martedì 23 giugno 2015

“U libru de conti fatti” e altre antiche utilità pratiche


Tanti giovani d’oggi, complici le calcolatrici elettroniche, vanno sempre più per le vie brevi, spingendo nel dimenticatoio la plurimillenaria Tavola Pitagorica, che pur rappresentando spesso la bestia nera per i ragazzini delle scuole elementari, si finiva per impararla per tutta la vita.
Nella trasmissione televisiva “L’Eredità”, condotta da Carlo Conti, è spesso argomento di domande la classica “Tabellina”. In essa eccellono in genere gli attempati concorrenti, mentre annaspano i più giovani.
Fino a non molti decenni fa erano pochi quelli che completavano le scuole primarie, gli altri, purtroppo i più numerosi, non andavano affatto a scuola, rimanendo del tutto analfabeti.
Tanto non accadeva solo ai carusi che andavano a “lezione” dal picconiere o ai figli di contadini che aiutavano in campagna o a poverissimi che andavano a garzone ddo curatulu, ma persino a “galantuomini” ai quali non sarebbero mancate le possibilità di frequentare scuole pubbliche o private. Da ragazzo con ironia sentivo ripetere ogni tanto la battuta: - Non firma perché galantuomo. Mi fu spiegato allora che certi ignoranti figli di papà, dovendo firmare dal notaio un atto e dal momento che si vergognavano di manifestare di non esserne capaci, ricorrevano a questo sciocco espediente.
I numeri erano più facili ad impararsi rispetto alle lettere dell’alfabeto e chi si dà al commercio ha una particolare inclinazione verso i primi. Inoltre da esperienza diretta, nei tempi in cui insegnavo, notavo che i ragazzi propensi ai giochi di strada, come ad esempio canniddu, cabissi, carti e altri simili, erano molto più bravi in matematica rispetti ad altri compagni che prediligevano la vita in casa ed eccellevano in argomenti tra i più vari e meno pratici.
Anche  gli antichi “putiara” non se la cavavano tanto bene con la scrittura, ma  in modo peggiore rispetto a loro si trovavano i clienti, che conoscevano i soldi e sapevano fare i conti spiccioli, ma ad arrivare a segnare il debito su carta era un arduo problema: era uso comune infatti, presso la maggioranza degli acquirenti che dipendevano da un misero salario che si esauriva prima che arrivasse il successivo, di comprare a debito dal bottegaio di fiducia per le spese strettamente necessarie. Chi conosceva il minimo di scrittura si faceva segnare il debito “nna libbretta”, un quadernetto di piccolo formato con copertina nera e lucida, ma quanti non sapevano leggere per nulla, specialmente nei tempi più antichi come mi raccontava mia nonna, si servivano del trancio di una ferula (la notissima ferla), spaccata longitudinalmente: su ciascuna delle due parti interne si incidevano sul tenero midollo di tale fusto tanti segni particolari differenti, a seconda che si trattava di debito a lire o a centesimi: mezza ferula rimaneva al commerciante e l’altra metà corrispondente la portava via il cliente. Al momento di liquidare il conto si confrontavano, fra compratore e bottegaio, i ‘nsignghi , i segni già incisi.
Per fare conteggi personali, i volenterosi, che conoscevano i numeri, si servivano do Libbru de cunti fatti: un piccolo libro stampato in tipografia, almeno quello che ho esaminato io, pur non avendolo mai usato, che era costituito da un determinato numero di pagine, in genere fino a 100.
Ogni pagina era dedicata a un numero e questo poi veniva moltiplicato per ciascun degli altri 100 della stessa pagina, offrendo il risultato ricercato: ad esempio la pagina 24 conteneva in perfette colonne la moltiplicazione del numero 24 x 1= 24; poi 24 x 2= 48; 24x3= 72 ecc  …. fino a 24x100=2400.
L’ultima pagina, la 100, arrivava a 100 x 100 = 10.000.
Per le moltiplicazioni di numeri successivi al 100, che era il massimo del “Libro”, si scomponeva il numero che si voleva esaminare, ad esempio 340 = 100 + 100 + 100 + 40.
Se  il 340 si voleva  moltiplicare x 25  si operava così: 100x25=2500 poi questo x3=7500; e in ultimo 40x25=1000. Infine si sommavano questi risultati parziali: 7500+1000=8500, ed ecco il risultato finale.
          Per noi, che conosciamo la matematica scolastica, questo processo può apparire complicato, ma per la comune intelligenza d’un povero semianalfabeta era un espediente pratico che lo faceva risaltare fra la grande massa, del tutto ignorante.
Intanto questo libretto, tanto umile quanto utile,  già a disposizione di commercianti e famiglie, faceva parte di una scienza esatta, la matematica.
I prossimi mezzi che ora provo a descrivere invece non possono essere annoverati tra quelli rigorosamente precisi e infallibili.
Un tempo esistevano altri libretti utili, come “Il Barba Nera”: era un almanacco periodico, pubblicato nel mese di settembre d’ogni anno, che forniva utili informazioni di oroscopo, previsioni del tempo, consigli per la semina e la coltivazione dei più comuni prodotti agricoli. Offriva inoltre informazioni relative alle principali fiere, regionali, nazionali e tante altre curiosità varie. Era insomma un indispensabile strumento per le più varie attività domestiche e di vita  a chi sapeva leggere o a chi se lo faceva leggere. Era considerato specialmente da tanti anziani una indispensabile regola del modo di vivere: non ci si può meravigliare tanto, dal momento che anche oggi sono molte le persone che seguono con altrettanto serio interesse gli oroscopi.
Insieme a questo c’erano altri similari, tipo il “Barba Bianca”,  offerto nelle fiere e nei mercati da venditori ambulanti. Ricordo che da ragazzo sentivo annunciare la vendita d’ambedue gli almanacchi a tale Peppe Biancucci, maturo villarosano che offriva la sua mercanzia a quanti fra i suoi concittadini, lo consideravano un vademecum indispensabile.
Accanto al citato Barba Nera era in voga, specialmente in certe case di agricoltori, un altro libro, scritto da uno studioso di astrologia, Rutilio Benincasa: era un altro almanacco perpetuo più antico di duecento anni rispetto al  primo. Nel nostro dialetto era popolarmente chiamato Rriddiliu, dalla storpiatura del nome del chiaroveggente.
Esso era come un vangelo per un mio caro amico, venuto meno tanti anni fa, Totò N., che spessissimo mi incitava a leggerlo, ma tanto più egli era infatuato per quei contenuti misteriosi, altrettanto io ne ero schivo: da razionalista quale credo di essere non ho mai voluto conoscere  questo genere di notizie, che finiscono spesso con l’essere recepite come assolute verità e poi all'opposto possono indurre a grosse cantonate, specialmente nella previsione dell’ antico, ma sempre vivo, “Gioco del   Lotto”. Totò aveva trovato questo libro in casa e ne era rimasto affascinato, quanto i suoi predecessori, al punto che quasi lo conosceva a memoria.
U Rriddìliu attraeva tante persone delle più varie classi sociali e persino uomini di cultura; inoltre è stato uno strumento che si può considerare un ottimo veicolo culturale per tanti volenterosi autodidatti che, sulla spinta della sua attrazione, si sono avvicinati alla lettura e alla lingua italiana.
Chiudo con due piccole  accezioni tipicamente nostrane: ogni tanto sentivo usare da parte dei grandi l’aggettivo dialettale  rriddiliu, quando si alludeva a un ragazzino troppo irrequieto, che creava un biasimevole scompiglio e rriddiliusu quando si parlava di persona di carattere difficile, seccante e anche indisponente.



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