“U
libru de conti fatti” e altre antiche utilità pratiche
Tanti giovani d’oggi, complici le calcolatrici
elettroniche, vanno sempre più per le vie brevi, spingendo nel dimenticatoio la
plurimillenaria Tavola Pitagorica, che pur rappresentando spesso la bestia nera
per i ragazzini delle scuole elementari, si finiva per impararla per tutta la
vita.
Nella trasmissione televisiva
“L’Eredità”, condotta da Carlo Conti, è spesso argomento di domande la classica
“Tabellina”. In essa eccellono in genere gli attempati concorrenti, mentre
annaspano i più giovani.
Fino a non molti decenni fa erano
pochi quelli che completavano le scuole primarie, gli altri, purtroppo i più
numerosi, non andavano affatto a scuola, rimanendo del tutto analfabeti.
Tanto non accadeva solo ai carusi che andavano a “lezione” dal
picconiere o ai figli di contadini che aiutavano in campagna o a poverissimi
che andavano a garzone ddo curatulu, ma persino a “galantuomini” ai
quali non sarebbero mancate le possibilità di frequentare scuole pubbliche o
private. Da ragazzo con ironia sentivo ripetere ogni tanto la battuta: - Non
firma perché galantuomo. Mi fu spiegato allora che certi ignoranti figli di
papà, dovendo firmare dal notaio un atto e dal momento che si vergognavano di manifestare
di non esserne capaci, ricorrevano a questo sciocco espediente.
I numeri erano più facili ad
impararsi rispetto alle lettere dell’alfabeto e chi si dà al commercio ha una
particolare inclinazione verso i primi. Inoltre da esperienza diretta, nei
tempi in cui insegnavo, notavo che i ragazzi propensi ai giochi di strada, come
ad esempio canniddu, cabissi, carti e
altri simili, erano molto più bravi in matematica rispetti ad altri compagni che
prediligevano la vita in casa ed eccellevano in argomenti tra i più vari e meno
pratici.
Anche
gli antichi “putiara” non se
la cavavano tanto bene con la scrittura, ma in modo peggiore rispetto a loro si trovavano
i clienti, che conoscevano i soldi e sapevano fare i conti spiccioli, ma ad
arrivare a segnare il debito su carta era un arduo problema: era uso comune infatti,
presso la maggioranza degli acquirenti che dipendevano da un misero salario che
si esauriva prima che arrivasse il successivo, di comprare a debito dal
bottegaio di fiducia per le spese strettamente necessarie. Chi conosceva il
minimo di scrittura si faceva segnare il debito “nna libbretta”, un quadernetto di piccolo formato con copertina nera
e lucida, ma quanti non sapevano leggere per nulla, specialmente nei tempi più
antichi come mi raccontava mia nonna, si servivano del trancio di una ferula
(la notissima ferla), spaccata
longitudinalmente: su ciascuna delle due parti interne si incidevano sul tenero
midollo di tale fusto tanti segni particolari differenti, a seconda che si
trattava di debito a lire o a centesimi: mezza ferula rimaneva al commerciante
e l’altra metà corrispondente la portava via il cliente. Al momento di
liquidare il conto si confrontavano, fra compratore e bottegaio, i ‘nsignghi , i segni già incisi.
Per fare conteggi personali, i
volenterosi, che conoscevano i numeri, si servivano do Libbru de cunti fatti:
un piccolo libro stampato in tipografia, almeno quello che ho esaminato io, pur
non avendolo mai usato, che era costituito da un determinato numero di pagine,
in genere fino a 100.
Ogni pagina era dedicata a un numero
e questo poi veniva moltiplicato per ciascun degli altri 100 della stessa
pagina, offrendo il risultato ricercato: ad esempio la pagina 24 conteneva in perfette colonne la
moltiplicazione del numero 24 x 1= 24; poi 24 x 2= 48; 24x3= 72 ecc …. fino a 24x100=2400.
L’ultima pagina, la 100, arrivava a
100 x 100 = 10.000.
Per le moltiplicazioni di numeri
successivi al 100, che era il massimo del “Libro”, si scomponeva il numero che
si voleva esaminare, ad esempio 340 = 100 + 100 + 100 + 40.
Se il 340 si voleva moltiplicare x 25 si operava così: 100x25=2500 poi questo x3=7500;
e in ultimo 40x25=1000. Infine si sommavano questi risultati parziali: 7500+1000=8500,
ed ecco il risultato finale.
Per noi, che
conosciamo la matematica scolastica, questo processo può apparire complicato,
ma per la comune intelligenza d’un povero semianalfabeta era un espediente
pratico che lo faceva risaltare fra la grande massa, del tutto ignorante.
Intanto questo libretto, tanto umile
quanto utile, già a disposizione di commercianti
e famiglie, faceva parte di una scienza esatta, la matematica.
I prossimi mezzi che ora provo a
descrivere invece non possono essere annoverati tra quelli rigorosamente
precisi e infallibili.
Un tempo esistevano altri libretti
utili, come “Il Barba Nera”: era un
almanacco periodico, pubblicato nel mese di settembre d’ogni anno, che forniva
utili informazioni di oroscopo, previsioni del tempo, consigli per la semina e
la coltivazione dei più comuni prodotti agricoli. Offriva inoltre informazioni
relative alle principali fiere, regionali, nazionali e tante altre curiosità
varie. Era insomma un indispensabile strumento per le più varie attività
domestiche e di vita a chi sapeva
leggere o a chi se lo faceva leggere. Era considerato specialmente da tanti anziani
una indispensabile regola del modo di vivere: non ci si può meravigliare tanto,
dal momento che anche oggi sono molte le persone che seguono con altrettanto serio
interesse gli oroscopi.
Insieme a questo c’erano altri
similari, tipo il “Barba Bianca”, offerto
nelle fiere e nei mercati da venditori ambulanti. Ricordo che da ragazzo
sentivo annunciare la vendita d’ambedue gli almanacchi a tale Peppe Biancucci,
maturo villarosano che offriva la sua mercanzia a quanti fra i suoi concittadini,
lo consideravano un vademecum indispensabile.
Accanto al citato Barba Nera era in voga, specialmente in
certe case di agricoltori, un altro libro, scritto da uno studioso di
astrologia, Rutilio Benincasa: era un altro almanacco perpetuo più antico di duecento
anni rispetto al primo. Nel nostro
dialetto era popolarmente chiamato Rriddiliu, dalla storpiatura del
nome del chiaroveggente.
Esso era come un vangelo per un mio
caro amico, venuto meno tanti anni fa, Totò N., che spessissimo mi incitava a
leggerlo, ma tanto più egli era infatuato per quei contenuti misteriosi,
altrettanto io ne ero schivo: da razionalista quale credo di essere non ho mai
voluto conoscere questo genere di notizie,
che finiscono spesso con l’essere recepite come assolute verità e poi all'opposto
possono indurre a grosse cantonate, specialmente nella previsione dell’ antico,
ma sempre vivo, “Gioco del Lotto”. Totò
aveva trovato questo libro in casa e ne era rimasto affascinato, quanto i suoi
predecessori, al punto che quasi lo conosceva a memoria.
U Rriddìliu attraeva tante persone delle più
varie classi sociali e persino uomini di cultura; inoltre è stato uno strumento
che si può considerare un ottimo veicolo culturale per tanti volenterosi
autodidatti che, sulla spinta della sua attrazione, si sono avvicinati alla
lettura e alla lingua italiana.
Chiudo con due piccole accezioni tipicamente nostrane: ogni tanto
sentivo usare da parte dei grandi l’aggettivo dialettale rriddiliu,
quando si alludeva a un ragazzino
troppo irrequieto, che creava un biasimevole scompiglio e rriddiliusu quando si parlava di persona di carattere difficile,
seccante e anche indisponente.
caro prof. al solito i suoi scritti sono sempre interessanti e io li leggo con gusto. Quando ero piccolo io, si andava da Distefano, conosciuto come "Mizzuni",o chianu di Giugnu, e andavo con la libretta, e poi periodicamente mio padre pagava. Un piccolo aneddoto:Quando finiva la libretta e si prendeva quella nuova, la prima voce era: "Libretta lire 10 o 15 , non ricordo bene, ma quello che ricordo benissimo era che questo modo di fare , cioè segnare il costo della libretta FACEVA INNERVOSIRE ENORMEMENTE MIO PADRE, mi diceva: "La vedi questa: NON LO SOPPORTO. l'ALTRA COSA CHE LE DEBBO DIRE è CHE LO VISTA ANCHE I SEGNALI NELLA FERLA, come la chiama LEI, MA IO RICORDO CHE LA CHIAMAVANO "CANNA"..
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
EliminaIn verità in non ho mai sentito parlare di "canna", della "ferla" sì, in special modo da mia nonna che in gioventù aveva avuta la bottega che volle chiudere per non avere a che fare con i tempi che allo scoppio della guerra si prevedevano duri. Ero piccolo nel '40 ma non mi sarebbe sfuggito il particolare della ferla, attento com'ero a tali usanze. Ciao
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