I
sordi hannu l’ali
e
nun si sa unni
si
vann’a pusari
Jabbicu Mirtillu, tornato miracolosamente dalle
trincee del Carso, sognava un vita migliore al suo paese dov’era vissuto da
umile bracciante agricolo. Aveva scoperto, conversando a lungo, nelle interminabili
giornate di trincea, con i commilitoni del Nord, che la loro vita lavorativa
era molto diversa rispetto a quella degli italiani del Sud dove la terra si
rimuoveva ancora con la zappa o con l’aratro tirato da muli o asini.
A Jabbicu sembrava una fiaba l’uso di mezzi meccanici che cominciavano a essere
usati per rivoltare la terra.
Tutto al contrario, nella sua lontana terra del Centro
Sicilia, dove era prevalente l’attività estrattiva dello zolfo, ma erano
pressoché ignorati persino buoi e vacche che avrebbero offerto all’economia
locale, oltre alla carne e al latte, una trazione più vigorosa dell’aratro.
Il povero Jabbicu, al di là di due braccia ancora
valide non possedeva altro, se non l’usurato zappuni, che aveva
bisogno, ogni tanto, di essere portato nno firraru per una
periodica azzariatura.
Fintantoché i meridionali non si furono incontrati, a
pieno tempo, con l’altra Italia, la nostra nuova Patria, per moltissimi, era la Tàlia, smisurata
e sconosciuta. È risaputo che l’incontro fra popoli spesso li rinnova: il
processo è lento, ma inevitabile. Jabbicu avrebbe voluto emigrare al Nord, ma
si sentiva inadeguato a realizzare quel salto culturale, proprio lui che era
analfabeta totale.
Nondimeno, a Villarosa, egli si sentiva personalmente differente
rispetto a quei compaesani che non erano venuti a contatto con l’altro mondo
italico. Egli, ch’ era consapevole di possedere una considerevole prestanza
fisica, avrebbe voluto fare un minimo di salto sociale ed economico; tante
ragazze lo avrebbero gradito, ma per i genitori di quelle, anche se piccoli
proprietari agricoli, Jabbicu era sempre un giornaliero e di conseguenza si
opponevano decisamente all’unione matrimoniale con le figlie. I tempi erano
molto diversi degli attuali: è vero sì che, nei casi di severa intromissione
parentale, erano comuni le fujtine, ma queste avvenivano quando tra
i due giovani c’erano state lunghe intese o chiacchierati contatti sessuali.
Nel rione abitava una ragazza fisicamente ben messa e
di costumi castigatissimi, Maruzza. Era orfana di ambedue i genitori e viveva
con un vecchia zia, a gnura Marì, in un catùju di
proprietà di questa, in via Mazzini, ma senza alcuna risorsa finanziaria se
non quel poco che ricavavano, zia e nipote, da piccoli servizi resi
a famiglie che, di tanto in tanto, se le facevano venire a casa.
L’intesa fu facile a raggiungersi e nel giro di poche
settimane convolarono a nozze. Il trattenimento fu molto parco, secondo l’uso
comunissimo tra le classi povere: ccu cìciri e favi caliati. Un
amico portò l’organetto e si poterono fare quattro salti nel vano terrano della
sorella di Jabbicu, Michilina, che se pur essendo la sua dimora di bracciante,
era un po’ più spazioso.
La somma di tante povertà non creò nessun rilevante
floridezza nella misera casa da zzi Marì. Jabbicu nel
periodo dei lavori agricoli e quando il bel tempo lo permetteva, portava a casa
il sempre misero salario.
Al reduce da terra lontana, la propria cominciava a
stargli stretta, specialmente quando osservava il benessere di quelle famiglie
che avevano i loro uomini negli Stati Uniti. Ma il difficile era trovare le
“cento lire” della ben nota canzone, né aveva una madre che gliele potesse
procurare.
Degli amici suoi alcuni erano rimasti vittima della
grande strage bellica e un paio vivevano ancora alla macchia, quali renitenti
di leva, fin da prima dello scoppio del conflitto mondiale.
Jabbicu spesso non dormiva la notte pensando a come
risolvere il suo serio problema.
Una mattina, a seguito di una notte insonne, cercò un
approccio tramite “un amico degli amici”. Non passò molto ch’egli fu
ricontattato e gli fu indicato il luogo e l’ora del convegno richiesto.
Puntuale all’appuntamento non trovò il vecchio amico
ch’egli attendeva: c’era solamente tra i campi uno sconosciuto contadino che
zappava. Jabbicu, dopo un’attesa che s’era resa snervante, voltò le spalle per
tornare verso il paese, quando lo zappatore, dopo ch’ebbe verificato che in
giro non c’erano altri individui sospetti, lo chiamò e con un allusivo sorriso gli
indicò, questa volta, l’esatto luogo dell’appuntamento.
Gli amici di Jabbicu promisero che l’avrebbero
aiutato, ma intanto chiedevano a lui, che si era esercitato su armi moderne, un
reale sostegno in una lotta tra bande opposte.
Il neo bandito, ancora sconosciuto a Carabinieri e a
bande opposte, fu di grande aiuto in tutte le operazioni in corso; la sua
presenza, riuscì a capovolgere la situazione che rischiava di manifestarsi
catastrofica per i suoi amici, da tempo in crisi.
Il tenore di vita in casa Mirtillo cambiò di molto,
anche se con moderato risalto.
Però, passo dopo passo, senza accorgersene, Jabbicu si
trovò coinvolto in una situazione danarosa, ma deprimente per i profili umani
più intimi.
Il giovane sposo non poté più incontrarsi tanto facilmente
con la sua cara donna. Ogni contatto risultava problematico e rischioso.
Le autorità avevano percepito che il cambio di guida
alla banda aveva rotto gli equilibri generali e nella lotta c’era un forte
accanimento non avvertito prima.
Intanto molti fra amici e nemici intuivano che Jabbicu
aveva bisogno di qualcuno di fiducia e di carattere che
potesse saper custodire, senza dare all'occhio dell' autorità
e delle varie bande, il denaro accumulato, mettendo a
rischio la propria vita e anche quella delle persone care; fra le più intime
era indicata l’ottima Maruzza, ma appariva la meno adatta per il suo carattere
schivo e poco risoluto. Intanto Jabbicu era divenuto il capo di fatto della banda;
gli stessi accoliti si rendevano conto ch’egli con le sue tecniche militari era
divenuto, non solo il detentore del potere, anche quello della finanza della
banda.
Qualche anno dopo, in un conflitto a fuoco con le
forze dell’ordine, Jabbicu Mirtillu, fu ferito ed esalò l’ultimo respiro nelle
mani inesperte dei suoi compagni, che se lo erano trascinato in un luogo
impervio, verso cui gli stessi carabinieri, non ritennero di non addentrarsi
per prudenza.
Quando la ferale notizia si diffuse fra quanti vivevano
alla macchia, il primo pensiero di ognuno fu quello di poter mettere le mani
sul capitale accumulato, della cui entità non trascurabile tutti erano
certi.
Quanti erano persuasi dell’incapacità di Maruzza a
gestire una situazione simile, volsero lo sguardo intorno verso parenti e amici
di Jabbicu. In tutti loro non era rilevabile il minimo segno di un nuovo, sia
pur minimo, incremento.
Nondimeno fu ancora la povera Maruzza che tornava a
essere incalzata, ma quando gli assillanti inquisitori capirono che al dolore
provocato dal grande lutto, non si poteva aggiungere una soffocante e inutile
pressione, la mollarono lasciandola a piangere la sua antica miseria e il
novello dolore.
Infine si dedicarono a cercare il tesoretto tra grotte
e anfratti, ma inutilmente. Col tempo tutti si rassegnarono: avevano capito che
era come cercare un ago in un pagliaio.
Intanto con l’avvento di Mussolini cambiò il quadro
politico siciliano: i “pesci” del calibro dei briganti di questa
terra finirono nella rete del prefetto Mori, tornò una certa tranquillità, ma
poveri come Maruzza e a zzi Mari, non mutarono l’antico tenore di vita.
La sorella di Jabbicu, Michilina, aveva già messo al
mondo i primi figli e altri se ne aspettava, considerata che la giovane era in
piena età fertile. Aveva l’ambizione di dare ai figli un avvenire migliore e
così cominciò a essere più vicina alla Chiesa, sperando di potere avviare
qualche figlio al sacerdozio e realizzare il ben noto proverbio nostrano: Cu
javi un figliu parrinu javi un biddru jardinu.
Michilina, coadiuvata da altre parrocchiane, divenne
molto attiva nella raccolta delle offerte durante la Messa e le Processioni;
aiutava i poveri con modesti interventi economici o con generi di prima
necessità.
A un tratto si apprese in paese la novità che il
bracciante agricolo, marito di Michelina, aveva comprato un piccolo podere
vicino al paese. Da tanto molti malignarono e trassero la
conclusione che non tutte le raccolte devote finivano ai poveri…
Non passò molto tempo ancora, il potere statale si era
maggiormente affermato, quando si seppe che il giornaliero cognato di Jabbicu
aveva acquistato diversi ettari di terra fertile.
Fu a questo punto che si scoprì con ovvio intuito
dov'erano andati a posarsi i sordi di Jabbicu: nei materassi dei due
pezzenti coniugi, che facevano uscire l’umile arfa e vi sistemavano
al suo posto i larghi bigliettoni della moneta d’allora, i c.d. “linzola”,
d’indubbia provenienza illecita.
I banditi intanto si erano di già autodistrutti o
riempivano le carceri e nessuno aveva il potere di dimostrare la provenienza
dei fondi “neri” della religiosa famiglia.
Quand’ero io ragazzo, questi fatti erano avvenuti da
tempo, ma conoscevo Maruzza e a gnura Marì, mie
vicine di casa, quindi seguivo i discorsi dei grandi su queste vicende perché
la loro miseria strideva al confronto con il benessere di Michilina e famiglia.
La donna di Chiesa, che vendeva frumento “d’intrallazzo”, prodotto
in terre che, ormai sicura, andava sempre più comprandosi, non si curò mai di
passare sottobanco un modesto aiuto materiale alla cognata, specialmente nei
durissimi tempi della seconda guerra mondiale e del dopo, quando quella
poverina provò la più nera fame.
Voglio precisare che la mancanza di vacche era dovuto al fatto che villarosa era un paese minerario per eccellenza e gli agricoltori erano rari.
RispondiEliminaPotrà sembrare strano il fatto che a Villarosa non ci fossero vacche e buoi. Ma alla fine degli anni '40 tanto era normale. Ricordo che quando è nato il mio vicino di casa e mio giovane amico Pio C., che ritengo che viva ancora in Palermo, era rimasto senza latte in quanto la madre non ne poteva produrre e tenuto conto che il latte di capra era pesante alla digestione di un neonato, ogni mattina alle 6, il papà, u zzi Liddru C, andava a piedi a comprargli quello di vacca al Ponte Cinque Archi e poi andava al Comune, dove lavorava.
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