martedì 27 aprile 2010

CENNI SUL MONDO SOCIALE ANTERIORE AGLI ANNI ‘50

I segni più vistosi d'una certa distinzione sociale erano i copricapo, "cuppuli e cappedda", che però non erano obbligati come una divisa.
Era impensabile che un operaio o un contadino, sia pur benestante, portasse il cappello. Di festa qualche artigiano l’indossava.
A tal proposito ho un ricordo indelebile. Era il 1946: prime elezioni amministrative. A Villarosa erano in lizza due liste: quella della Democrazia Cristiana e quella civica con emblema il Leone capeggiata da un ex sindaco del periodo prefascista, don Peppino Profeta, a cui s'erano unite le sinistre.
Mio padre fu indotto a candidarsi, non chiese il voto a nessuno, non tanto per superbia quanto per rispetto del principio della libertà del voto: fu eletto ugualmente e con molti suffragi. Io dodicenne seguivo le manifestazioni democratiche che per me, e non solo, erano assolute novità.
Vinse la lista popolare e subito a scrutinio completato spontaneamente si formò un immenso e composto corteo che fece il giro del paese lungo il tragitto consueto delle processioni.
Mi colpì la frase di un signore che diceva: - Nun cc'è mancu un cappiddu!
Io curioso salii su degli scalini d’un portoncino della via Milano e appurai l'affermazione appena sentita.
Altra distinzione relativa a: Don e Donna, Mastru e Gnura. Artigiani, commercianti, impiegati e rispettive mogli erano chiamati col Don e Donna, il resto della popolazione con mastru e gnura.
C'era pure una zona intermedia fra il Don e il Mastro, che si risolveva con “zzi”: zzi Pe', zzi Turì, zzi Marì, zzi Minichì.... non sempre erano parenti.
Sconfinare da queste regole comportava biasimo ed ironia.
Ricordo che c'era una donna che proclamava, in italiano: - Io sono la signora Alessi...
Ma la si compativa come persona un po' stramba...
Fino agli anni '60 i contadini, anche i più facoltosi, d'inverno usavano “ a scappulara”, lo scapolare, una specie di mantello di stoffa pesante di color blu con cappuccio. Gli altri s'arrangiavano come potevano...
In tempi più antichi, professionisti e galantuomini, portavano un elegante mantello con borchia dorata a chiusura alla base del collo, u firriulu. Ai tempi della mia infanzia chi si voleva distinguere dal popolino indossava il cappotto.
Come si evince c'era una scala sociale variegata che ciascuno rispettava per timore d'essere preso in giro, ma non c'era alcun obbligo legale: era solamente una convenzione tacitamente rispettata.
In fondo era il reddito che creava il discrimine. In ogni categoria c'era anche una scala di valori a seconda delle capacità professionali o dal modo di proporsi al prossimo.
I vari mondi sociali erano poco permeabili, ma si poteva passare dall'uno all'altro nel corso delle generazioni. Importante era la considerazione morale della famiglia, ma il reddito e il potere erano più attraenti, come oggi del resto.
Della scala agricola l'ultimo era, e lo è ancora, “u jurnataru”; di quella zolfifera “ u panuttaru”, quello che impastava le polveri inerti miste a scagliette di zolfo che asciugate venivano infornate per trarne un minimo di zolfo liquido. I “panutti” sbriciolati concorrevano a formare “u ginisi”, lo scarto inerte che rimaneva dalla combustione e liquefazione dello zolfo; esso era un ottimo materiale idrorepellente molto adatto per costruire stradelle.
A proposito “do ginisi” sono ancora visibili sullo sfondo del corso Regina Margherita verso nord dei grandissimi coni di deiezione di color rosa formati da tali rosticci. Oggi hanno perso il color vivo che ancora tengo negli occhi della mente e sono solcati dall’erosione delle piogge nel corso dei numerosi decenni.
Sempre a proposito del suolo villarosano di tutta la zona ai piedi del monte Respica, a destra dell’ “Ariazza”, appare ancor oggi come un paesaggio lunare, cumuli irregolari e buche sempre di color rosa per via dei rosticci, essi sono “i ginisara” di Verona: così comunemente è chiamata la zona. Da ragazzo mi chiedevo che cosa c’entrasse la città veneta col nostro paese, ma nessuno mi sapeva dare una risposta. Col tempo ho scoperto che Verona era il cognome d’una facoltosa famiglia palermitana di industriali dello zolfo e padroni di miniere nella zona.
Mi compiaccio di citare questi particolari che se non fissati nella forma scritta sono condannati ad inesorabile dimenticanza, come già è avvenuto ad esempio con l’origine del nome Respica.
Quand'ero ragazzino spesso sentivo chiedere a qualcuno il tipo di scuola che avesse freqentato; questi accenando una risatella rispondeva: - U quartu ginisaru di Verona! Giocando ironicamente sull'assonanza dei nomi, ma per significare nella sostanza che la sua scuola era stata la miniera.
Io non coglievo queste sfumature anche perchè confondevo la parola “ginisaru” con ginnasio; i conti però non mi quadravano perché l’interpellato non corrispondeva ai canoni dello studente.
Teoricamente la scuola era aperta a tutti: esisteva la legge dell'obbligo scolastico, nella riforma del 1923 era prevista persino la post-elementare, ma nella vera sostanza le aule era aperte ai figli di borghesi e a una striminzita minoranza di figli di operai. Un solo esempio potrà dare un'idea approssimativa. Nella mia prima classe, anno scolastico 1940-41, gli iscritti eravamo 56 [ho la fotocopia della pagina dell'elenco del registro]. Però non tutti i nati del 1934 [si tenga presente che allora al nostro Comune mancavano poche decine di abitanti per arrivare ai 12.000] varcarono quel primo ottobre il portone del novello palazzo scolastico Silvio Pellico”, almeno altrettanti erano per le strade del paese o ad aiutare in campagna. Dei miei 56 compagni originari, quelli che arrivammo in quinta si potevano contare si e no sulle dita d'una mano, gli altri dieci erano formati con i reduci dalle altre prime classi e l'aggiunta di qualche ripetente. Restavano inesorabilmente fuori della scuola i poveri che non possedevano un paio di scarpe.
Fra le gallerie di foto del sito villarosani.it ce n'è una di gruppo dove la metà dei ritratti seduti a terra mostrano con assoluta naturalezza i piedi nudi. La foto mi pare degli anni '50, lascio immaginare quanti piedi scalzi nei decenni precedenti.
Non si finirebbe mai di raccontare aspetti di un tempo che si spera che non torni mai più: ora voglio lasciare spazio a qualche concittadino di aggiungere particolari nuovi o di correggere i miei.

lunedì 19 aprile 2010

Ancora sulla Pasqua

Confesso che anche se credente non frequento spesso riti religiosi e processioni varie. Tanti ne seguii nella mia infanzia e nella mia giovinezza. Mi appassionava tanto “u ‘ncuntru”: la processione del pomeriggio di Pasqua, che tanto mi affascinava per via di quel manto nero che cadeva di dosso alla Madonna alla vista di Cristo Risorto. Ero curioso e volevo esplorarne il “mistero”. Era don Sariddu, il sacrestano della Madrice, che con la sua tunica bianca e rossa seguiva il fercolo , “a vara”, della Madre di Gesù addobbata a lutto; al momento giusto tirava una delle due estremità del nodo a fiocco e, d’incanto, la Madonna Addolorata si trasformava in raggiante Immacolata Concezione
Di certo la processione del Venerdì Santo in assoluto è la più sentita perché è la più genuina: in essa il protagonista è Gesù, che ha scelto di morire in Croce per dare un alto esempio all’umanità.
Poco prima di Pasqua ho parlato “do canniliri”, un dolce prettamente dell’occasione. Ora mi voglio soffermare su un'antica tradizione viva fin quando la Resurrezione si faceva coincidere con il mezzogiorno del Sabato Santo.
A quell’ora massaie e ragazzi si preparavano per accogliere il Cristo Risorto. Le prime, al tocco delle campane, che erano rimaste “attaccate” e quindi avevano taciuto per due giorni e mezzo, afferravano il bastone della scopa e colpivano sotto i mobili e i letti della casa gridando a ripetizione: “Nnisci diavulu ca trasi Gesù”. I ragazzi dal canto loro raccoglievano da terra pietre e le scagliavano sulle porte chiuse, gridando contro il demonio e con giubilo per Gesù risorto, con un sovrappiù d’accanimento, tanto le pietre per le vie allora abbondavano a iosa.
Era la festa della gioia che continuava il giorno dopo, ma soprattutto la mattina più attesa era quella di Pasquetta, che allora era chiamata “Pascuni”. Gli amici più affezionati si preparavano la tradizionalle scampagnata di quel giorno che li avrebbe legati “cumpari di dijuni o di Pascuni", per tutta la vita.
La formula che si recitava era la seguente:
“Compari e san Giuguanni
socchi avimu ni spartimu:
avimu pane e ossa e ninn’ jamu ‘nni la fossa;
avimu pane e rrisu e ninn’jamu ‘m paradisu”
Anch’io ho un cumpare di dijuni, da quasi settant’anni e ci chiamiamo ancora “cumpà”.

domenica 11 aprile 2010

L' ”ARIA” DI VILLAROSA

                                      
Questo è un pezzo della storia d’un nostro concittadino a tutti gli effetti, anche se non nativo di Villarosa.

Era un giorno di fine primavera dei primi anni ’60; due ragazzi di un paese, non proprio vicinissimo al nostro, s’affittano le biciclette… per un quarto d’ora. Arrivano al paese loro vicino e decidono di proseguire per la strada nazionale verso dove non s’erano mai avventurati. Giunti ad un bivio lessero un’indicazione stradale VILLAROSA, i due compari si chiesero dove si trovasse e convennero d’ inoltrarsi, tanto la giornata era bella e il noleggiatore era un amico.


Benché stanchi e trafelati per la salita della Garcia, il corso che si trovarono davanti, da San Calogero, dispose benevolmente il loro animo. Furono colpiti dal fatto che c’erano tanti negozi da cui uscivano i clienti con le sporte piene; macellerie che esponevano quarti di bovini e non solo carne di castrato; tanti bar con molti clienti seduti fuori ai tavoli e altri dentro che consumavano al banco.


Muratori, manovali, imbianchini in giro che lasciavano il lavoro alle nove, come di consueto da noi, per andare a far colazione e molti di essi si fermavano ai bar. Entrati in un negozio d'alimentari restarono meravigliati del fatto che i clienti pagavano a vista la merce che portavano via: al loro paese quasi tutti andavano a far spesa con la "libretta" in mano dove si segnava la spesa che si pagava in estate a raccolto effettuato e venduto.


Notarono furgoni e carretti carichi di materiale di sgombero o di sacchi di calce e cemento; case in costruzione o in fase di riattamento.


Avevano qualche spicciolo ancora ed entrarono nel Bar Centrale per un cono gelato. Furono colpiti più che d’altro dal fatto che le persone che consumavano al banco, invitavano i conoscenti che entravano a prendere il caffè o un rinfresco.
Tutte cose comuni per chi le aveva vissute giorno dopo giorno, ma non per loro.


I due ragazzi, abituati ad un ritmo ben più lento e ad un’economia rurale dove a casa si impastava e si infornava il pane, vi si allevavano le galline e il maiale, le verdure si raccoglievano nell’orto....ora all’improvviso, vedendosi catapultati in un ambiente minerario commercialmente più evoluto e vivo, è ovvio che ne rimanessero stupefatti. Di certo analoga sarebbe stata la reazione di un ragazzo di Villarosa che tutto ad un tratto si fosse venuto a trovare nel cuore d’ una grande città.


I due giovani si guardarono e convennero che a Villarosa la vita si presentava con ritmo più veloce e vi si respirava un’ aria diversa.
Il più intraprendente disse all’altro: - Compare, noi verremo a lavorare qui.


Lui almeno fu di parola; non passò molto che venne a Villarosa in qualità di aiutante in un’attività artigiana. Più tardi prese in affitto l’impresa. Da decenni è stato titolare di una piccola prospera azienda, sempre nel ramo originario.


La storia è autentica, raccontata, nell’ambito d’una discussione occasionale, dallo stesso diretto interessato nel salone del nostro barbiere, dove io e gli altri clienti eravamo casualmente presenti; né io in quel momento minimamente pensavo di doverla esporre per iscritto.


Già io conoscevo i trascorsi di lavoro e di impegno del concittadino d'adozione, mi mancava solamente di conoscere il particolare della molla che fece scoccare in lui la decisione di anteporre Villarosa ad altre località.


Avrei voluto che questo nostro concittadino e grande lavoratore mi leggesse, o almeno ne avesse sentore, per verificare maggiormente che la sua storia, esposta da lui verbalmente e con semplicità e per aiutarmi a raccontarla con più particolari o correggere qualche dettaglio.


Dopo la pubblicazione del post ho avuto modo di parlare col soggetto in questione ed ho notato che ne è rimasto compiaciuto, ma di andarlo a leggere su un monitor manco a parlarne. Così non ho avuto il coraggio di chiedergli di darmi il permesso di fare il suo nome. L'incontro è stato ugualmente proficuo per il particolare della spesa con la "libretta", perchè l’ho appreso in questo secondo momento: dal barbiere infatti non se n’era parlato.


Chi arriva a Villarosa si sente villarosano anche quando cambia paese; è il caso d’un “villarosano” con un’anzianità di meno d’un solo decennio, che passato in un terzo paese, a quanti gli chiedevano da donde provenisse, rispondeva Villarosa: il suo paese d’origine dove era nato, cresciuto e sposato, era anche prettamente agricolo, ma non amava riconoscerlo, quando poteva. L’ho scoperto per caso perché amici dell'ultima cittadina parlando di lui me lo indicavano come mio paesano. Io accettavo tacitamente perché si trattava d’una persona corretta di cui non c’era di certo di vergognarsi.

sabato 10 aprile 2010

Premessa alla nuova discussione di antichi casi di comune miseria


L’antica miseria delle nostre popolazioni è oggi incomprensibile alle nuove generazioni, pertanto ritengo utile e doveroso avviare una ricerca, ovviamente aperta alla collaborazione di tutti, sugli aspetti economici e sociali più tristi della nostra terra nei decenni trascorsi.
Mi sovviene un pensiero di Gesualdo Bufalino che citando ricordi più datati di sua madre, parlava di un tempo in cui si poteva rompere un rapporto di buon vicinato solo a causa della restituzione di un uovo più piccolo rispetto a quello anticipato in prestito. Cos’è oggi un uovo? Una modica spesa. Nel passato no.
In tempi non molto lontani, quasi in ogni casa, si allevavano le galline che di giorno si lasciavano razzolare per le vie alla continua e instancabile ricerca di qualche granello, mollichina, insettuccio, foglia di scarto di verdure ed anche di escrementi di bimbi che venivano deposti con naturalezza al margine della strada.
Le immagini possono dire più delle mie parole: fra le foto delle vie di Villarosa pubblicate sul sito e messe a confronto tra presente e passato, sono ritratte infallibilmente galline intente alla ricerca di cibo, persino nella centralissima via Deodato, parallela del Corso principale, proprio davanti alla vecchia Caserma dei Carabinieri.
Fa più tristezza sapere che quelle uova spesso non nutrivano i figlioli delle proprietarie delle bestiole, ma venivano vendute per ricavarne qualche spicciolo destinato a più urgenti bisogni.
Per il bimbo malato si faceva qualche eccezione. Quando il bimbo a causa dell’inappetenza derivante dal malessere non riusciva a mangiarlo per intero, la madre ne completava il consumo. Anche per questa semplice scenetta familiare, subito nasceva il proverbio appropriato, molto noto in Villarosa: “Cca calunia do figliulu a mamma si mangia l’uvu”.
Ho raccolto, frugando fra la mia memoria, qualche episodio in tema, che spero di pubblicare in seguito. Intanto gradirei che villarosani e non, facessero altrettanto o raccogliessero dalla viva voce di anziani fatti e situazioni che, senza offendere nessuno, riescano a tramandare a chi arriverà dopo questo spaccato di vita del passato, al fine di evitare il rischio che le nuove generazioni possano pensare che il mondo fosse sempre stato come l’avranno trovato.

domenica 4 aprile 2010

U PRINCIPI CRIVARU - Parte I

PARTE I

Luisa aveva appena centrato la bocca della sua quartara alla cannella della fontana e seguiva con distacco il solito diverbio sui turni non rispettati, quando udì lo scalpiccio di zoccoli; ne fu contrariata, perché temeva che si trattasse dei consueti prepotenti garzoni del barone i quali esigevano sempre la precedenza all'abbeveratoio.
Alzò con fierezza la testa e indirizzò uno sguardo di sfida ad altezza d’uomo in sella, e i suoi occhi non trovarono gli zoticoni che s’ attendeva d’incontrare, ma s’incrociarono con quelli di uno splendente cavaliere, in abiti e portamento ben diversi da quelli della gente del luogo.
Luisa provò imbarazzo per via dello sguardo di ribellione da destinare agli scostumati che aveva timore di trovarsi davanti, e come chi sentendosi colpevole di grave offesa volesse sprofondare sotto terra, abbassò lo sguardo oramai disarmato, tanto che la sua figura si ricompose piccola e fragile.
Il nobil uomo ne rimase talmente affascinato che non seppe esprimere a parole il suo soave turbamento; saltò giù di sella, fece solamente un vago gesto con la mano come se volesse raccogliere un’immagine tremolante dallo specchio della fontana…
Quando si riebbe dallo stordimento momentaneo scorse la ragazza che, abbandonata la brocca e raccogliendo con le mani verso l’alto l’abbondante veste per non inciampare, si ritirava affrettatamente lungo il sentiero accidentato.
Il giovane, rimasto inebetito, si chiedeva quale fosse stato il suo atteggiamento così scorretto da poter produrre quella disastrosa reazione.
Al gentiluomo, quella fanciulla svanita dalla sua vista, restò impressa negli occhi come il ricordo di leggera capretta che saltella per schivar grossi sassi.
Ripresosi si volse verso le altre donne alla fontana e chiese loro il nome della bella giovane e a quale famiglia appartenesse.
Apprese che si trattava di Luisa l’amata figlia dello scarparo, vedovo da poco.
I ragazzi, che giocavano nei pressi, percepito l’ inusitato scompiglio, s’avvicinarono curiosi e subito si offrirono di accompagnare il nobil signore alla casa della ragazza.
Cavalli e cavalieri, preceduti dallo stuolo dei giovanetti, entrarono in paese creando ancora più trambusto. Il cicaleccio che li precedeva giunse prima di loro all’uscio della misera dimora, che al loro arrivo fu trovato sprangato.
Il principe fece un cenno ad un amico del seguito che lasciò cadere una manciata di spiccioli a terra; mentre i ragazzi erano intenti a raccoglierli, spronati i destrieri, i cavalieri svanirono al di là del sentiero donde erano venuti.
Del fatto se ne parlò in paese per più giorni; se ne fecero le più impensabili ipotesi.
La porta del calzolaio si riaprì, Luisa riprese le consuete faccende di casa, ma non andò alla fontana, per non alimentare curiosità aggiuntiva e non stimolare domande a cui nemmeno lei era in grado di darsi risposta, tanto meno di poterne offrire ad altri.
Il nobile cavaliere non s’era presentato, ma nientemeno era il principe ereditario Corrado, futuro Re del Regno di Populonia. Egli si trovava lì di ritorno da una battuta di caccia coi suoi amici più cari e s’era fermato casualmente solo per abbeverare gli animali.
Nessuno l’aveva riconosciuto, ma le movenze, la preziosità delle vesti e i ricchi finimenti dei cavalli, lasciavano trasparire una condizione superiore, inconsueta in quelle misere contrade.
Il futuro re era da tempo in età di prender moglie, ma non trovava, fra le ragazze della nobiltà o tra le figlie dei suoi pari, una che gli piacesse al punto di poterla scegliere come madre dei suoi figli e futura regina: quando non erano grassocce e pelose, le trovava frivole e superficiali.
Il re se ne doleva tanto perché prima della fine dei suoi giorni voleva vedere avviata la continuazione della dinastia.
Il Principe, dopo il casuale incontro alla fontana, aveva sempre avanti a sé l’immagine fugace della bella paesana e tanto lo teneva in uno stato di apatia continuo che gli faceva trascurare persino le attività a lui più care.
Il mutamento improvviso d’umore non sfuggiva a quanti stavano intorno a lui, dalla servitù che lo stimava tanto, ai suoi genitori.
La Regina pregò il consorte di lasciarla parlare col figliolo.
Questi con grande imbarazzo, perché ben consapevole della incolmabile differenza sociale fra il suo stato e quello della giovane, espresse alla madre l’angoscia che lo martoriava e le perplessità che lo bloccavano ad un tempo.
I trepidi genitori, ben conoscendo l’indole riflessiva e prudente del figlio, convennero di concedergli piena fiducia, lasciandolo libero nella sua difficile decisione.
Un fidato funzionario di Stato fu incaricato di raccogliere, con molta discrezione, notizie intorno alla moralità della ragazza e della famiglia: lo stato economico risultò corrispondente a quanto era già supponibile; in quanto al resto nulla poteva dirsi che non fosse eccellente da tutti i punti di vista.
Una piccola delegazione si fece annunciare presso la modesta abitazione di Luisa, dove fu accolta con dignitosa serenità.
Alla richiesta ufficiale di matrimonio, il calzolaio non si scompose affatto e chiese tranquillamente:
- Che mestiere esercita il Principe?
Un imbarazzante silenzio gelò l’atmosfera della linda e modesta stanzetta.
Il dignitario reale ruppe il ghiaccio facendo presente che il loro Principe sarebbe divenuto un giorno il Re della loro nazione, come lo erano stati il padre, il nonno e tutti gli avi che avevano avuto nei secoli per occupazione l’interesse generale dello Stato, per antico diritto dinastico.
Il padre di Luisa rimaneva irremovibile nella sua pretesa, nella più rispettosa pacatezza.
Sconcertati i delegati lasciarono la casa salutando con cenni, in sommesso silenzio.
Il Re vagliò lo sconvolgente rapporto e capì di trovarsi innanzi ad una personalità non comune, forte e decisa: altri di qualunque ceto sociale avrebbero fatto salti di felicità, invece un umile ciabattino era in grado di dar lezione di saldo carattere ad alti dignitari e persino al proprio sovrano. Dello stesso parere fu il Principe, cui veniva agli occhi la figura ardita che voleva incenerirlo con lo sguardo scambiandolo con lo sgherro di qualche signorotto della contrada.
Il giovane, già innamorato d’una semplice leggiadra immagine fuggente, ora se la ritrovava dotata d’ un energico e deciso carattere, così rotta ogni esitazione chiese ai tecnici di palazzo di indicargli un mestiere di facile acquisizione.
Si convenne sull’ attività di stacciaio, mestiere semplice e celere ad apprendersi.
In incognito frequentò per qualche tempo un vecchio acconciatore di crivelli d’altra città e quando si sentì provetto nel mestiere, fece riferire al futuro suocero che aveva ben appreso l’arte di riempir vagli e stacci.
Il matrimonio fu annunciato e celebrato con sfarzo.
Incontenibile fu la gioia del popolo che vide per la prima volta una loro pari salire al vertice della scala sociale della Nazione; contenuta ed ipocritamente ostentata l’ accettazione dell’aristocrazia che si sentiva umiliata dalla mancata scelta del Principe fra le giovani del suo rango e dal timore di veder compromessa la loro casta blasonata per questa inconcepibile scivolata verso il basso.
La nuova principessa, di viva quanto plastica intelligenza, in breve tempo s’abituò alla vita di corte aiutata dal marito e dalla suocera: pochi mesi dopo a stento avrebbe qualcuno capito che quella dama provenisse dalla casa d’ un umile artigiano.
Al pronto ingegno s’accompagnava una grande sensibilità verso i problemi sociali ed in ogni occasione non mancava mai di perorare la causa degli ultimi del Regno.
Venuta dal mondo contadino ben ne conosceva i problemi e le angosce, e quando una sera durante una conversazione apprese che i nobili, al contrario di quanto avviene nelle classi sociali inferiori, non pagavano tasse per la tenuta di cavalli, ne fu sconcertata e turbata.
Un ministro presente, emerito economista, sostenne la tesi che spiegava la ratio della disposizione: il contadino dal suo asino ne trae un reddito, mentre l’ aristocratico mantiene esclusivamente i cavalli per puro diporto, senza percezione di provento alcuno; anzi il nobile a causa di questo suo diletto offriva lavoro a stallieri, carrozzieri e maniscalchi.
La tesi non convinse la principessa che si battè perché fossero esentati dalla tassa sul bestiame almeno i piccoli coltivatori.
La disposizione fu approvata con scarso entusiasmo da parte della classe al potere, solo per non scontentare la futura regina.
L’insistenza della Principessa nella scelta di campo della difesa dei più poveri cominciò ad alienarle nobili e ricchi borghesi. Agli alti livelli l’immagine della giovane consorte del Principe veniva scalfita giorno dopo giorno, facendo circolare false notizie di improbabili balordaggini mai accadute. Ad alto livello sociale si faceva facile ironia sulla bassa provenienza familiare della Principessa e sul padre calzolaio e sulla premurosa attenzione verso asini e villani.
Il popolo amava sempre la sua Principessa e ciò faceva imbestialire la classe dei potenti che non sapeva come muoversi tra l’ossequio alla monarchia e la difesa del prestigio di casta.
Negli anni a seguire i Principi furono allietati dalla nascita del futuro principino ereditario e di una dolce bimba; successivamente furono turbati della naturale dipartita dei loro vecchi.
Era cambiato il Re, le generazioni si susseguivano, ma l’ostracismo alla Casa Reale e in particolare alla Regina, venuta dal popolo, aumentava e si diffondeva sempre più.
Malgrado però il discredito seminato negli anni tra il popolo, i regali erano sempre in auge; di conseguenza gli aristocratici sempre invidiosi del successo cercavano sistemi più raffinati atti ad indebolire il prestigio del Re.

[continua]

U PRINCIPI CRIVARU - Parte II

PARTE II
Questa occulta fronda alla secolare monarchia era fomentata da un grosso feudatario, magnate della finanza e delle industrie più importanti, lontano parente del Re, il duca Norberto di Montetondo. Questi era un uomo che non aveva nulla da invidiare a chiunque altro perché a tutto era arrivato e tutto si poteva permettere. Ora voleva esplorare il campo della politica perché temeva che le idee democratiche della Regina potessero far aprire gli occhi al popolo, che di tanto in tanto si sommoveva per riavere le terre che la nobiltà nei secoli passati aveva sottratto alle comunità locali.
Cominciarono a serpeggiare in forma non ufficiale vaghe voci d’incursioni di navi di pirati saraceni in zone non meglio precisate della periferia del regno; il popolo minuto e i piccoli proprietari si allarmarono molto, temendo la schiavitù e la perdita della loro fede cristiana; s’arrivò persino a credere che orde ubbriache mangiavano persino i bambini.
I ricchi da un lato accreditavano le dicerie, dall’altro se ne stavano tranquilli.
Il duca Norberto chiedeva a gran voce al Re e alla Camera dei Pari l’ incremento delle misure di sicurezza con l’arruolamento di nuove truppe di sicura fede patriottica, inquadrate in una milizia con compiti speciali sotto il comando diretto del Re.
Le persone più riflessive trovavano strane quelle voci che potevano essere soltanto un retaggio di antiche paure, ma al presente del tutto inconsistenti perché il mare era ben protetto or da molto tempo dalla flotta dalle maggiori potenze europee. Intanto erano sempre più numerosi quelli che giuravano d’aver parlato con testimoni diretti scampati miracolosamente alle retate; improvvisati predicatori arrivavano persino a chiedere a gran voce nuove crociate contro gl’infedeli, surriscaldati dalle notizia non verificate che cavalieri musulmani avrebbero abbeverato i loro cavalli in San Pietro, in Roma.
Tanto più assurda era la paura dei Turchi, tanta più la si riteneva certa.
In questa situazione di fluida incertezza s’ inserì l’ intervento, tanto atteso, del Cardinale Primate che, nell’ omelia pasquale prima e sul giornale diocesano dopo, sostenne la tesi secondo cui compito dello Stato è di fare buone leggi e quello della Chiesa, più vicina ai bisogni del popolo, di amministrare la carità. Egli però, stranamente, non parlò affatto di orde musulmane che infestavano la costa orientale. Il tacere dell’alto prelato lasciò il popolo tutto assai perplesso, che non seppe darsi una plausibile spiegazione. Le anime candide pensarono che il sant’uomo si faceva carico del timore per l’immane pericolo che incombeva su tutti e nello stesso tempo non voleva turbare più di tanto il suo amato popolo, seriamente toccato.
Ma se da una parte l’alto Presule ignorava la diceria popolare delle incursioni saracene, dall’altra il clero minuto delle parrocchie raccoglieva, senza riflessione critica alcuna, le fandonie più assurde, angustiando ancor di più le persone semplici.
Il cugino del Re divenne il regista occulto della ricostruzione di un nuovo Stato e sottobanco prometteva tutto a tutti.
Tanta brava gente era affascinata dalla ricchezza del Duca e riteneva che un uomo così ricco non sarebbe stato mai e poi mai tentato di arricchirsi alle spalle del popolo, anzi ci avrebbe rimesso del suo per risollevare lo stato di miseria in cui versava gran parte della popolazione.
Il Re da parte sua non si stancava di emanare comunicati per rassicurare la popolazione sull’ inesistenza delle vociferate incursioni saracene, che erano del tutto immotivate e rimanevano soltanto un ricordo di tempi lontani, superati dalla Storia. Le sue sagge parole cadevano nel vuoto ed anche per lui, come già per il Cardinale, la gente comune pensava che egli parlasse in questo modo per rincuorare il suo popolo.
Il Re percepiva gli strani movimenti, ma non arrivava al punto di prevedere l’ evenienza d’un colpo di Stato, che egli, sentendosi amato dal popolo, stimava pressoché impossibile.
Invece una notte, avvertito dai servi degli strani movimenti di militari intorno al palazzo reale, ritenne opportuno, per precauzione, uscire attraverso un cunicolo segreto e raggiungere il maniero di campagna d’un caro amico fidatissimo, accompagnato dalla cara consorte e dei piangenti bambini svegliati in gran fretta.
La prudenza non fu troppa perché nel più profondo della notte, prezzolati scagnozzi della nobiltà, spalleggiati dai militari, s’aprirono una breccia addirittura a colpi di cannone nelle mura del palazzo reale.
L’incredibile notizia giunse al castello dell’amico, quando già era pronto per precauzione un modesto carro con poche masserizie su cui salì la famigliola in abiti da popolani.
Passarono il confine attraverso un sentiero nascosto fra la sterpaglia.
Nel nuovo Stato non vollero manifestarsi per paura d’essere traditi e consegnati alle spie del nuovo Regime che senz’altro dovevano essere dappertutto.
S’erano allontanati dal palazzo per pura prudenza, senza soldi né gioielli, ora si trovavano con un modestissimo capitale fornitogli dall’amico, impreparato anch’egli all’ inattesa circostanza.
Sempre temendo d’essere braccati e per non destare sospetti, i reali si confusero con la gente più povera, vivendo in anfratti naturali.
I Regali si dissero forestieri in cerca di fortuna e subito trovarano tante anime buone sollecite ad immetterli nella loro semplice comunità.
Corrado aveva un‘ idea della miseria un po’ vicina alla realtà, ma non era a conoscenza delle doti positive del popolo, quali la generosità e la disponibilità a dare una mano a chi ha bisogno.
Anche lontano dal Regno si parlava tanto fra tutti gli strati della popolazione della fuga del Re e del mistero della sua sparizione; si facevano mille ipotesi e non si escludeva quella che già fossero stati uccisi da sicari dell’usurpatore e seppelliti in posto insospettabile. A far cadere questa supposizione però concorreva la frenesia delle ricerche che non si quietavano e l’ inquietudine degli sgherri fedeli al nuovo regime.
La modestissima dotazione che Corrado aveva ricevuto dalle mani dell’amico andava scemando e non c’era alcuna prospettiva di poterla impinguare; la situazione era disperata perché non era facile nemmeno alla giovane consorte trovar lavoro onesto in qualche casa di benestanti; di tanto il marito non si dolse, perché riteneva doveroso esser lui ad accollarsi l’onere del mantenimento della famiglia.
Nell’estremo bisogno il Re si ricordò d’ avere un tempo appreso, anche se a malincuore e per pura formalià, il modesto mestiere di stacciaio e capì finalmente lo spirito della pretesa, assurda in apparenza, testardamente imposta dal compianto suocero.
Col poco denaro che era loro rimasto Corrado comprò i semplici arnesi del suo mestiere e i materiali occorrenti; se li caricava ogni mattina a spalla e girava le strade della zona, gridando a squarciagola i servizi che offriva.
I guadagni erano minimi, ma bastavano appena alla sopravvivenza della famigliola.
Col trascorrere del tempo, quando scemarono le febbrili e ossessive ricerche dell’esule, si poterono permettere di lasciare il rifugio di fortuna e gli amici che s’erano trovati lì nel momento dell’estremo bisogno; affittarono una modesta casetta, ed alzarono se pur di poco il loro tenore di vita.
Intanto a Populonia il nuovo Re con i suoi collaboratori si davano da fare per dare la concreta sensazione di un cambiamento che sarebbe dovuto giovare a tutta la popolazione. I primi ad essere ricompensati furono quelli che erano stati i più decisi a sostenere la rivoluzione; poi col pretesto della difesa contro gl’infedeli, furono potenziate in numero le forze armate: gli alti ufficiali dell’esercito divennero generali, e tutti gli altri avanzarono di grado. I servizi segreti furono incrementati ed altri se ne crearono per proteggere il nuovo regime, non più dai Saraceni, ma da fantomatici nemici interni al soldo del re fuggiasco.
Le maggiori spese militari e i favoritismi eleargiti ai sostenitori del nuovo corso andavano dissanguando di più le già scarse risorse del Tesoro; così si cominciò ad accusare l’ex Re d’esser fuggito facendo man bassa nelle Casse dello Stato e che ora da fuori del Regno con questi soldi si tramava per il suo ritorno in patria.
Furono chiesti prestiti a banche internazionali e a risparmiatori locali allettandoli con alti interessi; la situazione finanziaria di mese in mese si faceva sempe più disatrosa, tanto che si decise che la Zecca cominciasse a coniare moneta per sopperire ai nuovi bisogni, sperando che con l’afflusso di nuova valuta circolante facesse incrementare il commercio e che con le maggiori entrate fiscali si rimettesse in sesto l’Erario.
In effetti si mise in moto un rigoglio di commerci che lasciavano ben sperare e si cominciò ad esaltare la capacità del nuovo Ministro, propugnatore d’un’economia creativa, libera dalle strettoie della vecchia burocrazia ottusa e pedantemente rigorosa.
Al successo iniziale non seguì però il maggiore introito fiscale previsto, in quanto borghesi, proprietari e industriali, in gran parte sostenitori del nuovo corso politico, si coalizzarono nel chiedere quei privilegi di cui godevano da gran tempo nobili ed ecclesiastici.
La coniazione di altra moneta, prevista per un breve periodo, fu più volte prorogata e infine fu lasciata a tempo indeterminato; i fornitori internazionali rifiutarono la moneta inflazionata e i prezzi delle merci d’importazione salirono alle stelle; i ricchi, rastrellando tutto ciò che c’era da comprare in fatto d’immobili, pagavano con moneta che nominalmente appariva abbondante, ma nella sostanza risultava irrilevante per l’inflazione che aumentava. Intanto furono abolite, o modificata a favore del Tesoro, le leggi approvate a favore del popolo.
In particolare quella perorata dalla Regina che esentava i piccoli coltivatori dalla tassa sull’unico quadrupede posseduto, non fu abolita, ma solamente e ipocritamente emendata: si stabilì che erano esentati dalla tassa sul bestiame soltanto quelli che non figuravano in assoluto nel regio catasto. In pratica l’esenzione era annullata, in quanto chi non possedeva almeno qualche acro di terra non aveva motivo e anche la possibilità di campare un asino. Tuttavia questa vuota riforma e tante altre simili, chiaramente demagogiche, erano strombazzate dalle classi favorite dal nuovo regime come una conquista di democrazia e di grande attenzione nei confronti della parte di popolazione più povera.
Queste notizie giungevano alle orecchie dello stacciaio Corrado e lo ferivano nel profondo dell’animo: egli aveva amato tutto il suo popolo, ma ora sempre di più si sentiva vicino a quella parte donde proveniva la cara consorte, in atto ancor più disprezzata e sfruttata dall’avidità dei nuovi dominatori.
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Passarono gli anni e la situazione economica si aggravava sempre più; i più ricchi divenivano più ricchi e i poveri, svendendo per sopravvivere il poco che avevano, diventavano più poveri.
La crisi dei ceti popolari si andava spostando verso la piccola borghesia, compresi i militari, a cui l’aumento dei salari appariva un semplice gioco di illusionismo, senza sostanza alcuna. Agrari e commercianti prosperavano, ma tutto il resto della popolazione capì che si stava meglio quando si stava peggio.
Passò ancora del tempo la disperazione portava i più arditi a ribellarsi e le carceri traboccavano di poveretti, che costretti a vivere al limite della sopravvivenza, erano più soggetti a sgarrare per mettere qualcosa sotto i denti.
Malgrado il pugno di ferro del governo la disperazione faceva accorrere il popolo nelle piazze, pur sapendo di poterci restare stecchiti dalle pallottole.
Durante una di queste ribellioni fin sotto il palazzo reale, i soldati ebbero l’ordine di sparare contro i rivoltosi, ma si rifiutarono. La polizia, rimasta fedele al potere reale, cercò di individuare e castigare i traditori, che risposero passando dalla parte del popolo.
La notizia si sparse in tutto il Regno e l’esempio della capitale fu seguito in altre città; le carceri furono aperte, cominciò la caccia agli aguzzini.
Il despota usurpatore, seguito dai suoi fedelissimi fuggì nottetempo proprio nello stato in cui in incognito viveva il re Corrado; questi da uomo prudente attese l’evolversi della situazione, non per vigliaccheria, ma perché preferiva un atto pubblico che lo richiamasse in Patria.
In ogni città del Regno si formarono dei Comitati di Liberazione e tutti ad unanimità reclamavano il ritorno del loro Re, se fosse ancora vivo.
In tutta Europa non si parlava altro che del legittimo Re e della sua sorte, quando un umile stacciaio, vestito da popolano, perché non poteva permettersi altri indumenti, si presentò all’autorità del Paese ospite e si qualificò quale legittimo Re di Populonia. Non fu difficile al Re dello Stato ospite di riconoscere nel modesto artigiano il “cugino” di Populonia.
Re Corrado rientrò in Patria con tutti gli onori.
Lascio immaginare ad ognuno il seguito della storia e la morale che se ne può trarre da tutta questa umana vicenda.

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