lunedì 7 ottobre 2013

UN SINDACO DA NON DIMENTICARE


Ho avuto modo di parlare di don Peppino Profeta, commerciante di grano, fave e simili in Villarosa, quando nei tempi difficili della prima guerra mondiale fu defraudato, con un futile espediente dal suo dipendente Cola A., di piccole quantità di grano e da questo irrisorio fatto nacque e s'affermò il detto “O da porta o do purtiddru a vo nnèsciri u furmintiddu”.
Ovviamente non solamente per questo quasi trascurabile episodio egli merita una collocazione nella storia degli abitanti d'un centro già minerario oggi ridotto a un paesino di pensionati. Egli fu anche sindaco del Comune per due volte in momenti particolarmente difficili della vita della nostra cittadina e dell'Italia tutta.
Fu sindaco ininterrottamente tra gli ultimi due anni della Grande Guerra e i primi quasi cinque del corrispondente dopoguerra: un periodo non interrotto di miseria e tristezze. In uno dei momenti più critici fra questi i molti poveri del paese soffrirono la fame più nera e intanto il grano preannunciato dal Prefetto ritardava considerevolmente ad arrivare. Don Peppino vedeva i suoi personali magazzini colmi di grano e sentiva il rimorso di non poterli utilizzare per il più umano degli scopi.
Una mattina, deciso, annunciò che avrebbe anticipato il grano duro della nostra terra per sfamare i più bisognosi, già ridotti all’osso.
Non mi dilungo a descrivere l’impatto che ebbe la notizia sulla popolazione bisognosa, ma anche su quanti avevano di che vivere ma possedevano un'altruistica sensibilità.
Tale gesto filantropico rimase scolpito nella memoria dei concittadini per i venti anni che seguirono durante il fascismo, durante i quali don Peppino restò completamente estraneo alla politica e tornò alle sue attività commerciali.
Primavera 1946, il popolo italiano tutto è chiamato a scegliere tra Monarchia o Repubblica ed eleggere il Sindaco del proprio Comune. L'evento fu eclatante non solo perché, dopo un ventennio di dittatura fascista, si tornava a votare, ma soprattutto per la circostanza che potevano esprimere liberamente il loro pensiero tutti i cittadini d'ogni censo e cultura dai ventuno anni in su. E, ancor di più, il fatto fu più clamoroso perché poterono votare, per la prima volta in assoluto, le donne già ghettizzate da sempre dal pieno diritto all'elezione attiva e passiva.
Al momento della scelta dei candidati il primo pensiero dei villarosani andò a don Peppino che, pesante d'anni e d'acciacchi, non si sentiva in grado di portare a termine un mandato come vent'anni prima: ma non si sentì di deluderli ed accettò. Quasi tutti i partiti rinunciarono ai rispettivi simboli per far risorgere l'antico e popolare “leone”, già raffigurato nello stemma dei Notarbartolo, fondatori della nostra cittadina. Mi pare di ricordare che solamente il rinominato partito dei cattolici la “Democrazia Cristiana”, già “Partito Popolare” fondato da don Sturzo, non accettò la candidatura del benefattore Profeta; credevano di farcela da soli a fare eleggere il loro candidato e poi perché da rigidi moralisti quali essi erano non tolleravano l'unione more uxorio del vecchio sindaco con una donna non legata dal vincolo sacramentale.
I candidati a consiglieri furono scelti fra le varie categorie di cittadini. Mio padre fu chiamato a questo dovere civico; fu eletto tra i primi, ma non volle impegnarsi in nessun assessorato.
Lo spoglio completo delle schede si concluse verso sera con una strepitosa vittoria della lista del “leone”; d'incanto si formò uno spontaneo e interminabile corteo con in testa il malfermo neo sindaco che fece il girò del paese seguendo il tipico tragitto delle processioni religiose.
Io camminavo accanto a mio padre quando gli si avvicinò un conoscente che gli disse: - Fra tutta questa folla non c'è un solo cappello!
Io curioso salii sugli scalini esterni d'un portone di via Milano e appurai la giustezza dell'osservazione. Più tardi papà mi precisò che non avevano votato per il sindaco Profeta solo operai e contadini ma anche borghesi, solo che la manifestazione avveniva di lunedì e per giunta spontanea; non si trattava quindi di una festa a cui ci si prepara prima e vi si partecipa col vestito d'occasione.
Avevo solamente quasi dodici anni e non ero in grado di giudicare la condotta politico-amministrativa; bisognava capire che si trattava d'un anziano ottantenne in un' epoca in cui gli anni pesavano di più rispetto ad oggi, perché grazie a Dio abbiamo a disposizione medicamenti e miracoli di chirurgia molto decisivi.
Don Peppino non poté completare il suo secondo mandato a causa della fine dei suoi giorni; gli successe il suo vice don Niniddru Tripi, fine sarto di Villarosa.
Don Peppino non aveva figli né nipoti, ma fu sensibile ad incrementare la scuola nel nostro paese al fine di offrire gli studi a tutti i figli del popolo che altrimenti non avrebbero avuto la possibilità economica per frequentare collegi lontani; ne si può dire che egli lo facesse per raccogliere voti: non ne aveva più bisogno lui e nemmeno il suo inesistente partito.
Nell'anno scolastico 1944-45 il Preside Carcione del collegio “Plutia” di Piazza Armerina aveva creato in Villarosa la prima classe di scuola media privata. L'Amministrazione comunale fece di tutto per renderla comunale e dare sempre più possibilità ai piccoli cittadini di frequentarla col pagamento di una modica rata trimestrale.
Negli anni scolastici successivi io e qualche centinaio di ragazzi e ragazze di Villarosa, Villapriolo e di Alimena, grazie a questa iniziativa, potemmo fruire per l'appunto di tale opportunità: tanto per quei tempi non fu poca cosa: l’obbligo scolastico a 14 anni sarebbe arrivato soltanto nel 1962, cioè quando io nel frattempo ero diventato padre.
Per questi motivi, per conto mio, sono grato a quell’Amministrazione e in particolare a quel Sindaco che, senza specifici interessi di famiglia, mi consentì di realizzare il mio grande sogno, poter studiare.
Ora voglio chiudere la storia di don Peppino con un quasi futile episodio che delinea la sua personalità vecchio tipo, d'un tempo non tanto lontano.
Mio padre come consigliere comunale fu chiamato a far parte della commissione comunale per la nuova scuola e così io fin d'allora seguii passo passo l'evolversi della nuova istituzione da me tanto agognata.
Il plesso “Silvio Pellico”, unica scuola allora esistente, non aveva aule da offrire; il Comune concesse i pianterreni del Municipio che guardano a nord: i due piccolissimi locali funsero da segreteria e presidenza; la palestra già del Fascio, rivolta ad est, divenne la nostra.
I banchi per gli alunni, altro problema. Si reperirono rottami di quelli di quinta classe elementare abbandonati nella vecchia mai utilizzata palestra del “Pellico” e si affidarono ad un falegname che li mettesse a sesto per la somma di £ 30.000 (trentamila lire!).
Nel momento in cui fu pattuita tale somma un membro della Commissione disse al falegname:
  • Manda a prendere dal bar un bottiglia di vermuth che ce la beviamo al buon esito della nuova scuola e alla nostra salute.
Si sentì una voce ferma e vibrante:
  • Cca dintra guantèri ccu buttigli nun nni tràsinu...!
    A genti cchi po' pinsari?... Ca cca si mangia e si vivi a sbafu?

Era il sindaco Profeta. La proposta cadde in un silente vuoto.

sabato 31 agosto 2013

Casa Notarianni in contrada Majorana

Questo gioiello architettonico è un maniero di 150 anni fa e sorge nel territorio di Villarosa, in contrada Maiorana: il corpo principale è un quadrato ai cui vertici sono addossati 4 torrioni a forma di piccoli quadrati smussati. 
Quand’ero ragazzino sapevo della bella dimora solo per sentito dire, in cui d’estate villeggiava il proprietario d’allora, il colonnello Penzovecchio, che ricordo nella sua figura alta e distinta, con degli occhialini cerchiati di metallo sottile.
Quando molto più tardi fu costruita la strada provinciale che inizia dal bivio Catena e di lì per Mescino Mio ed ancora fino al Palazzo sant’Anna, l’edificio, oggi ridotto ad un rudere, è reso accessibile alla vista di chiunque passi di lì. E’ una proprietà privata. La foto l’ho scattata qualche anno fa.
La nostra concittadina arch. Annamaria La Pusata l’ha “riscoperta” e vi ha discusso la tesi di laurea su un’ipotesi di restauro del piccolo castello.

martedì 26 marzo 2013

UN SINGOLARE TEST DI ONESTÀ


 Il momento critico che attraversa oggi il nostro Paese in merito alla crisi morale della Politica (e non solo), mi riporta agli inizi della mia adolescenza.

Primavera 1946, io, ex Balilla, m’avviavo a compiere dodici anni ed ero interessato alla novità della riconquistata democrazia ed in particolare dell’imminente referendum istituzionale tra Monarchia o Repubblica.

Ascoltavo quasi tutti i comizi dell’una e dell’altra parte e mi convinsi a simpatizzare per la seconda dopo aver seguito il comizio di un noto avvocato della nostra Provincia, di cui oggi mi sfugge il cognome. In poche parole la sua argomentazione base era la seguente: se il figlio primogenito del Re è sostanzialmente un cretino, egli necessariamente un giorno diverrà sovrano di tutti noi; al contrario, è difficilissimo, addirittura impossibile, che un comune sciocco possa arrivare all’alta carica di Presidente della Repubblica.

Cercavo conferme nei discorsi dei grandi e molti di loro, come mio padre, erano ben convinti dell’argomentazione repubblicana ma temevano di fare un “salto nel buio” specialmente per via del fatto che il Partito Comunista, allora d’ispirazione sovietica, era un deciso sostenitore della forma repubblicana: eravamo appena usciti da una dittatura e si temeva fortemente di andare a sfociare in un’altra.

Laddove c’era un crocchio di persone che trattava simili argomenti, in particolare comodamente seduti fuori al fresco accanto ad associazioni come la Società dei Combattenti e Reduci, la Società “Umberto I°” o altre ancora, io vi mi soffermavo per seguire le varie tesi. Tante erano le discussioni che s’intrecciavano e fra queste un particolare argomento affiorava più spesso, quello dell’onestà dei politici. Alcuni sostenevano che, entrati nel contesto pluripartitico in cui ora ci trovavamo, il controllo si sarebbe raggiunto più facilmente per mezzo del voto popolare che avrebbe castigato, con l’eliminazione, gli indegni alla successiva elezione.
Molti pensavano come me, ma non tutti però erano d’accordo.
Uno di costoro era don Turiddu Palumbo, sfortunato “principale” di pirreri, che circa un decennio dopo sarebbe stato costretto ad emigrare in Brasile con tutta la famiglia. Il suo pensiero era quello che difficilmente la natura umana potesse mutare perchè “munnu à statu e munnu jè”.

Conoscevo don Turiddu fin da quando ero bambino e con lui avevo avuto più occasioni d’interloquire e sentivo che egli mi ammirasse proprio per via degli interessi da me manifestati, che in genere si addicono ai più grandi. L’anziano signore cercava in ogni modo di convincermi che l’umanità è sempre la stessa in democrazia o in dittatura; è vero sì che la prima è maggiormente da preferire, ma le magagne sono similmente presenti in un modo o l’altro.
Ad un certo punto don Turiddu si mostrò ancora più suadente e mi disse:
- Tinuzzu, mittiti n’testa chiddru ca ti staiu dicinnu: si vo vidiri si na pirsuna jè veramenti onesta, cci à taliari la chianta di li manu. Si cci criscinu pila, chiddu jè sicuramenti n’omu perbeni.
Restai un po’ smarrito ma subito mi ripresi, sorrisi e tacqui.

Mentre sono in argomento voglio citare un distico dialettale, ugualmente pessimistico, che qualche decennio dopo mi fece conoscere don Pippiniddu Casali, l’elettricista, che abitava nella parte alta del corso Regina Margherita. Egli era stato dirimpettaio d’un fratello di mio nonno che purtroppo io non arrivai a conoscere, u zzi Vastianu, che si dilettava di poesia ed era solito citare questi due suoi versi:
Cu mitti i pidi n’terra e nunn’è latru
O jè di stuccu o jè di vitru.


mercoledì 20 marzo 2013

Poesia di Ciccio Erbicella


             Ho il piacere di pubblicare sul nostro blog la bella poesia del caro amico Ciccio Erbicella, nostro concittadino, che come in un inno esprime il suo vivo attaccamento alla sua terra, che è anche la nostra.


                VILLAROSA

Ti pregu eternu patri onnipotenti.
Nicuzzi e rranni pregu li santi
d'alluminari a sta povira menti
a ffari'na poesia assai 'mportanti.

Oh! patriarca cchi fussi cuntenti
d'aviri aiutu di vuantri santi;
i sugnu certu e ssicuramenti
ca di sti paroli nni pigliati cunti.

Oh! Villarosa, paisi d'amuri
ccu li to figli tutti di bbon cori,
genti puliti e ddi picca parlari
ca 'nti la societa' cci sanu stari.

Dintra 'na conca fusti fabbricata
e ddi lu signuri fusti binidiciuta;
la prima casa la fici lu dduca
ca ora nun gnie' cchiu' mancu abitata.

Prima ieratu patruna di tanti pirreri
unni li to figli cci ivanu a travagliari,
davatu travagliu puru a lu forestiri
e a ttanti famigli facivatu campari.

Li vidanedda zzappavanu li tirrena,
e nun gneranu ricchi cu li simivana,
la panzaredda sembri l'addubava
e mmurtu di fami mai cci ristava.

Quantu aciduzzi cci vinu a ccantari
bbelli canzuni ca parlanu d'amuri,
si fanu lu nidu ca vunu arristari
ca stu paradisu nun lu vunu lassari.

Ì mi ricurdu quann'era carusu
ca mi curriva ancora lu nasu,
tannu lu paisi nun gnera di lussu
ma i lu vidiva cumu lu paradisu.

Aiu crisciutu 'nti stu bellu iardinu
onestamenti mi cc'iaiu truvatu bbunu,
macarica tanticchia stetti luntanu
'nti lu ma cori iera sembri vicinu.

I cci annasciiu e cci vugliu muriri
e lu signuri m'ava accuntintari,
li ma rradici s'arrazzinaru ccani
e bbugliu ca cca avissiru a siccari.

Scusati amici pratichi di st'arti
si 'nti sta poisia cci su cosi sturti
e nn'antra cosa vi raccumannu sparti
ca li cosi ora si stannu fannu bbrutti.
                   
                    Francesco Erbicella

Cerca nel blog

Lettori fissi

Archivio blog