UN'ESPERIENZA
IMPREVISTA
nell’officina do zzi
Turiddu Profeta
I tempi della Guerra furono duri, ma i successivi
all'invasione lo furono ancora di più perché le ostilità continuarono per altri
due anni nella parte continentale della Penisola, dove erano ubicate quasi
tutte le più importanti industrie, comprese le manifatturiere.
Ai tempi della mia infanzia e prima giovinezza le scarpe
confezionate erano molto rare, tant'è vero che da noi non esistevano negozi del
genere, mentre abbondava il numero dei calzolai che le confezionavano a mano, servendosi
di forme lignee della adeguata misura del piede del cliente, sulle quali venivano
impunturate le varie componenti.
Protagonisti iniziali di questo post sono le calzature,
ovviamente per chi aveva la possibilità economica di procurarsele in un modo o
un altro.
Su internet sono tante le foto di gruppo raffiguranti ragazzi
scalzi, non solo per colpa della guerra ma per la diffusa povertà che
prosperava in tempi non propriamente antichi.
Io stesso ricordo quei poveracci che riparavano le
estremità inferiori con scarpi quasati: queste
erano costruite con la cotica del maiale, che stagionata a dovere veniva
tagliata a misura approssimativa allo scopo di potersene servire più familiari
(C’era a tal proposito un detto tra lo scherzoso e l’amaro: Cu si susi ppi prima si mitti i scarpi a
matina).
Erano cucite a mano con dei fili di pelle ritagliati dalla
cotica stessa; questi stessi, legati alla parte superiore della calzatura,
trattenevano degli stracci di vario genere, attorcigliati sugli stinchi.
Questo primitivo tipo di calzature, durante la mia
infanzia, restò una rarità per il sopraggiungere di quelle ricavate dagli usurati
copertoni di auto abbandonate e poi riusati a protezione delle estremità
inferiori di poveri, in gran parte lavoratori della terra.
Le scarpe difficilmente erano buttate via quando avevano
concluso il ciclo previsto: si riparavano in ogni scucitura, strappo, risolatura.
Al momento del bisogno, relativa a una mia calzatura la cui
tomaia con l’uso era rovinata al massimo, i miei si ricordarono che in casa, da
qualche parte, ci doveva essere una vecchia borsa maschile nera in pelle
zigrinata, di già fuori uso perché logorata in molta parte della superficie.
Papà fece adattare dal calzolaio un ritaglio della parte
della pelle meno compromessa.
Nessuno di noi se l’aspettava, ma alla mia prima uscita domenicale
con le scarpine ben lucidate con la crema adatta (in dialetto ciruttu), ottenni un inaspettato figurone
nel mio modesto ambiente socio-economico.
Ma non ci fu tanto da stare allegri, perché alle prime
piogge furono le suole a "cantarsela": era un vero peccato dismettere
le attraenti, per quei tempi, calzature a causa di pericolosi buchi, perché, oltre
a bagnarsi i piedi, c'era anche il rischio di ferirsi con chiodi arrugginiti,
schegge di vetri o pietruzze acute.
Urgeva quindi trovare due suole.
Rintracciarle di cuoio era pressoché impossibile. Che fare?
Si parlava in giro di suole ricavate da tagli a solette sottili
di vecchie grosse gomme di mezzi militari, distrutti di recente da attacchi
aerei nemici.
Ma chi poteva possedere tali materiali da adattare a un uso
civile?
A papà la risposta apparve ovvia: il “cugino” Turiddru
Profeta, ultimo carrozziere villarosano degli antichi e declinanti mezzi
classici, i “carretti siciliani”.
In quel tempo i termini cuscjì
, zzi e cumpà erano molto comuni anche quando non esisteva una forma di
parentela o di comparatico, ma, ovviamente, ci doveva essere stato un antico amichevole
e durevole rapporto.
U cuscjinu Turiddru
diede a papà la conferma d’una favorevole possibilità di risolvere tale
problema, così lo invitò a mandare me all’officina.
Il mattino seguente mi presentai nell’officina e mi
avvicinai al tanto affaccendato artigiano, che mi rispose che quanto prima mi
avrebbe servito.
La prima giornata trascorse in attesa di aver tra le mani
le tante desiderate suole da portare al calzolaio. Mi ripresentai sempre
speranzoso il mattino seguente e alle mie più frequenti sollecitazioni, u zzi Turiddru, indaffarato com’era
sempre, mi rispondeva ogni volta:
- Tecchia di
pacinzia, u niputi!
La terza mattina la pazienza resisteva ancora grazie all’impellente
bisogno di quelle benedette suole. Ad un certo momento stavo per tagliare la
corda, quando fra le tante manovre tecniche all’aperto, una mi colpì
particolarmente: vedevo che i giovani aiutanti disponevano a circonferenza, con
misurazioni accurate e controlli continui, tantissime pietre annerite dal fumo,
ovviamente a causa di numerose bruciature precedenti.
Alla fine della messa in posa di tali massetti, cominciò la
collocazione con maggiore cura di neri e lucidissimi pezzi di carbone fossile,
che io avevo visto solamente nella forgia di qualche fabbro, dal momento che
allora non ero ancora potuto arrivare fino alla Stazione ferroviaria, dove le
locomotive a vapore, per quanto avevo sentito, funzionavano a carbone.
La mia fresca curiosità distrasse intensamente la mia
pregressa snervante attesa e mi chiedevo, tra me e me, a che mirasse tutto
quell’apparato sempre più misterioso.
Tutto il carbone poco dopo fu acceso formando un cerchio di
fuoco, per me ancora più incomprensibile. Quando l’inspiegabile braciere a
circonferenza divenne abbastanza vivo, vidi avvicinarvisi quattro, tra mastri e
apprendisti (i “giùvini), che
reggevano con altrettanti tenaglioni un cerchione di ferro che andarono a
collocare, con scrupolosa accortezza, sull’ eccezionale rogo circolare infocato.
La mia attenzione era altamente attiva, tanto che non
registravo più con impazienza il tempo sprecato nell’ attendere le benedette
suole.
Pian piano il fuoco diveniva sempre più vivo e l’anello
ferreo più arroventato, quando vidi depositare accanto al rogo circolare una
ben nota raggiera lignea di ruota di carretto, priva però della componente marginale
in ferro.
Cominciai un po’ a capire, ma mi rimaneva qualche dubbio in
merito al fatto che si potesse tenere vicini il ferro infocato accanto all’infiammabile
legno: tanto a me appariva come tenere vicini il diavolo e l’Acqua Santa…
Tutti i lavoranti erano lì, sempre allertati, aspettando
che il cerchione divenisse incandescente al massimo; poi, pian piano ripresero in
mano i tenaglioni, con i quali tolsero dal rogo il rotondo metallo e lo posero con
estrema cautela attorno al robusto cerchio ligneo. Con mazze e martelli,
accompagnati da maestria e attenzione, i due elementi diametralmente opposti per
natura si unirono. Man mano poi che la parte rovente andava raffreddandosi, s’avvinghiava
alla parte legnosa, fino a formare un tutt’uno con i due costituenti di natura
diversa.
Da quel momento capii perché non vidi mai un tale anellone metallico
sfilarsi da una ruota di carretto.
Appresi così prematuramente che il calore dilata i corpi e il
successivo restringimento incastra ben bene corpi sia pur dissimili.
Non passò molto tempo che u zzi Turiddu mi mise in mano le sgobbate suole. Ringraziai,
salutai e sfrecciai verso il calzolaio.
Quella casuale esperienza adolescenziale nel futuro contribuì
molto a farmi capire la necessità dell’accoppiamento dell’impegno scolastico
con ogni tipo di conoscenza diretta nella realtà.