Ogni popolo d’ogni luogo sogna un Eldorado,
l’introvabile uomo tutto d’oro: si può chiamare zolfo, oro o petrolio, è in
ogni caso una chimera comune a tutta l’umanità.
La nostra terra, in antico coperta di
boschi e pascoli, divenne, per opera prima dei Romani e poi d’illuminati feudatari,
terra del grano. Il borgo a seguito dei vannii
del Duca andò pian piano popolandosi, per quanto di braccia il territorio poteva
assorbire.
Improvvisamente sotto i pascoli si scoprì
lo zolfo e di conseguenza, senza bisogno di vannii,
una marea di cercatori di fortuna si riversò nelle nostre contrade, dalla
Sicilia e persino dal Meridione d’Italia.
La fascia Centro-meridionale dell’Isola
divenne una specie di Klondike; il piccolo borgo agro-pastorale arrivò a
contare, dalle poche centinaia d’anime dei primi decenni, ben oltre diciottomila
nel 1860.
La giovane comunità di Villarosa, ove ogni
famiglia era stata forestiera, divenne paese d’accoglienza perché ogni suo
cittadino aveva conosciuto il dramma dell’immigrato che lascia la sua terra per
tentare di far miglior fortuna.
Dalla non lontana Delia, sulla fine del
XIX secolo, arrivava il mio bisnonno Angelo, seguito dalla forza-lavoro di
cinque validi figli maschi e una sola figliola. La prole maschile era a quei tempi
una “ricchezza”: non per niente una figliolanza a prevalenza femminile era
considerata una mala sorte.
Dei cinque fratelli, a Villarosa era
rimasto solamente Zio Peppino, che io conobbi, quand’era già vecchio, ma ancora
abbastanza lucido. Infatti, raccontava con precisi particolari l’evento vissuto
come una calamità da tutta la nostra famiglia.
Egli allora era poco più che bambino, ma
già lavoratore a tutti gli effetti come ogni figlio del popolo bisognoso.
Il sogno di diventare esercenti di
miniera, principali, comune a tante
famiglie di Villarosa e dei centri zolfiferi tutti, ai Corbo si presentava
concreto per via di segnali ben fondati: a poca distanza dall’abitato, in
contrada Spina, tra Garciulla e il Salso, a soli pochi metri di profondità dal
suolo, avevano scoperto un grosso filone di zolfo, di quelli che ogni zolfataro
poteva sognare solo la notte.
Tutti, padre in testa e figli appresso, si
erano messi di gran lena a lavorare di piccone, pala e sterratore.
La notte non pareva l’ora che spuntasse
l’alba per tornare al gratificante lavoro che distava solo qualche chilometro
dall’abitato.
Ammonticchiavano il giallo minerale misto
a pietra calcarea fuori del buco; valutavano con compiacimento la bontà del
minerale estratto. Progettavano già la costruzione del calcarone, con gli occhi
della fantasia vedevano colare il biondo fluido nello stampo ligneo che
l’avrebbe accolto e che raffreddato sarebbe diventato la prima valata… Già sulle ali del sogno da
sempre inseguito, contavano dieci… cento… mille… di valati, pronte da abbassari,
così era chiamata la spedizione per Catania, via ferrovia. Sognavano d'incassare
i bullittuna, bigliettoni di
carta-moneta di grosso taglio, che qualunque povero non aveva avuto la ventura
nemmeno solamente di vedere, ma di quella lira che in quel tempo era ancora convertibile
in oro.
La vita, si sa, spesso è beffarda, ti fa
sognare persino sul concreto e subito ti scippa di mano con feroce crudeltà la
promessa tangibile ricchezza: improvvisamente, sotto i colpi delle vigorose
picconate, "scassàru l’acqua",
cioè incontrarono la falda idrica sotterranea,
sciagura da tutti temuta e sempre in agguato.
In meno che non si dica la breve galleria
fu invasa d’acqua salmastra. Disperati piansero la loro mala sorte, perché per
quei tempi non c’era rimedio a quella calamità: le pompe a vapore se le
potevano permettere solamente le grandi società come la Sikelia, che
addirittura più tardi sarebbe stata in grado di costruire persino una ferrovia
privata per fare arrivare lo zolfo raffinato dal nord-est del paese direttamente
alla stazione ferroviaria.
Ai poveri è da sempre proibito persino sognare.
Disperati più che mai, in tutta fretta
rimisero alla meglio ogni cosa a posto per non lasciare segni che offrissero ad
altri la possibilità di individuare in seguito quel sito, con la vaga speranza
che un giorno ci si sarebbe potuto tornare con più moderni mezzi.
Zio Peppino, il piccolo della famiglia, man
mano che padre e fratelli lasciavano questa terra per l’ineludibile legge di
natura, era rimasto il solo a tenere in segreto l’ubicazione esatta del
promettente luogo e a raccontare la sventurata esperienza alle nuove
generazioni di famiglia.
Quando Villarosa fu servita dall’energia
elettrica e le pompe furono alla portata anche di piccoli impresari, zio
Peppino capì che ora poteva essere il momento opportuno per riprendere l’antico
sogno interrotto di necessità. Se non proprio per lui ormai vecchio, per opera
di figli e nipoti, che intanto purtroppo andavano disperdendosi per il mondo.
Della numerosa discendenza, restava a
Villarosa solo mio padre e così zio Peppino, saggiamente dal suo punto di vista,
prima che egli per legge di natura dovesse seguire i suoi vecchi, insisteva col
nipote nel voler indicargli il posto esatto che ancora serbava il biondo
minerale, ignoto a tutti tranne che a lui.
Io ascoltavo con interesse le parole di
zio Peppino; mio padre prometteva al vecchietto che qualche mattina si sarebbero
recati nel sito segreto; anch’io mi ero prenotato per l’insolita gita, ma quel
mattino non arrivava mai.
Curioso e ansioso di vedere quel luogo
misterioso e foriero di benessere futuro, cominciai anch’io a far pressione su
papà, vedendo che non si decideva mai.
Un giorno papà con molta serietà mi spiegò
che lo zolfo era stato la rovina di tante famiglie, compresa la nostra, perché aveva
fatto inseguire un sogno difficile a realizzarsi.
Aggiungeva l’amaro detto che “u surfaru fa ridiri e fa rudiri”, che
nella fascia zolfifera della Sicilia, salvo qualche rara eccezione, ha fatto
più piangere che gioire. Egli credeva fermamente che conoscere il posto dello
zolfo era una tentazione che non si voleva concedere e poi perché riteneva
rischioso lasciare il poco certo per il molto incerto: già quella lezione di
famiglia aveva lasciato una seria traccia sulla sua esistenza e anche su di
quelli che andavano nascendo.
Papà aveva capito che i momenti “eroici”
dello zolfo erano finiti da gran tempo; il dopoguerra aveva ridato fiato a
speranze industriali a decine di zolfatari, nostalgici di tempi ritenuti
memorabili, ma fu per tutti un pieno fallimento; era la concorrenza
internazionale che aveva spento le speranze siciliane: la stratificazione dello
zolfo texano ne consentiva l’estrazione col metodo Frash che portava
direttamente in superficie, senza fumi e senza sprechi, il biondo minerale.
Nessun "principale" fece
fortuna, inseguendo un semplice miraggio. Questo ingannò tanti bravi
picconieri, “arditori” e “armatori” che chiudevano la settimana di lavoro con
un misero acconto che mai si trasformò in liquidazione e in aggiunta per quel
sudato servizio non furono mai versati contributi assicurativi e previdenziali.
Ricordo che a uno di questi “principali" (così pomposamente si
facevano chiamare certi piccoli imprenditori di miniera), l’ufficiale
giudiziario più volte pignorò il “portaservizio”
e altri mobili di poco valore, esponendoli alla pubblica asta in piazza San
Giacomo, davanti alla Chiese Madre.
Mio padre mi additava nomi di famiglie
note che si erano rovinate a causa dello zolfo e altre che, piene di debiti, si
erano trasferite all’estero promettendo che avrebbero soddisfatto il loro impegno
con i creditori; costoro però non videro mai più una lira.
Per la cronaca solo una famiglia a
Villarosa, negli ultimi rantoli dell’industria estrattiva, fece fortuna, non tanto per lo zolfo prodotto, quanto per la
politica regionale che, col pretesto del sostegno degli zolfatai nel diritto al
loro posto di lavoro, distribuiva miliardi di lire che andavano a finire, per lo più, in tasca agli
industriali e di qui anche a sostegno elettorale degli stessi politici, erogatori
dell’ipocrita aiuto ai lavoratori. Quando vennero meno tali fondi della Regione,
i lavoratori più giovani furono costretti a partire ugualmente per il Belgio e
il Nord-Italia.
Così si chiudeva un capitolo onorevole e soprattutto
doloroso della storia del nostro paese, nato agricolo e diventato industriale,
con alterne vicende tra un ambiguo benessere e una reale disperazione.