a dichiarare che si trattava di
una propria vicenda familiare. Subito mi chiarì che per i suoi impegni non aveva
il tempo da dedicargli: in effetti ha ragione, è occupatissimo nel suo lavoro.
Una delle due sue nonne, Maruzza,
quand’era giovane, aveva una segreta simpatia, tacitamente ben corrisposta per
via di sguardi e sorrisini furtivi, con un giovane del vicinato, Pippinu.
Questi un giorno, tramite un’amica, le fece
sapere che era pronto per emigrare negli Stati Uniti alla ricerca di un lavoro più
redditizio atto a consentirgli di costituire un discreto capitale e che dopo
qualche anno sarebbe ritornato al paese, dove si sarebbero potuti felicemente
sposare.
La ragazza ne parlò in
famiglia; i genitori apprezzarono la volontà del giovane, ma pretesero che l’intesa
si formalizzasse con un fidanzamento ufficiale
prima della partenza, soprattutto per consolidare un legame quasi parentale fra
le due famiglie.
O nsinġu, com’era chiamato fino a
decenni fa la festa di fidanzamento, parteciparono i più stretti parenti delle
due famiglie. Al sobrio trattenimento seguì la musica di una
modesta orchestrina locale che accompagnò tanti festosi balli, che si protrassero
fino a tarda ora.
Pochi giorni dopo Pippinu s’imbarcò per la lontana meta.
Per qualche tempo la
corrispondenza fu frequente e nella busta Maruzza, inserita tra la cara
lettera, trovava una moneta cartacea di scuti,
com’erano da noi chiamati i dollari.
Intanto, a poco a poco si diradarono le lettere e i graditissimi contenuti, che erano utilizzati esclusivamente a preparare altri litti di biancarì.
Intanto, a poco a poco si diradarono le lettere e i graditissimi contenuti, che erano utilizzati esclusivamente a preparare altri litti di biancarì.
Da Villarosa partivano lettere
di fuoco, che avevano un riscontro un tantino freddo e debole di calde
promesse.
La muta tristezza di Maruzza
era visibilmente letta in faccia, non solamente da parte dei genitori, ma anche
del vicinato che vedeva intristire sempre
più il visino smunto in proporzione al rarefarsi della figura del postino nell’atto
di bussare alla porta della giovane.
Un pomeriggio d’inverno la gnura Minichina, dirimpettaia da gran
tempo, chiamò a casa sua la malinconica giovanetta e la fece sedere di fronte a
sé. Cominciò a parlarle accoratamente, chiudendo il pugno d’una sua mano e stringendolo
con l’altra, come se volesse significare con quel gesto naturale, che le
parlava col cuore in mano.
L’anziana donna, con le lacrime
agli occhi, le raccontò la triste vicenda della sua vita di quando giovane
madre di due teneri bimbi, il marito partì per l’America e dopo qualche tempo
non si fece più sentire; da parte di
compaesani, residenti nella stessa città del vile consorte, apprese la struggente
notizia: lo spregevole traditore s’era ngaddruliatu con una bionda polacca,
compagna di lavoro.
La poveretta, tra lamenti e
singhiozzi, continuò a esporre le conseguenze sulla sua triste esistenza successiva al gran
tradimento: dovette adattarsi a fare la lavandaia di casa in casa per
racimolare un pezzetto di pane e fruire, di tanto in tanto, del regalo di
qualche frutto della campagna dei suoi clienti e di qualche vestitino smesso, utile
a far difendere dal freddo invernale i suoi bambini.
Quando la tremolante sventurata
ebbe sfogato con gemiti e lacrime amare il suo immenso dolore, considerando che nei
paesini era difficile trovare uno sposo per una ragazza promessa a un altro e poi
abbandonata, abbracciò Maruzza e le disse: - Datti da fare come meglio puoi,
figlia mia, prima che sia troppo tardi.
La giovane tornò a casa
avvilita al massimo perché capiva che era troppo lontana Pittsburgh…
Riferì la storia appena
conosciuta e il consiglio della gnura
Minichina ai suoi genitori, che, ugualmente accorati , le precisarono che essi
erano da gran tempo a conoscenza della triste vicenda della poverina.
Le parole sincere della buona
vicina rimasero presenti nelle menti dei familiari, tutti protesi a trovare una
soluzione tanto complessa.
Da tempo il padre di Maruzza, Turiddu, carezzava tra sé un’idea che
trovava un po’ avventata: in quella lontanissima stessa città del promesso
infame sposo viveva il suo lontano parente Gannurfu,
con il quale aveva avuto in gioventù un buon rapporto. Questi quando viveva
a Villarosa era percepito come un picciuttu ‘ntisu.
Il povero padre speranzoso si
chiedeva: perché non debba essere possibile che anche in quell’altra faccia
della Terra, Gannurfu, sia pur maturo
d’anni, non possa essere sempre considerato omu
di rispittu?
Infine partì da Villarosa una
toccante lettera di Turiddu per il parente lontano. La stessa Maruzza s'incaricò d'impostarla, dopo averla fortemente stretta al cuore e bagnata da un’invisibile
goccia d’acqua benedetta.
Circa due settimane dopo, una
mattina si presentò alla porta di Pippinu
l’anziano Gannurfu in persona. Il
padrone di casa confuso lo invitò ad entrare, quello si rifiutò e,
consegnandogli vari biglietti di viaggio, gli disse perentoriamente:
-
Stasira stissu tu parti ppi Villarrosa!
Pippinu
provò
a schermirsi, l’altro gli tolse le carte di mano e, con veemenza,
gliele infilò nella tasca interna di la
bunàca, com’era allora chiamata nel
nostro dialetto la giacca.
Subito si volse di scatto e
lasciò di stucco sulla soglia di casa il vile fedifrago.
Passarono appena due mesi e due
solenni “SI” furono pronunciati
davanti all’Altare Maggiore della Chiesa Madre del paese natìo.
Conseguentemente, fu così che poté
nascere, tantissimi anni dopo, il mio
giovane amico.
complimenti, prof. per le belle storie, o meglio, per la realtà che LEI SCRIVE, dove è palpabile la passione che lei mette ; Lei, mette il lettore a leggere con altrettanta passione. Grazie ancora anche per la sua innata gentilezza e per il rispetto che prodiga verso tutti. BUONA GIORNATA, Professore, un abbraccio affettuoso. Fedele
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