LA
VITA PER UN FICO SECCO
La storia che segue è autentica anche se rimane ignoto il
nome della povera vittima.
Raccoglitrice del racconto originale fu mia madre che da
ragazzina lo sentì rivivere personalmente dalla viva voce del protagonista sopravvissuto, rilevandolo con duplice
diretta commozione.
Ella poverina era particolarmente sensibile ai quei tristi
problemi minerari dal momento che non poté provare la ordinaria evenienza di ricevere una
carezza dal proprio padre, anch'egli vittima estrema dell’ angosciante lavoro
della miniera, proprio nello stesso
giorno in cui ella veniva al mondo, in
una imprecisabile delirante data dell’ottobre del 1913: mio nonno, nella
qualità di meccanico fresatore, si sentiva al sicuro dal rischio di una
disgrazia nel cuore della terra perché il suo era un lavoro che si svolgeva in
superficie: ma quando la sorte crudele ci mette lo zampino non c'è logica che tiene.
Sono anni che io vorrei raccontare quella tremenda tragedia
familiare, ma non ho trovato mai, più che il coraggio, la forza di riportare alla memoria questo centenario di già compiutosi
oltre due anni fa. Dopo questa triste storia
che mi accingo a far conoscere, in cui il protagonista materiale è un
fico secco, forse avrò profonda disposizione d'animo a riportare a conoscenza
delle giovani generazioni questa nostra intima pur remota tristezza, frequente nel
passato in molte famiglie nostrane.
Fece da padre a mia mamma l’anziano zio di sua madre, don Calò Casale.
Un altro Calogero, compare di questi, fu il miracolato del
fico secco, che di tanto in tanto rievocava la nota triste della propria fortuna
che pose al suo posto un innocente a “scacciarisi”
sotto una valanga di minerale, smottato proprio nell’istante in cui stava per
riempire u stirraturi.
Quando la mia mamma seguì con commozione la triste vicenda
del narrante, che lei chiamava pure zio come avveniva con tutti gli amici
maturi di famiglia, non poteva immaginare che lo stesso, fortemente toccato
dalla tragedia, nel tempo a venire sarebbe
divenuto quasi suo parente: era di già padre
del proprio futuro cognato, Arcangelo Profeta, che successivamente avrebbe sposato
Vincenzina Corbo, sorella di mio padre, i cui figli, tranne il caro Lillo, non
più tra noi, sono in Villarosa.
U zzi
Calò Profeta ogni tanto era colto da una grande tristezza pensando
al suo sfortunato compagno di carusato e
si commuoveva per quel tragico indelebile ricordo di primissima gioventù.
La stragrande maggioranza dei ragazzini dei centri
minerari, compreso il nostro, per impellenti bisogni familiari erano costretti
a scendere giù nelle viscere della terra alle dirette dipendenze di un pirriaturi; questi era un maturo
zolfataio che scippava a colpi di
piccone e paletto dal profondo della terra le rocce venate di zolfo; l' incombenza
di portare alla luce del giorno il minerale era affidata a carusi che cco stirraturi n' cuddru
lo scaricavano nno carcaruni, per farsi sì che ne venisse estratto
col fuoco il biondo elemento.
Talvolta questi ragazzini per incombenti necessità di
famiglia come la morte o invalidità del padre, una numerosa presenza al femminile, erano dati “a
soccorso morto” a un pirriaturi o a
un capomastro: questi consegnava un certa somma ai familiari e teneva alle sue
dipendenze il caruso per un lavoro che si protraeva fintanto che non gli venisse
restituita la somma anticipata; tale figura giuridica corrispondeva al tipico" godi e godi" di beni immobili contro
una somma data in prestito. Avveniva molto raramente che la somma venisse
restituita: esemplare resta il caso descritto nel mio post, “L’ultimo schiavo
di Villarosa”.
Questi poveri ragazzi,
malnutriti e d’inverno tormentati dal freddo e dai frequenti geloni (i rùsuli), oggi rarissimi, s’alzavano
prima dell’alba per recarsi al passaggio del loro capo e avviarsi per vari
chilometri verso la miniera. Arrivati lì, ognuno riprendeva il proprio stirraturi e scendeva giù nel cuore
della terra, alla fioca luce di una misera lumera
ad olio; unici loro gratuiti conforti, offerti
dalla natura, erano quelli che d'inverno laggiù non trovavano il terribile gelo e d'estate si
risparmiavano la soffocante afa dell’esterno, potendosi liberare d'ogni
indumento, dal momento che erano tutti lavoratori di sesso maschile.
Ogni lavoratore, grande
o piccolo, portava con sé un pezzo di pane ppi pigliarisi un mizzicuni nella breve sosta di mezzogiorno. Anche
u
carusu nella piccola saccoccia di consunta tela teneva u bummuliddru chinu d’acqua chiusu
cco stuppagliu di ferla e un pezzetto di pane spesso raffermo, raramente
accompagnato da un frutto, sia pure un po' marcio o ancora acerbo.
La mattina del tragico destino il giovanissimo Caluzzo
Profeta accompagnava il solito tozzetto di pane con due fichi secchi di quelli che, spaccati e lasciati asciugare al
sole d'estate erano poi infilzati in due stecche di canna: erano un residuo del modesto Natale appena
trascorso. Il ragazzo masticava il mozzicone di pane accompagnandolo con un
piccolo morso dato al fico secco; ogni tanto aiutava a far calare il bolo con una bevutina d'acqua do bummuliddru. Durante uno di questi
sorsetti i suoi occhi s'incrociarono con quelli pietosi del suo compagno di
malasorte, che già prima aveva mostrato segni d'interesse goloso verso il frutto
essiccato.
Caluzzo intuì il motivo di tanta tristezza perché non ci voleva tanto per capire che la
gola gli faceva nnicchinnicchi, ma
non si sentiva di essere generoso al punto di offrirgli l'altro fico secco
ancora intatto. Quando il voglioso ragazzo capì che il suo compagno non era
per niente ben disposto a un gesto benefico, volle provare a ottenere quanto
fervidamente desiderava con un'offerta assai invogliante, proponendogli di compiere
lui il prossimo viaggio cco stirraturi al posto di Caluzzo, a cui toccava d'obbligo.
A questi, come si suol dire, "cci spunnà
a bruccetta" e piacevolmente accettò la proposta.
Poco dopo, appena ebbero terminato il magro spuntino, quel
giorno coronato dal dolce fico, Caluzzo si distese a terra per assaporare
quell'imprevisto relax e il compagno,
ugualmente soddisfatto per essersi fatta la bocca dolce col frutto tanto desiderato,
s'avviò a riempire u stirraturi, per
portare a termine l'impegno che s'era assunto.
La bieca malasorte sogghignava silenziosamente perché era a
conoscenza che la sotterranea frana era in agguato, tant'è che all'improvviso
sommerse il povero ragazzo, colpendolo dritto al capo.
Lascio immaginare ai lettori l'unanime disperazione nell'immediato
crollo omicida e quella, ancora più straziante, di qualche ora dopo, nell'umile
stamberga della vittima.
Il giovanissimo Caluzzo Profeta, testimone diretto della
tragedia, trascinò per tutta l'esistenza il rimorso e, contemporaneamente, l'egoistico
appagamento d'essersi involontariamente sottratto alla penosa fine a lui
rivolta.
****************
Questa era l'esistenza, dura e spesso tragica, dei numerosi
poveracci che vivevano su questo nostro territorio il più vile sfruttamento
dell'uomo sull'uomo.
L'inumano egoismo di quanti potevano alleviare tali
sofferenze specialmente ai giovanissimi sfruttati al massimo, predominava alto
e potente.
La politica era assente e chiudeva orecchie e cuore per non
dispiacere agli egoisti fruitori del frutto di tanta ingiustizia e sostenevano
che se avessero alzato il compenso dei miseri operai e dei carusi, avrebbero potuto "chiudiri
putia".
I politici d'opposizione erano più propensi rispetto a
quelli di governo a mettere a nudo la questione del carusato.
I deputati di destra Franchetti e Sonnino vollero prendere
di petto la cosiddetta Questione Meridionale, scesero anche nella nostra
lontana terra, trattando il problema del carusato nell'ultimo capitolo della
loro inchiesta, "La Sicilia nel 1876". La loro voce rimase sterile, un
altro grido nel deserto: persino i familiari dei poveri ragazzi, non trovando
altri approdi di lavoro, si accontentavano del misero guadagno piuttosto che
morire di fame.
Rimaneva, ovviamente inascoltata, la cocente, ma solamente verbale, protesta dei poeti dialettali siciliani, fra i quali il villarosano Vincenzo De Simone e il noto bagheriota Ignazio Buttitta: toccavano i cuori di quanti nulla potevano fare, ma non i crudi egoismi dei fruitori dei tangibili tornaconti.
Un altro tuo racconto che mi riporta a fatti,ricordi e persone di quando ero bambino, grazie Tino!
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