LE CASE DEL PASSATO E LA VITA DI RIONE
Le case
del passato differivano notevolmente da quelle d'oggi soprattutto per ampiezza,
suppellettili e servizi igienici.
È preferibile
rifarci alla casa di un determinato periodo: quello degli ultimissimi anni ’20
del secolo che abbiamo lasciato da non molto, come Villarosa si presentava
prima dell’allacciamento all’energia elettrica. Questa fu la più importante e
quasi unica applicazione indirizzata alla casa e a servizio dei suoi abitatori,
tanto che tale innovazione contribuì molto alla trasformazione della realtà
economica e sociale del nostro paese.
La casa
dei nobili (in verità molto pochi in Villarosa), era un palazzo composto da più
piani; ogni stanza aveva alte volte decorate con stucchi dorati e al centro di ciascuna
di esse campeggiava una grande pittura; in alto, adiacenti alle pareti, sempre
dipinti a mano, spiccavano degli ovali con soggetti vari. (1)
Ogni
stanza aveva uno o più caminetti a seconda dell’ampiezza della stessa e
dell’altezza della volta: il personale di servizio ne curava l’alimentazione, l’accensione
e lo spegnimento.
L’illuminazione
era assicurata da grandi lumi dalle più varie fogge e dimensioni, alimentati da
petrolio o da gas acetilene. I primi erano di vetro, grandissimi e decorati a
mano con immagini generalmente floreali; gli altri, più grandi, di lucido rame stavano
appesi alle pareti e funzionavano col principio di quelli, molto più modesti, che
solo in seguito sarebbero stati introdotti in miniera, al posto della tradizionale lumera ad olio.
I
pavimenti erano rivestiti di mattonelle di cotto d'argilla smaltata, ornate da
linee geometriche dipinte a mano e da fiori stilizzati di varia misura al
centro.
La cucina
(detta a papùri, cioè a vapore), era
in muratura e rivestita da mattonelle del tipo di quelle dei pavimenti ma più
piccole; il colore del fondo era celeste, le decorazioni in azzurro.
Generalmente essa riempiva tutta una parete d’una grande stanza e talvolta
continuava oltre l’angolo adiacente; era a più fornelli posti sul piano
orizzontale e con un piccolo forno con apertura frontale in ferro: il tutto
alimentato, secondo le esigenze dell’occasione, con pezzi di legna da ardere (i ziccuna), gusci di mandorle (scorci di mìnnula), sansa delle olive (u nùzzulu).
Sempre
nelle case degli abbienti, i servizi igienici erano situati in ampi camerini e,
nel periodo di riferimento, già esistevano i “water close” (u cessu ‘nghlisi), il lavandino, il
bidet, la vasca da bagno.
Il palazzo
era fornito di acqua corrente e di attacco alla fogna comunale: erano indicati
come impianti pubblici, ma solamente per modo di dire, perché servivano quasi
esclusivamente le case del centro del paese, ove risiedevano nobili e borghesi.
La
borghesia locale era generalmente formata da proprietari di miniera che
miravano ad emulare gli stili di vita dei nobili e ne imitavano le comodità
della casa.
I proprietari
che possedevano terre nel cui sottosuolo si snodavano le gallerie d’estrazione
dello zolfo o altri ancora le cui terre erano diventate improduttive a causa dei
fumi di anidride solforosa, pur non sostenendo spese di conduzione agraria,
ricavavano ugualmente una discreta rendita. A seguito però dell’istituzione
dell’Ente Zolfi e dell'introduzione della Legge che fece passare allo Stato la
proprietà del sottosuolo, costoro entrarono in reale crisi.
La casa dei
proprietari terrieri, se non proprio povera, era alquanto modesta e non
proporzionata al loro reddito perché in questa classe di cittadini vigeva il
principio sanzionato nel detto, Casa
quantu cci capi, tirrenu quantu nni vidi. I risparmi e la rendita erano
indirizzati all’acquisto di nuove terre e mai si pensò di acquistare moderne macchine
agricole, come già avveniva al Nord e in altri Paesi: il costo marginale dell’esuberante
manodopera non spronava a trovare soluzioni moderne più redditizie.
I più
poveri fra i contadini si dividevano in quanti possedevano un mulo o un asino e
quanti dovevano puntare esclusivamente sulla sola propria forza fisica.
I primi, di
notte, vivevano molto spesso nello stesso unico ambiente con la bestia che era
la loro unica risorsa.
Le case dei braccianti e degli zolfatai si rassomigliavano per la povertà
che le accomunava: un monolocale a piano terra, u catuiu (2), con una
sola robusta apertura lignea, divisa orizzontalmente in due sportelli: il
superiore di giorno stava quasi sempre aperto per il ricambio dell’aria e per dare
luce al vano terreno, quello inferiore stava in genere chiuso per impedire l’agevole
accesso in casa ai frequentatori di strada: non per nulla era consueto allora
il detto, Gaddrini e picciriddri càcanu
li casi. L’apertura inferiore in genere presentava un buco circolare, u gattaluru,
a misura del solo animale domestico per eccellenza, l’agile gatto; ma aperto
anche ai nemici cronici di questo, topi e ratti. La presenza del felino nella
casa era assai giustificata dalla copiosità in giro dei suoi nemici naturali,
che infestavano maggiormente le accessibili abitazioni dei poveri.
L’unicità dell’apertura della casa di poveri mi fa sovvenire una
sensazione indirettamente “ereditata” da mio padre, che al tempo del terremoto
di Messina del 1908 aveva appena compiuto un anno, ma per tutta la sua infanzia
e in particolare negli anniversari seguenti ne sentì discorrere tanto. A
Villarosa non c’erano stati crolli vistosi e nemmeno vittime, ma molte furono
le casette costruite in gesso e pietrame, che in conseguenza dei pur leggeri
movimenti tellurici fecero incastrare le porte d’ingresso imprigionando
temporaneamente i dimoranti sorpresi nel profondo sonno. Magari molti non avrebbero
percepito tali scosse giunte da lontano, ma il gran vociare che arrivava dall’esterno
li fece precipitare verso l’uscio che il più delle volte non rispose alla
normale aspettativa d’apertura: lascio immaginare la disperazione dei poveretti
imprigionati e impossibilitati ad avere la piena cognizione della situazione
reale…
Tale stamberga era un vero tugurio dove i suoi dimoranti, per la comune stanchezza di una lunga giornata in faticosa attività, crollavano in un sonno profondo. Era consueta l’espressione di rassegnazione nell’accettare tale miserevole condizione: A ura di bisugnu si curca la matri ccu tutti li figli.
Chi nel
monolocale aveva la possibilità di collocarvi uno scarpisanti, cioè un soppalco dove a stento si poteva stare in
piedi senza far cozzare la testa contro il soffitto, si poteva ritenere più
fortunato, perché lassù vi si potevano sistemare a dormire ammassati i ragazzi
e giù i coniugi potevano trovare un minimo di riservatezza.
In queste
abitazioni non c’erano servizi igienici perché spesso mancavano le fogne: la
poca acqua sporca inutilizzabile si buttava fuori con disinvoltura; uomini e
ragazzi andavano a fare i loro bisogni alla periferia dell’abitato, i bimbi nei
pressi dell’uscio di casa; le donne deponevano gli escrementi in un vaso da
notte, u rrinali, che veniva svuotato
quando si riteneva che tutti i vicini dormissero, cercando di dar loro meno
disturbo possibile: molto spesso però si finiva con l’incrociarsi nel medesimo sgradevole
servizio.
D’acqua
corrente manco a parlarne: le donne di casa andavano alla fontanella (cannulu o cannuliddu) con secchi e
brocche (i quartari). La poca acqua
di queste serviva per bere, lavarsi alla meglio nno vacili e mittiri a
pignata. (A tal proposito mi affiora alla memoria il ritorno a casa in tarda
serata dopo una festa in casa di miei zii, ai tempi della mia primissima
giovinezza. Lungo la via Butera, dalla parte do cannulu do Chianu di Giugno, sentivamo, nel silenzio della tarda
ora, un forte scroscio d'acqua che si versava. Papà arguì che qualcuno avesse
lasciato il rubinetto aperto con conseguente spreco d'acqua; si distaccò da noi
per compiere il dovere di cittadino, ma lo vedemmo tornare subito, senza essere
nemmeno arrivato alla fontanella. Ci spiegò lì per lì: a gnura Luguìgia l'urbiceddra, approfittando dell'ora tarda e della
rara assenza di presenze umane nella piazza, stava eseguendo una profonda
abluzione. La poveretta vecchia e cieca, col viso deturpato dagli ultimi casi
di vaiolo di fine ‘800, viveva sola al mondo e in assoluta miseria; tuttavia trovava
il tempo per curare la pulizia personale, più di quanto avrebbero potuto fare
certe altre persone favorite più di lei dalla sorte).
Erano poche le masserizie della casa dei
poveri: a cascia, u stipu, a buffetta, u
vanchitiddu, i seggi mmpagliati di zabara, a quadara affumata, u ddaganu di
crita, i litti ccu matarazza d’arfa su cui spesso giacevano genitori e
piccoli; a naca, l’amaca, fissata con
grossi chiodi nelle due pareti formanti l’angolo: con una cordicella che
pendeva fino al letto dei genitori e di
qui azionarla ppi annacari u picciriddu
ca nun voli dòrmiri,…
La cucina,
chiamarla così è un'esagerazione, era per tutti u fucularu o con termine più antico a tannùra (3), composta
da due grosse pietre piatte di sopra, fra le quali si accendeva il fuoco e
sopra vi si poneva la pentola, a pignata.
I poveri non possedevano ramagli o
ziccuna, così per tutta l'estate raccoglievano le stoppie di grano (ristucci) ma poi quando queste erano
travolte dalla successiva semina, raccoglievano in giro tutto quello che
trovavano, purché atto a prendere fuoco. In queste case mancava a maiddra e u maiddruni, perché, nelle
quantità minime consentite, i poveri e i giornalieri il pane lo compravano
giorno dopo giorno nella bottega, a putìa.
Il pane era impastato solamente nelle case degli abbienti: i coltivatori
diretti e quanti avevano la possibilità di comprare in estate tutto il grano
della cosiddetta mangia che sarebbe
bastata fino al successivo raccolto.
Alle
pareti stavano attaccate immaginette di santi lucidate a nero dai fumi del
focolare e dall’umido vapore; nella parte interna della porta, in ingenua contiguità
col sacro, erano appesi vecchi ferri di cavallo, corni rossi e santini delle
varie ricorrenze dell’anno.
Nugoli di
mosche durante il giorno spadroneggiavano in casa e fuori e le stesse la notte
riposavano su oggetti pendenti lontani dal passaggio delle persone. Durante il
riposo notturno sempre tali insetti deponevano i loro bisognini, formati da
puntini piccolissimi oscuri che seccavano immediatamente per la esiguità della
materia espulsa, i cacati de’ muschi.
Di giorno
la stamberga era generalmente abitata dalla donna di casa che sbrigava le
faccende alla buona per la pochezza della disponibilità d’acqua; scorrazzavano
fuori i bimbi, forse di già ben consapevoli che fra qualche anno sarebbero stati
destinati ai lavori di miniera, della campagna, a far pascere pecore o capre.
La strada, quando i rapporti fra i vicini
erano buoni, era un’agorà
nel senso classico del termine,
dove la casa s'allargava all'esterno, al sole d’inverno e all’ombra d’estate.
Lì si
discuteva, ci si scambiava esperienze di vita, si chiedevano consigli a chi ne
sapeva di più e, ovviamente, vi trovava posto anche la classica intramontabile
maldicenza, secondo il detto nostrano: Ùmini
all’antu e fìmmini o suli: liberàtini Signuri!
Nelle
serate estive la coralità era più intensa perché ai personaggi diurni si
aggiungevano anche qualche marito, ragazzi e giovinette; si scherzava e si scaccaniava a cuor leggero. Mi risuona
ancora negli orecchi il tipico vibrante scàccanu
della signora Luigina C. che teneva vive le serate di buona parte della via
Mazzini e delle abitazioni limitrofe, dalla tarda primavera all’autunno
avanzato: il suo trasferimento a Roma nel secondo dopoguerra "mutilò"
la gioia e la vivacità del quartiere.
Nelle
lunghe serate invernali ci si riuniva, portando ciascuno la propria sedia, in
casa di chi aveva qualche mozzicone di candela, una lampada ad acetilene ancora
carica di carburo in fase d’esaurimento, o una lumera con qualche goccia residua di feccia d’olio. Se poi c’era
solo qualche scaldino, tanginu, con
scarso fuoco di paglia, ciò aveva poca importanza: poco dopo l’assembramento
umano riscaldava l’ambiente nel senso letterale e in quello umano. Si chiacchierava
del più e del meno, si recitava il Rosario, poi a richiesta dei piccoli, si cuntàvanu cunti di orchi terribili e
cattivissimi, sbaragliati dall’eroe unico, che in Villarosa d’obbligo doveva
chiamarsi Pippinu.(4)
____________________________________________
(1) L’ultimo pittore-artigiano che si distanziava dai comuni imbianchini,
fu tale don Eugeniu, che non potei
conoscere per ragioni anagrafiche e di cui, quand’ero bambino, sentivo ancora
esaltarne dagli anziani le doti pittoriche.
(2) La parola
del nostro dialetto è ripresa di peso dal greco antico.
(3) Tale parola, completata in tannùra
di ‘nfirnu o tizzuni d’infirnu, spiega il detto dialettale per indicare
persona cattiva e diabolica, con l’allusione al fuoco perenne, secondo com’ è
rappresentato dall’iconografia cristiana.
(4) Non per
niente Pè, Jà e Calò sunu tutti di
Bellarrò.
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