sabato 18 ottobre 2014

U VUDDRU


Curioso come tanti bambini e stimolato dall’esperienza che avevo raccolto sulla strada con i granelli residui di carburo di calcio buttati in strada dagli zolfatai nell’atto di preparare le lampade ad acetilene per l’alba del giorno dopo, il sentir parlare do vuddru nella campagna darrì a Cruci, stuzzicava fortemente in me il desiderio di approfondire tale fenomeno, per me misterioso.
Intanto, mentre vagheggiavo questa vecchia voglia, contemporaneamente ero combattuto da un forte contrasto, avvertivo in me un cori d’asinu e un cori di liuni, per via di una esperienza negativa che da qualche tempo tenevo inconfessata, soprattutto ai miei genitori.
Io e miei amichetti da lungo periodo eravamo soliti a mettere le dita fra la materia umidiccia grigio-chiara di scarto delle lampade di miniera per raccogliere qualche piccolissimo granulo di “petra citalena” non consumata. La raccoglievamo in una fossetta sulla strada, vi versavamo un po’ d’acqua e alla fine coprivamo il tutto “ccu na pignatedda” rovesciata, alla quale avevamo prima praticato con un chiodo un forellino al centro del fondo. Avvicinavamo “un pòsparu addrumato” e godevamo del nostro modesto esperimento che ci dava solamente la soddisfazione morale, e nulla più, d’essere riusciti a imitare una forma semplice e rustica “di citalena”.
Durante uno di questi tentativi qualcosa andò storto e al posto della solita fiammella venne fuori un’inattesa vampata che mandò furiosamente in aria il barattolo che, per fortuna, sfiorò solamente i nostri visi, molto concentrati nell’esito già sperimentato, che stavolta risultò assai più preoccupante di quanto ci attendevamo.
Io avevo già prima sognato di poter ripetere la prova con le bolle di gas che scaturivano dalla massa melmosa di cui avevo sentito parlare, ma quando mio padre mi annunciò che il mattino dopo Pino Gurrieri, che dovendo passare da quelle parti, mi avrebbe finalmente fatto conoscere u vuddru, quasi rabbrividii e giurai tacitamente con me stesso che non avrei minimamente pensato a portare fiammiferi con me.
Il tanto decantato vuddru non corrispose però alle mie attese; mi aspettavo qualcosa di più imponente, tuttavia stuzzicò abbastanza la mia aspettativa perché da quel momento iniziò l’infantile osservazione scientifica, chiedendo maggiori ragguagli a quanti potevano offrirmi qualche elementare risposta.
Anni dopo, studente a Caltanissetta e quindi scolasticamente addentrato nello studio di scienze e fisica, volli riesaminare l’analogo fenomeno di Terrapelata, che risultò solamente un po’ più consistente del nostro, ma non tale da stuzzicare ulteriormente le mie ricerche, anche perché appresi, in quell’occasione, che esistevano fenomeni analoghi in Sicilia, ben più apprezzabili dei due da me già visitati.
Il fenomeno è indicato col termine “maccaluba” dalla parola d’origine araba, maqlùb, che in quella lingua vuol dire “rivoltato”, come la massa limacciosa, lanciata in alto e quindi ricadente in basso. Questo misto di sostanze non è formata solamente di terreno e acqua, ma anche di gas, come l’idrogeno, e di liquidi, quale il petrolio, tutti altamente incendiari, che talvolta prendendo fuoco si rendono assai più pericolosi della semplice mole melmosa.
Queste giovanili ricerche erano rimaste da gran tempo interrate in “faldoni” zeppi di pensieri e di ricordi nel mio cervello, quando la recente tragedia della Riserva naturale di Aragona, nell’agrigentino, mi ha riportato indietro nel tempo e mi ha fatto rivivere, nel piccolo, lo scoppio del barattolo che, per buona sorte, ci aveva solamente rasentato.
Il primo sabato d’autunno di quest’anno, due bimbi, accompagnati dal padre, erano andati a visitare la maccaluba di Aragona. Il grandicello dei due, circa della mia stessa età del tempo in cui bramavo di vedere il nostro vuddru, quello stesso giorno compiva nove anni e forse la gita faceva parte anche del regalo di compleanno.
Il mese precedente erano state interdette le visite alla località per prevenire qualche tragedia, dal momento che il ribollente suolo aveva ostentato segni poco rassicuranti. Visto però che nel frattempo nulla di grave era successo, lasciarono affisso il cartello di pericolo, ma come di solito accade, lasciarono passare ugualmente quanti erano interessati al fenomeno.
È tutto italiano il ragionamento, antico quanto il nostro clima intellettuale, quello di affidarci ottimisticamente al nostro “stellone”: in questa terra di per sé e povera d’iniziative industriali non priviamoci almeno del poco che la natura ci offre… E che Dio ci aiuti.
Quando la tragedia colpisce qualcuno, o ripetutamente una zona vasta come Genova e tante località a forte rischio, si è soliti accusare sempre la Fatalità, l’irreperibile dea che residenza non ha! Si cominciano a cercare gli imprudenti responsabili, ma alla fine non si riesce mai a trovarne uno, partendo dall’elasticità tipica delle nostre leggi. Per questo, con serena filosofia, dalle nostre parti si dice: amara cu mori, ca cu campa si marita.
Era “destino” che quella mattina, all’improvviso e senza dare segni di emergenza un mastodontico spruzzo di fango, misto a tanti altri gas, alto circa 20 metri, ribaltò dalla sua sede e nel ricadere seppellì i tre innocenti familiari.

Solo il padre, aiutato dai primi soccorritori, ebbe la fortuna di emergere col busto dalla nauseabonda e pesantissima melma, ma dei due bimbi nessuno ne uscì vivo.

venerdì 10 ottobre 2014

“LU NIDU ANTICU DI TUTTI LI ZANNI”

               Con questo endecasillabo tratto dal suo sonetto “Lu me paisi”, Vincenzo De Simone, il più nostro importante poeta dialettale, sintetizza la composizione particolarmente varia della nostra comunità, che resta ancora una delle più recenti create in Sicilia.

              Ritengo che il termine “zanni” sia ancora a conoscenza dei nostri concittadini più giovani: infatti, qui da noi, così sono denominati gli zingari, che non hanno una residenza fissa e vivono d’espedienti vari muovendosi da una località all’ altra per l’Europa e non solo. I nostri nonni “zingari” in questo senso non lo furono, ma dei migranti sì: erano persone intraprendenti che affrontavano l’ignoto con mezzi di fortuna, con la speranza di trovare un lavoro che offrisse loro l’indispensabile per sostentare, pur in modo frugale, la propria famiglia.

              La collettività villarosana in poco più di 250 anni di vita ebbe la sorte di due immigrazioni considerevoli e di diversissima natura. Non è mia intenzione di rifare la storia, anche se breve, di Villarosa, perché altri l’hanno elaborata prima di me, servendosi di fonti più recenti rispetto a quelli di più antiche città.

           Com’è noto fu merito della famiglia Notarbartolo l’aver dato maggior valore a  un vasto territorio, destinato a modestissimo e  poco redditizio pascolo, trasformandolo in coltura  di frumento, prodotto ben più apprezzato in quel tempo. È noto che la pastorizia si avvale di poche braccia lavorative a differenza della coltura granaria che si serve di più unità umane, di animali da soma e da traino, senza ovviamente ignorare del tutto quelli tipici da pascolo.

        I citati Duchi avevano intelligentemente calcolato che affidare in enfiteusi un feudo scarsamente remunerativo a tante famiglie di agricoltori e facendo loro pagare un modestissimo canone, comunemente indicato dal popolo come ‘ncinsu, avrebbe reso a loro molto di più del tradizionale pascolo. Così servendosi di un vànniu (1), fatto circolare per buona parte della Sicilia, i Notarbartolo fecero accorrere nel loro territorio un discreta quantità di valida gente, fortemente intenzionata a lavorare sodo per sopravvivere decorosamente insieme alla propria famiglia.

      Ovviamente i più numerosi tra quanti affluirono risultarono quelli dei paesi più vicini, con San Cataldo in testa, seguito da altri  in minor numero dai paesi delle Madonie. I primissimi arrivati si contavano a decine, da come risulta dai vecchi registri parrocchiali del tempo.

         Decennio dopo decennio le poche anime divennero qualche centinaio, ma di sicuro non avrebbero forse mai raggiunto la considerevole popolazione del 1861, quando Villarosa arrivò a contare circa 18.000 abitanti, se non fosse “esploso” il fenomeno “zolfo”, richiesto dai paesi industrializzati d’Europa, perché essenziale alla produzione di svariati nuovi prodotti utili principalmente agli eventi bellici e anche all’agricoltura, alla chimica e alla medicina.
Non ci fu più bisogno stavolta di nessun vànniu, a migliaia si precipitarono i nuovi immigrati, ovviamente non solo in Villarosa, ma nella fascia mineraria dell’agrigentino e del nisseno, dove di anno in anno aumentava il numero di nuove miniere attive.

             Quelli erano tempi in cui la documentazione scritta delle generalità dei cittadini era molto rara e avevano talvolta più valore i certificati parrocchiali. In tanti casi i nuovi arrivati, per ragioni personali, finivano col dare per cognome il loro luogo d’origine. Ecco perché sono molto diffusi cognomi come Trapani, Palermo, Messina, Terranova (dal precedente nome di Gela), Àsaro (da Assoro),  Castrogiovanni (dall’ex nome di Enna), Ragusa, Piazza, Daidone, Gagliano, Calascibetta, Nicosia, ecc…

         Durante la mia infanzia e la prima giovinezza, le persone in Villarosa era indicate, a parte i comunissimi soprannomi o ‘ngiulii, col nome del paese della più recente origine: a impurtisa, u catrinaru,  l’arminisa, a ballafranchisa, u favarisi, a rrijsana, u chiazzisi, T. a carrapipana, u camastrisi, e tantissimi altri.

              La mia famiglia paterna era originaria di Delia, quella materna, più lontanamente nel tempo, di Petralia. Parlando con amici e si entrava nell’argomento ognuno dichiarava con naturalezza la pur lontana non dimenticata origine. Curioso sempre di sapere di più, quando mi capitava, chiedevo a tanti di dove fosse originaria la loro famiglia. Non mi capitò mai qualcuno che non sapesse indicare la sua antica provenienza. Da ciò io ne traevo la chiara conclusione che il nostro era un paese d’immigrati bene inseriti nel nuovo ambiente: non per niente si dice ancora che “Villarosa protegge i forestieri”.

           Spesso mi chiedevo e ancor mi chiedo: quanti abitanti conterebbe Villarosa se gli immigrati non avessero ripreso l’esodo per i più svariati paesi della Terra?

         Tanti erano accorsi a Villarosa in cerca di lavoro, prima sulla terra da dissodare e poi nelle più pericolose visceri del suo sottosuolo, ma quando la richiesta internazionale dell’elemento zolfo  entrava in crisi, il villarosano riprendeva la via della ricerca d’altro lavoro anche oltre oceano, portando però, sempre in cuore, l’ultima residenza da dove proveniva e trasmetteva a figli e nipoti l’indimenticabile Sicilia con dentro, al centro, la sempre amata Villarosa. Voglio citare un solo esempio, senza disprezzare tutti gli altri, quello della signora che sul sito dei villarosani si firma “Chianu Di Giugnu”: ci ha fatto conoscere modi di dire e poesie popolari che io, nato e cresciuto qui, non avevo mai sentito.

            Vincenzo De Simone  stesso fu un emigrato della nuova serie perché scelse Milano per esercitare la professione di dentista. Egli portò nel suo cuore vivo il ricordo della sua “Bellarrosa”, tanto che la sua casa fu il luogo d’incontro di villarosani che vivevano nel capoluogo lombardo. La sua sicilianità doveva essere molto nota in quella città tanto che negli anni ’50, a circa un quindicennio dalla sua morte, la rivista scolastica “L’Educatore Italiano”, edita dai Fratelli Fabbri, inseriva, nella parte centrale delle sole copie dirette in Sicilia,  due fogli d’altro colore che parlavano d’argomenti della nostra Isola e come poesie riportava esclusivamente quelle del nostro poeta, milanese d’adozione e sempre villarosano nell’anima.
Nel terzo millennio Villarosa, che di abitanti nel 1861 arrivò a contarne circa 18.000, oggi non arriva nemmeno a 6.000.

           Lo zolfo la portò ai valori più alti e la sua crisi la condusse all’attuale svuotamento. Nei tempi d’oro del nostro paese la Sicilia era quasi l’unica produttrice del biondo elemento, ma quando gli americani riuscirono col metodo Frash a trarlo dal sottosuolo senza bisogno di scenderci personalmente giù, la recessione divenne irreversibile.

         I nostri “zanni” necessariamente hanno lasciato l’amata terra arrivando fino ai confini del mondo: Argentina, U.S.A., Brasile, Canada, Australia e la più vicina Europa. Nella crisi del dopoguerra i meridionali con i villarosani in testa, accettarono in Belgio il lavoro nelle miniere di carbone, rifiutato dai suoi abitanti, in un sottosuolo più perfido di quello siciliano per silicosi e crolli sempre in agguato.

         Oggi i nostri concittadini di lassù si sentono pure loro europei, ma con Villarosa sempre nel cuore.
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(1)              Provando a ritornare indietro con la mente ai tempi del ‘700, forse riusciamo a capire che saper leggere e scrivere era la specialità esclusiva di sacerdoti, notai e pochi altri intellettuali presenti in ogni comunità. Per far conoscere una notizia al popolo si incaricava qualcuno, noto in paese, che girando di strada in strada diffondeva a viva e alta voce la notizia che poteva interessare e che tantissima gente non sarebbe stata in grado di leggere su un manifesto. In tal modo i disperati in cerca di lavoro appresero che nel feudo dei Notarbartolo si davano terre a coltivare dietro il pagamento annuo do ‘ncinsu
Quand’ero ragazzo girava per le strade del paese un vanniaturi che dava qualche notizia importante, ma per lo più delle volte, gridava ad esempio: -Cu à truvaaatu na craaapa… ca s’à piiirsu? O qualche altro annuncio simile. Un altro esempio: i più vecchi dei tempi della mia giovinezza chiamavano ancora vannii le pubblicazioni di matrimonio che venivano affisse in chiesa e al municipio.

venerdì 3 ottobre 2014

“MANCU SI MI SCACCIU”


Scacciàrisi è un termine dialettale tipico di Villarosa e della zona zolfifera della fascia centromeridionale dell’Isola.


Scacciàrisi era la più grande disgrazia che potesse capitare non soltanto al lavoratore della miniera che perdeva la vita, ma a tutta la sua famiglia che da oggi a domani veniva a trovarsi, non solamente senza il proprio caro, ma anche senza il magro salario che egli portava a casa il sabato sera. 


Com’è risaputo non esisteva a quel tempo nessuna forma d’assistenza pensionistica o di sussidio alla famiglia che finiva nella più estrema delle miserie materiali. Solo nel 1903 in Villarosa i lavoratori delle miniere per lenire almeno al minimo la miseria più nera, di loro esclusiva iniziativa e interamente a spese proprie, cercarono di darsi una timida mossa di solidarietà, creando la “Lega di Miglioramento tra Operi e Zolfatai”. Contribuivano gli stessi dipendenti col pagamento mensile di mezza lira se operaio e 25 cent. se “caruso”. Ben poca cosa, perché né Stato né Comune partecipavano con fondi aggiuntivi. Tanto era solamente una goccia d’acqua nel deserto.

La conseguenza pratica era quella che i figlioletti che superavano i sei anni venivano affidati a un pirriaturi che lo portava con sé nelle viscere della terra a caricarsi, sulle spallucce deboli di un malnutrito, uno stirraturi pieno di frammenti di roccia venata di tracce di zolfo; invece le femminucce andavano a criata, presso una famiglia facoltosa: in tal modo gli orfanelli si scuttavano quel pezzetto di pane, essenziale alla sopravvivenza propria, senza in tal modo sottrarre il tozzetto di pane alla stentatissima economia familiare.

L’espressione che titola questo post, nata nel mondo della miniera, era comune ed era usata anche in casi in cui non la riguardavano per nulla, per puntualizzare che una certa azione non si voleva compiere, in modo assoluto.

Si faceva calzare persino spropositatamente in solenni giuramenti come quello arcinoto spesso sulla bocca di un anziano che ad ogni occasione se ne usciva con l’espressione: Sull’anuri di ma figlia Marì… scacciarisi ma figliù Jachinu sutta na valata… e via di seguito. Non ebbi modo di conoscere il roboante e famoso giurante appena citato, ma per decenni sentii ripetere, insieme a nome e ngiulia, la sua inusuale e poco consolante battuta: per questo motivo non cito i veri nomi dei poveri figli messi al bando dal genitore e per non far vergognare ancor oggi i numerosi nipoti, nostri concittadini, di essere discendenti di cotanto loquace avo.

L’esempio che segue chiarisce meglio il concetto, ma in ogni caso è fuor di dubbio che quanti proferivano l’espressione senz’altro in gioventù conobbero il duro lavoro “da pirrera”.

Quand’ero bambino, capitava a mio padre di citare un’espressione che tempo prima gli era stata riferita dal suo fratellino Peppino che, per la sua vivace attrattiva, era quasi ogni anno chiamato a sostenere la parte di Gesù Bambino nelle “Tavolate di San Giuseppe”, che tradizionalmente erano imbandite presso facoltose famiglie, inderogabilmente ogni 19 marzo.

La tavula di San Gisé voleva rievocare la mensa della Sacra Famiglia di Nazareth, ma coloro che la imbandivano dimenticavano di realizzare il contesto storico dell’antica casa del Cristo, e la rievocazione era arricchita d’ogni primizia alimentare che veniva fatta arrivare in genere dalla Piana di Catania, i cui prodotti erano più precoci rispetto a quelli del nostro paese, ove in genere maturavano a maggio.

Cerchiamo ora d’immaginarci per un po’ tutti i visitatori, che spesso non avevano in casa l’essenziale alla sopravvivenza, nel momento in cui assistevano solo con gli occhi a tutto quel ben di Dio, sciorinato sull’amplissima tavolata.

La figura principale della “Tavulata” era ovviamente quella di San Giuseppe, rappresentato sempre da uno dei vecchietti più bisognosi del quartiere.

In quel giorno il poveretto avrebbe sicuramente desiderato che la sua pancia diventasse bisaccia, quasi a poter creare una piccola riserva per i giorni successivi, ma ovviamente tanto poteva avvenire entro un certo margine. (1)

I visitatori, curiosi di esaminare le varietà poco note e fuori stagione dei cibi imbanditi sulla straordinaria tavola, e forse un po’ desiderosi, ovviamente solo per quel momento, di trovarsi nei panni dell’anziano, invitavano il vecchietto, San Giuseppe per l’occasione, dicendogli a ripetizione:

- Mangiati San Gisè!

Poverino voleva far contenti tutti ma in ogni situazione c’è sempre un limite. 

E tutti a ripetere ancora: - Mangiati San Gisè!

Quando non poté in assoluto far contenti tutti, cominciò a reiterare a ogni invito la solita tiritera: 

- Mancu si mi scacciu……Mancu si mi scacciu …

L’espressione esisteva già, era un modo di dire molto comune, ma questa situazione, pur nella sua banalità, l’ha resa più ricorrente.

I tempi sono cambiati, lo zolfo non si estrae più, ma esso fu per quasi due secoli un momento fortunato per l’economia della nostra terra, ma nello stesso tempo altamente tragico per quanti vi lasciarono la vita o gli arti.

Spero di poter tornare sull’argomento e in special modo alla drammaticità dei tempi e delle situazioni.

Auspico ancora che gli eventi sempre più minacciosi in atto in molti paesi del mondo non facciano precipitare eventi che conducano alle atrocità di una sempre più temuta Terza Guerra Mondiale, sicuramente più terribile assai di quanto abbiamo potuto subire settant’anni fa. 

Ritornando al citato zio Peppino, che rappresentava Gesù Bambino nella Tavolata, egli ebbe la fortuna di non conoscere la durezza della pirrera, ma l’atrocità della guerra sì; per colpa di questa concluse la sua trentennale esistenza, assieme a tutti gli altri a bordo, mitragliato senza pietà alcuna sull’ ambulanza, con tanta di Croce Rossa dipinta sul tetto, diretta urgentemente all’ospedale militare, dove non arrivò mai.
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(1) È noto il detto: Panza mi’ fatti visazza! Esso in genere viene pronunciato nel momento in cui si ha l’acquolina in bocca innanzi a una tavola riccamente imbandita o quando si hanno a disposizione stuzzicanti leccornie in abbondanza, in una situazione speciale spesso irrepetibile.

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