UMANE
CREATURE ALLO SBARAGLIO
La dolorosa
storia che segue, una fra le tantissime, è rivolta principalmente a quanti (e
non sono pochi) sostengono che i sindacati sono la causa principale della crisi
dell’odierna economia e chiudono gli occhi sui tempi duri in cui i datori di
lavoro si arricchivano alle spalle dei lavoratori, che quando perdevano la vita
o acquisivano sul lavoro un’invalidità permanente, lasciavano le rispettive
famiglie nelle più terribili delle necessità.
Il
tragico caso che propongo è del 1913, ma prima d’allora ne erano accaduti di
già tantissimi; ancora oggi, sia pure in minor misura, continuano mietendo
vittime innocenti anche se sono presenti varie forme di tutela da parte di molteplici
attività sindacali.
L’economia villarosana d’un secolo fa, e anche
prima, era in massima parte sostenuta dalle miniere di zolfo che a decine, fra
grandi e piccole, offrivano occupazione a molte centinaia di cittadini, dalla
puerizia all’avanzata età, nelle varie mansioni attinenti l’industria
estrattiva.
Don
Carmelo Albanese, meccanico tornitore, lavorava in una di quelle miniere molto
distante dall’abitato. Il suo felice matrimonio era stato di già allietato
dalla nascita di una bimba e quattro anni dopo la moglie era in imminente
attesa di nuovo erede, ovviamente sperato maschio.
I
parenti più stretti non erano eccessivamente preoccupati per i gravi pericoli
della miniera dal momento che ben sapevano che la sede di lavoro del proprio familiare
non era nel ventre della terra ma nell’officina piazzata in superficie.
Raramente
fabbri e meccanici erano chiamati ad eseguire lavori nelle gallerie, salvo
quando, per lo più rotaie e vagoni, necessitavano di qualche rabberciatura o di
sostituzione di pezzi, ma sempre operavano lontani dalla linea di avanzamento.
Don
Carmelo scendendo qualche volta giù nel cuore della miniera aveva notato un
leggero scricchiolio dei cavi della gabbia, la cui attività era necessariamente
quasi continua. Di conseguenza aveva fatto notare più volte a capomastri e proprietari
il rischio che poteva scaturire da quel significativo indizio: tutti si
mostravano pronti ad assicurare che al più presto si sarebbe provveduto, non
appena sarebbero arrivati i “varrà”,
il nome sicilianizzato dell’inglese warrant, cioè l’attestato che il
corrispettivo in moneta dello zolfo venduto era stato versato in banca e quindi
disponibile al prelievo da parte della ditta.
I “varrà” arrivavano, ma di nuove funi,
manco a parlarne.
Si
risparmiava su tutto, meno che sulle vite umane: i minatori spesso lamentavano
il rischio imminente di crolli, ma si lesinava persino sulle armature dei punti
avanzati, per le quali spesso erano utilizzate travi logore o rabberciate.
Quando
giunse l’ottobre del 2013, centenario della vicenda che segue, più volte mi sono
accinto a scrivere in merito, però mi cadeva la penna dalla mano, per usare una
espressione oggi quasi in disuso.
Oggi invece
non ho più intenzione di indugiare e mi dò forza a far rivivere la presente tragica
storia e nello stesso tempo per lasciare memoria delle altre centinaia piombate
sull’esistenza di altrettante famiglie nei due secoli di piena attività
mineraria siciliana.
La funesta
vicenda che segue aveva colpito particolarmente il ramo materno della mia
famiglia. Fin da piccolino ogni tanto ne sentivo accennare con brevi e desolanti
allusioni, ma io, pur curioso per natura, non osai mai far rievocare il
funesto evento.
La
triste storia ebbe inizio proprio nello stesso giorno della venuta al mondo di
mia madre.
I nove mesi
della gestazione erano sullo scoccare: una mattina, già prima dell’alba, il
nonno aveva intuito che la cara consorte era prossima al parto.
Stette
al lavoro tutta la giornata in forte ansia; poi provò a chiedere di potere
anticipare eccezionalmente di qualche ora la fine del turno: l’ottenne. Mentre però
si preparava a raccogliere frettolosamente le cosette personali nella sacca
d’olona, all’improvviso fu chiamato d’urgenza per un intervento assolutamente improrogabile
nella galleria.
Mio
nonno e due fabbri avevano appena cominciato a calarsi dentro il gabbione,
quando improvvisamente, quelle stesse funi che avevano da tempo dato segni di deterioramento,
si spezzarono facendo precipitare il tutto fino in fondo, con la sfrecciante
velocità che può imprimere la libera forza di gravità: nessuno dei tre si
salvò.
Intanto
in quelle funeste ore la nonna aveva partorito la mia mamma, la seconda femminuccia.
La poverina attendeva l’arrivo del caro
marito: le ore passavano e le ansie aumentavano, fino a diventare angoscia e progressivamente
completo struggimento.
Intanto
la fatale notizia era pervenuta in famiglia, ma nessuno trovava l’ardire di comunicarla
alla puerpera, che dal letto bramava per il ritardo inconsueto dell’amato
consorte.
La poverina
leggeva negli occhi dei familiari che le stavano attorno che qualcosa di grave
era avvenuto e cominciò a piangere l’amato sposo come morto. Poi quando
s’accorse la sventurata che nessuno osava smentirla, ebbe la chiara conferma
dell’immane perdita.
Allorquando
la disperazione era arrivata al culmine, toccò alla sua stessa madre di
confermare la tremenda sciagura appena accaduta.
La
neonata, mia futura mamma, doveva chiamarsi Virginia come la nonna materna,
invece le fu imposto il nome, al femminile, del padre che non conobbe mai,
Carmela.
Apparirebbe
inutile ripetere le tristi conseguenze di questo tragico evento nei riguardi
dei familiari che dall’oggi al domani venivano a trovarsi colpiti nel cuore e
caduti nella miseria più nera conseguente al mancato, sia pur inadeguato,
guadagno.
Forse il
Creatore immise nel mondo una percentuale di coppie sterili perché queste si
prendessero cura, con pari amore, di quanti avevano perduto i naturali
genitori.
La
famigliola incompleta di mia nonna Angelina entrò nel numero dei graziati: zia
Rosina e zio Calogero furono pronti ad annettere alla propria l’altra delle tre
sventurate creature, vittime del destino e soprattutto dell’ingordigia umana.
Dieci anni prima in Villarosa era stata creata
la “Lega di miglioramento tra operai e zolfatai”. Questa a quel tempo sembrò
una conquista, ma era sostenuta unicamente dall’apporto mensile di una lira da
parte d’ogni operaio e di 50 centesimi di ciascun carusu: i padroni delle miniere non contribuirono a questa magra Cassa
nemmeno con nessun pur misero versamento.
Mia
nonna ricevette dalla “Lega di Miglioramento”, a seguito dell’incidente mortale
del marito, 300 lire soltanto, valevoli per tutta l’intera esistenza sua e
delle figlie.
Faccio
ora un salto temporale nel successivo mezzo secolo, a metà circa degli anni ’60,
quando mia nonna era ormai ultra settantenne e viveva con i mei genitori. L’Italia
del cosiddetto boom economico si ricordò di quanti ancora sopravvivevano a
quell’immane ingiustizia e volle concedere un contentino riparatore; mia mamma
però non volle accettare assolutamente quella tardiva offerta della Stato, dopo
un’intera esistenza di sofferenze indescrivibili e quindi non volle categoricamente
far inoltrare istanza alcuna alla nonna.
A quanti
tra parenti, amici e vicine di casa le facevano notare che nessuno dei presenti
governanti si sarebbe accorto del suo sprezzante gesto, rispondeva secca:
- Troppo tardi! Mia mamma già sta bene con noi:
oggi non le manca niente.
Nonna,
papà e noi maturi nipoti non c’ intromettemmo nell’ esprimere un pur semplice
giudizio relativo all’orgogliosa e sdegnosa decisione di mamma, effettivamente la
più martoriata fra tutte.