Già più volte ho tentato, ma invano, di ricordarmi il nome
del personaggio di cui vado a trattare; ho interpellato tanti della mia età,
persino i fratelli Cirino suoi vicini di casa, tutti ricordano perfettamente il
soggetto ma non il nome.
Almeno per il momento, voglio indicarlo come Caluzzu.
Questi, quando io ero nella prima adolescenza, aveva superato la mezza età e ancora lo
ricordo nel particolare rilevante di due gote d’ intenso colore roseo, che per
chi non conoscesse bene il soggetto sarebbe apparso quello d’un avvinazzato.
Non ebbi mai motivo
di parlargli, ma mi colpiva di lui la seria indole, ben lontana da certe sgarbatezze
tipiche della categoria di uomini da fatica, cui poteva essere accomunato, che
a quei tempi bighellonavano in piazza in cerca di qualche occasione di piccolo
guadagno.
Quello che m’impressionava di quell’uomo era la circostanza
che nelle domeniche e nei giorni di festa si presentava in giro, pur senza
lusso, con camicia e cravatta e ben pettinato, mentre coloro che io annoveravo nella
categoria di esecutori di lavori umili non mutavano d’abito né mostravano apparenti
segni di ordine e pulizia.
Questa diversità attraeva la mia attenzione, ma non
ritenevo di fare domande in merito perché non valutavo che, pur nella sua
eccezionalità, si trattasse di fatto straordinario.
Un pomeriggio di festa del dopoguerra, trovandomi in piazza
con mio padre, di punto in bianco egli m’indicò a distanza Caluzzu e mi disse: - Vedi? Quello è l’ultimo schiavo di Villarosa.
Nella mia ingenuità ritenevo che la schiavitù fosse
scomparsa in Europa con l’avvento del Cristianesimo e che fino a circa un
secolo prima la tratta degli schiavi di colore fosse ancora in vigore negli
U.S.A., secondo quanto da poco tempo avevo letto in un’edizione ridotta de “La
Capanna dello Zio Tom”.
La frase di mio padre mi è da sempre sembrata estemporanea,
ma oggi che scrivo questa nota reputo che egli abbia voluto introdurre di proposito
l’argomento avendomi visto già fra le mani quel libro e voleva forse farmi
capire che la schiavitù non era stata tanto lontana dalla nostra terra.
Nei giorni seguenti fra me e papà s’intrecciarono nei
ritagli di tempo mie domande con altrettante sue risposte, che in genere erano
brevi e il tutto mirava forse a non esaurire l’argomento per indurmi a
riflettere ancora di più.
Caluzzu era
l’ultimo nato di una famiglia numerosissima quanto poverissima. I fratelli dai
sei anni in poi divenivano carusi di
pirrera e le sorelle criate presso
famiglie benestanti.
I genitori, come di solito avviene in molte case, sono più cedevoli
nei riguardi dell’ultimo rampollo; nel caso del nostro personaggio alla
tenerezza dell’età si associava destrezza speciale nella soluzione di piccoli
problemi di vita pratica e sveltezza nell’eseguire mansioni più che adeguate alla
tenera età.
Queste doti positive del ragazzino, appena egli si
avvicinava all’età per divenire carusu, non
sfuggirono a don Peppino Profeta, che conosciamo come Sindaco da non dimenticare, che da sempre aveva avuto modo di verificare l’onestà di quella famiglia, perciò ritenne opportuno utilizzare il ragazzo per i più vari piccoli servizi, che specialmente
in un’attività di commercio sono utili e frequenti.
I bisogni delle famiglie povere sono sempre infiniti e in
quella di Caluzzu ci fu un momento di estrema necessità che indusse i genitori
a cedere, in parola, il ragazzo ai Profeta come pegno e garanzia di un
modestissimo prestito che già s’era certi di non poter restituire in avvenire.
Questa forma inumana di anticresi che nel nostro dialetto è
indicata con l’espressione godi e godi era
molto comune, principalmente nell’ambito minerario, in cui poveri ragazzini
erano affidati a picconieri per conto dei quali portavano alla luce del sole
minerali di zolfo greggio su una cesta a forma di cono, detto stirraturi, e anche in campo
agricolo-pastorale erano consegnati a curatoli
per la custodia del gregge e per altri più umili incarichi.
Tanto mi faceva rabbrividire, ma molto di più mi faceva allibire
l’affidamento a vita di un ragazzo a un estraneo.
Mio padre, leggendo in me il grande turbamento, mi ricordò
la nota fiaba di Pollicino, e mi spiegò che il gesto di genitori che abbandonavano
in un bosco i propri figli non era una gratuita crudeltà, ma un espediente straziante
di affidarli alla fortuna d’un vago quanto possibile miglior destino, al solo
scopo di non vederseli davanti a sé e lentamente morire di fame.
Chiudo questa triste storia con una battuta di mio padre
che quando qualcuno di noi figli faceva qualche piccola bizza verso il
gradimento di un cibo, diceva con tristezza:
- Cumu si vidi ca nunn’aviti
fattu u Viaggiu a Beddra Matri do Pitittu!