martedì 25 ottobre 2016

UN'ESPERIENZA IMPREVISTA
nell’officina  do zzi Turiddu Profeta

I tempi della Guerra furono duri, ma i successivi all'invasione lo furono ancora di più perché le ostilità continuarono per altri due anni nella parte continentale della Penisola, dove erano ubicate quasi tutte le più importanti industrie, comprese le manifatturiere.
Ai tempi della mia infanzia e prima giovinezza le scarpe confezionate erano molto rare, tant'è vero che da noi non esistevano negozi del genere, mentre abbondava il numero dei calzolai che le confezionavano a mano, servendosi di forme lignee della adeguata misura del piede del cliente, sulle quali venivano impunturate le varie componenti.
Protagonisti iniziali di questo post sono le calzature, ovviamente per chi aveva la possibilità economica di procurarsele in un modo o un altro.
Su internet sono tante le foto di gruppo raffiguranti ragazzi scalzi, non solo per colpa della guerra ma per la diffusa povertà che prosperava in tempi non propriamente antichi.
Io stesso ricordo quei poveracci che riparavano le estremità inferiori con scarpi quasati: queste erano costruite con la cotica del maiale, che stagionata a dovere veniva tagliata a misura approssimativa allo scopo di potersene servire più familiari (C’era a tal proposito un detto tra lo scherzoso e l’amaro: Cu si susi ppi prima si mitti i scarpi a matina).
Erano cucite a mano con dei fili di pelle ritagliati dalla cotica stessa; questi stessi, legati alla parte superiore della calzatura, trattenevano degli stracci di vario genere, attorcigliati sugli stinchi.
Questo primitivo tipo di calzature, durante la mia infanzia, restò una rarità per il sopraggiungere di quelle ricavate dagli usurati copertoni di auto abbandonate e poi riusati a protezione delle estremità inferiori di poveri, in gran parte lavoratori della terra.
Le scarpe difficilmente erano buttate via quando avevano concluso il ciclo previsto: si riparavano in ogni scucitura, strappo, risolatura.
Al momento del bisogno, relativa a una mia calzatura la cui tomaia con l’uso era rovinata al massimo, i miei si ricordarono che in casa, da qualche parte, ci doveva essere una vecchia borsa maschile nera in pelle zigrinata, di già fuori uso perché logorata in molta parte della superficie.
Papà fece adattare dal calzolaio un ritaglio della parte della pelle meno compromessa.
Nessuno di noi se l’aspettava, ma alla mia prima uscita domenicale con le scarpine ben lucidate con la crema adatta (in dialetto ciruttu), ottenni un inaspettato figurone nel mio modesto ambiente socio-economico.
Ma non ci fu tanto da stare allegri, perché alle prime piogge furono le suole a "cantarsela": era un vero peccato dismettere le attraenti, per quei tempi, calzature a causa di pericolosi buchi, perché, oltre a bagnarsi i piedi, c'era anche il rischio di ferirsi con chiodi arrugginiti, schegge di vetri o pietruzze acute.
Urgeva quindi trovare due suole.
Rintracciarle di cuoio era pressoché impossibile. Che fare?
Si parlava in giro di suole ricavate da tagli a solette sottili di vecchie grosse gomme di mezzi militari, distrutti di recente da attacchi aerei nemici.
Ma chi poteva possedere tali materiali da adattare a un uso civile? 
A papà la risposta apparve ovvia: il “cugino” Turiddru Profeta, ultimo carrozziere villarosano degli antichi e declinanti mezzi classici, i “carretti siciliani”.
In quel tempo i termini cuscjì , zzi  e cumpà erano molto comuni anche quando non esisteva una forma di parentela o di comparatico, ma, ovviamente, ci doveva essere stato un antico amichevole e durevole rapporto.
U cuscjinu Turiddru diede a papà la conferma d’una favorevole possibilità di risolvere tale problema, così lo invitò a mandare me all’officina.
Il mattino seguente mi presentai nell’officina e mi avvicinai al tanto affaccendato artigiano, che mi rispose che quanto prima mi avrebbe servito.
La prima giornata trascorse in attesa di aver tra le mani le tante desiderate suole da portare al calzolaio. Mi ripresentai sempre speranzoso il mattino seguente e alle mie più frequenti sollecitazioni, u zzi Turiddru, indaffarato com’era sempre, mi rispondeva ogni volta:
- Tecchia di pacinzia, u niputi!
La terza mattina la pazienza resisteva ancora grazie all’impellente bisogno di quelle benedette suole. Ad un certo momento stavo per tagliare la corda, quando fra le tante manovre tecniche all’aperto, una mi colpì particolarmente: vedevo che i giovani aiutanti disponevano a circonferenza, con misurazioni accurate e controlli continui, tantissime pietre annerite dal fumo, ovviamente a causa di numerose bruciature precedenti.
Alla fine della messa in posa di tali massetti, cominciò la collocazione con maggiore cura di neri e lucidissimi pezzi di carbone fossile, che io avevo visto solamente nella forgia di qualche fabbro, dal momento che allora non ero ancora potuto arrivare fino alla Stazione ferroviaria, dove le locomotive a vapore, per quanto avevo sentito, funzionavano a carbone.
La mia fresca curiosità distrasse intensamente la mia pregressa snervante attesa e mi chiedevo, tra me e me, a che mirasse tutto quell’apparato sempre più misterioso.
Tutto il carbone poco dopo fu acceso formando un cerchio di fuoco, per me ancora più incomprensibile. Quando l’inspiegabile braciere a circonferenza divenne abbastanza vivo, vidi avvicinarvisi quattro, tra mastri e apprendisti (i “giùvini), che reggevano con altrettanti tenaglioni un cerchione di ferro che andarono a collocare, con scrupolosa accortezza, sull’ eccezionale rogo circolare infocato.
La mia attenzione era altamente attiva, tanto che non registravo più con impazienza il tempo sprecato nell’ attendere le benedette suole.
Pian piano il fuoco diveniva sempre più vivo e l’anello ferreo più arroventato, quando vidi depositare accanto al rogo circolare una ben nota raggiera lignea di ruota di carretto, priva però della componente marginale in ferro.
Cominciai un po’ a capire, ma mi rimaneva qualche dubbio in merito al fatto che si potesse tenere vicini il ferro infocato accanto all’infiammabile legno: tanto a me appariva come tenere vicini il diavolo e l’Acqua Santa…
Tutti i lavoranti erano lì, sempre allertati, aspettando che il cerchione divenisse incandescente al massimo; poi, pian piano ripresero in mano i tenaglioni, con i quali tolsero dal rogo il rotondo metallo e lo posero con estrema cautela attorno al robusto cerchio ligneo. Con mazze e martelli, accompagnati da maestria e attenzione, i due elementi diametralmente opposti per natura si unirono. Man mano poi che la parte rovente andava raffreddandosi, s’avvinghiava alla parte legnosa, fino a formare un tutt’uno con i due costituenti di natura diversa.
Da quel momento capii perché non vidi mai un tale anellone metallico sfilarsi da una ruota di carretto.
Appresi così prematuramente che il calore dilata i corpi e il successivo restringimento incastra ben bene corpi sia pur dissimili.
Non passò molto tempo che u zzi Turiddu mi mise in mano le sgobbate suole. Ringraziai, salutai e sfrecciai verso il calzolaio.

Quella casuale esperienza adolescenziale nel futuro contribuì molto a farmi capire la necessità dell’accoppiamento dell’impegno scolastico con ogni tipo di conoscenza diretta nella realtà. 

giovedì 13 ottobre 2016

PRIMO TIMIDO GESTO DI SOLIDARIETÀ FRA ZOLFATAI

Potrà sembrare incredibile che la parola della più terribile e frequente disgrazia presente nel mondo zolfifero della fascia centro-meridionale dell’Isola è stata ignorata, nel suo tragico verbo che la indica, nel grande Vocabolario Siciliano in cinque poderosi volumi dei proff. Piccitto e Tropea.
Ancor maggiormente inconcepibile appare l’uso della parola “zolfataio”, molto comune nel nostro mondo minerario, che non si trova nei comuni vocabolari della nostra lingua. Infine, quasi per caparbietà, ho consultato persino Il Grande Dizionario della Lingua Italiana in XXI vol. di Salvatore Battaglia, che di ogni parola riporta l’uso che se ne fa nelle opere letterarie. Ebbene finalmente l’ho trovata: essa è citata in una Gazzetta Ufficiale del 1967 nella quale si trattava della gestione straordinaria della Sezione Autonoma Zolfatai nella Provincia di Agrigento…

Si può pensare a casuali dimenticanze, ma non lo sono sicuramente: il nostro mondo del passato a noi prossimo ci lascia delle tracce ancora vive, ma esse sono in fase di dissolvimento continuo, particolarmente fuori dell’area mineraria.
Gran parte della Sicilia è quasi un altro mondo, lontanissimo dalle tre Province minerarie di Agrigento, Caltanissetta ed Enna; similmente ritengo che nelle altre ci saranno delle predominanze linguistiche e sociali che noi ignoriamo del tutto.

È raro che oggi il verbo scacciàrisi possa essere usato nel senso originario di perdere la vita sotto uno smottamento sotterraneo, tutto al più ci si può schiacciare un dito, un piede e peggio ancora perdere la vita perché finiti sotto da un pesante mezzo meccanico.
Non molti decenni fa il tipico verbo si adattava spropositatamente persino in solenni giuramenti, come quello arcinoto agli attempati, spesso sulla bocca di un anziano villarosano che quasi ad ogni occasione se ne usciva con l’espressione di conferma di quanto si era appena detto: “Sull’anuri di ma figlia Marì… scacciàrisi ma figliu Jachinu sutta na valata…”. [I nomi sono di pura fantasia]

Era pure frequente nella mia prima giovinezza sentire proferire imprecazioni pesanti del tipo: “Ti putìssitu scacciari!”.

In diversi post è stato citato il già nostrano verbo: il vecchio che impersonava San Giuseppe nell'omonima Tavola, per far capire che di cibo non ne poteva più ingerire, tornava a ripetere, impropriamente direi, ad ogni insistente invito: “Mancu si mi scacciu!”: perché era sazio abbastanza e la sua pancia purtroppo non era bisaccia per future provviste.

Nell’altro post, “La vita per un fico secco”, a “scacciarisi” sotto uno smottamento di materiale grezzo misto a venature di zolfo è proprio un carusu di pirrera, stroncato agli inizi della sua umana esistenza.

Com’è risaputo a quel tempo non esisteva nessuna forma d’assistenza o di sussidio alla famiglia colpita da un incidente mortale o da invalidità permanente, così si sfociava nella più estrema delle miserie materiali: le mogli andavano a fare le criate e i ragazzi i carusi di pirrera, che per pochi centesimi al giorno riempivano giù e portavano su alla luce del sole, dall’alba al tramonto, stirratura colmi di materiale.

Mentre da noi la realtà procedeva in tal modo, nel mondo occidentale sorgevano le prime organizzazioni di rivolta al fine di attutire un po’ le sofferenze dei vari popoli soggetti a tali assurde sofferenze; queste miravano a una più moderna visione sindacale che prevedesse contributi da parte di Enti Statali, Comunali, degli industriali e degli stessi lavoratori, finalizzati al miglioramento di vita della società tutta.
Solo nel 1903 in Villarosa i lavoratori delle miniere, per lenire al minimo la miseria più nera, interamente a spese proprie, cercarono di darsi una timida mossa di solidarietà, creando la “LEGA DI MIGLIORAMENTO TRA OPERAI E ZOLFATAI”.

 Contribuivano a formare questo patto unicamente gli stessi dipendenti col contributo mensile di 50 centesimi se si trattava di operaio, e 25 centesimi se “caruso”: ben poca cosa, perché né Stato, né Comune, né datori di lavoro contribuivano con fondi aggiuntivi a impinguare quella cassa.
Tanto risultò solamente come gocce d’acqua sul deserto.

Dell’esistenza di tale Statuto non ebbi notizia fino al 1999, quando l’anziano amico non più tra noi, signor Giacomo Fratantoni, cultore di patrie memorie, non mi concesse in visione per lettura e per copiarlo il succitato documento. Dello stampato originale di questo non ho ovviamente notizia, ma io ritengo doveroso diffonderne una pubblica copia perché rimanga in giro nel nostro ambiente storico-sociale per i vari cultori che oggi ci sono e spero che in avvenire continueranno a trovarsi.
Come ho più volte affermato il mio obiettivo non è tanto quello di scrivere per porsi al centro dell'attenzione, ma per lasciare tracce storiche nel futuro.
A tal proposito ho un’idea vaga relativa al suddetto Statuto, scritto per i disastrati lavoratori, ma certamente non da qualcuno di loro.  Temo proprio che sia stato un contentino per calmare gli animi esasperati dei molti sofferenti in giro e da notizie provenienti da luoghi lontani dove le garanzie di migliore esistenza avanzavano d’anno in anno.

Una collaborazione in proposito è sempre gradita, pertanto invito chi ha qualche idea in proposito da approfondire e confrontare, è pregato di esprimerla.
Per avviare ogni discorso in proposito allego, per il momento, il Programma introduttivo al contenuto dello Statuto.
Anticipo che quale Presidente della Lega di Miglioramento si firma tale G.Milano e come Segretario della stessa Raimondo D’Alù.
Appena riavvieremo il discorso in merito, farò in modo di offrire, a chi lo chiederà, copia dello Statuto, per far sì che questo Documento non vada perduto, come si sta perdendo gran parte della cultura mineraria.

INTRODUZIONE ALLO STATUTO
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L’epoca che attraversiamo è delle più scoraggianti, due grandi forze con accanita lotta si contendono il terreno palmo a palmo, e sono i capitalisti esercenti le miniere di Zolfare, e gli operai lavoratori nelle stesse.
Or siccome nelle amministrazioni l’operaio zolfataio col suo faticoso lavoro, andando incontro di momento in momento alla morte più disgraziata viene malamente retribuito, e possibilmente avvilito ed umiliato, di fronte a questo stato di cose, la libertà dei tempi gli dice di non restare indifferente, svegliarsi e togliersi dall’apatia che per tanti anni lo ha reso umiliato.
A questo scopo in ogni nazione Civile del mondo, si è sollevata una voce che dice allegatevi o fratelli operai.
Una lega che sorge, solamente per il benessere morale ed economico dell’operaio deve essere rispettata da Dio e dalla legge, poiché da tutti è saputo che l’unione fa la forza.

Ritenuto quanto sopra si è detto, è dovere morale che ogni operaio delle Miniere concorra con la sua opera a crescere e sostenere la concentrazione della Lega di Miglioramento, poiché con questo solo mezzo non si può essere sfruttati ed umiliati, ed ogni altra via non sarebbe né onesta né utile.

venerdì 7 ottobre 2016

QUELLE 5000 LIRE CHE NEGAI


Tantissimi anni fa quando ancora insegnavo, sempre nel plesso “Silvio Pellico” ma in altra classe diversa dalla mia, vi frequentava un alunno che io sapevo orfano d’ambedue i genitori e che viveva con la nonna vedova.

Ero certo che, a parte l’affetto genitoriale, non gli mancava sicuramente l’essenziale.

Il bambino gradiva la mia umana attenzione ma non mi chiese mai qualche specifico oggetto, né qualche monetina per i suoi naturali piaceri o per ovvi modesti bisogni confacenti alla sua tenera età.

Un pomeriggio m’incontrò fuori, s’avvicinò, salutò e mi chiese 5.000 lire, che a quel tempo era una notevole sommetta, che incideva non poco sul modesto stipendio di ogni ordinario dipendente statale.

Gli chiesi cosa volesse comprare di così costoso e mi rispose che egli era stato ricoverato in ospedale e che i medici dimettendolo gli avevano consigliato di bere acqua minerale.

A quel tempo l’uso di questa non era consueta come può esserlo oggi, salvo casi particolari, come di certo poteva pur essere quello del ragazzino. La somma richiesta però la ritenevo eccessiva: secondo me tutta quella riserva d’acqua in numerosi fardelli avrebbe occupato di per sé un bel po’ di spazio nella loro angusta abitazione.

In primo momento volevo ridurgli la somma a sole 1000 lire, ma lo esclusi subito perché volevo accertarmi ulteriormente in merito al motivo dichiaratomi: temevo, e ne avevo ben ragione, che il ragazzino fosse vittima di qualche mascalzoncello e che sotto sotto ci fosse qualche immaturo caso di bullismo infantile, frequente nelle classi, compresa la mia e in strada.

Eccezionale era la richiesta ma straordinariamente incredibile fu la conclusione: pochissimi giorni dopo appresi che il ragazzo aveva raggiunti gli Angeli in Cielo, dove acqua e soldini di certo non servivano più.

La notizia mi straziò l’anima e provai intimamente un pizzico di colpevolezza per quella imprevedibile fine.

Non avrei concluso granché con la mia abbondante e incerta carità, ma avrei risparmiato all'animo mio quest’altro rammarico, che si aggiungeva al dolore per la perdita immatura del ragazzo, già abbastanza provato da tanti dolori, principalmente dalla crudele precoce dipartita dei suoi genitori.


A oltre trent'anni da quell'imprevedibile evento, nel mio animo resta ancora una piccola ferita che pur non essendo sanguinante, ha lasciato un incancellabile segno: tant'è che ancora ne parlo con viva sofferenza.

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