lunedì 15 ottobre 2018


PEPPI SBINTU
e le ridicole pagliacciate odierne che, offendono le tristezze degli antichi tempi.

Un pomeriggio di qualche anno fa, mi trovavo alla Stazione ferroviaria di Villarosa per accompagnare mia figlia che partiva.
Distanti da noi, in atteggiamento di attesa del treno per Catania, stava sul marciapiede un gruppetto di persone che conversavano serenamente col Capo Stazione Primo David.
Quando quei signori partirono, il signor David si fermò a parlare con me e, di sua iniziativa, mi spiegò che si trattava di villeggianti, nipoti di un nostro compaesano che aveva lasciato Villarosa tantissimi anni prima, quale emigrante per gli Stati Uniti.
Erano venuti in Italia da turisti, ma vollero fare una breve sosta a Villarosa, per conoscere il paese d'origine della famiglia e per respirare, come si suol dire, l'aria nativa del defunto carissimo nonno.
Intanto, per non arrecare imbarazzo a probabili sconosciuti parenti, probabilmente ancora qui residenti, avevano scelto di alloggiare presso una locale pensione.
Il cognome dei turisti notati alla stazione corrispondeva anche a quello di nostri concittadini, compreso un mio intimo amico, Pino.
Questi appena intese la mia breve esposizione, rifletté un po' per scorrere, tra gli emigrati della parentela, quello che aveva raggiunto gli Stati Uniti…
Improvvisamente esclamò: Ma certu!...  Sicuramenti jerano i niputi do zzi Peppi Sbintu!
Mi precisò che tale parente era stato cugino di primo grado di suo padre e che, secondo quanto aveva appreso in famiglia, era un individuo di carattere gioviale e propenso sempre a rendere briosa ogni comitiva.
Era ardentemente desideroso di poter lasciare il duro e deprimente lavoro della miniera ed emigrare in una terra dove si potessero esercitare attività meno aspre e pericolose.
I tempi passati erano concretamente duri: il lavoro in atto era mal retribuito, bastava solamente a far buscare il "pane quotidiano"; spesso i ragazzini erano avviati, dai sei anni in poi, a carriari cco stirraturi lo zolfo dal fondo della miniera fino alla superficie; analogamente le femminucce andavano molto spesso a servizio presso famiglie facoltose, dove buscavano il limitato alimento e poche volte riuscivano a raccattare qualche leccornia tra gli avanzi della mensa dei padroni.
Nei primi del '900 Peppe Sbintu riuscì nel suo intento, lasciando l'amato paese.
Quando si fu ambientato nella lontana terra, cominciò a esortare a raggiungerlo il caro cugino, padre di Pino: questo, valente muratore e genitore di nutrita prole, non volle lasciare il luogo dov'era nato e cresciuto.
La corrispondenza fra i due rimase assidua per vari decenni, tanto che Pino, ultimo dei figli, sentiva vicino lo sconosciuto zio: lo ammirava per le briosità dei tempi giovanili che papà raccontava, e guardava attentamente le fotografie e le cartoline illustrate che spesso ricevevano per posta.
Intanto io trovavo qualcosa di strano in quel cognome, unico in tutto il paese, così chiesi al mio amico un chiarimento.
Pino sorrise e mi precisò che quella del parente era na ngiuliapersonale, acquisita in gioventù.
Si suole dire che non si vive di solo pane e tanto corrisponde al vero; ci sono però, fra gli innumerevoli bisogni, alcuni che ai tempi di oggi farebbero sorridere a solo enumerarli: allora era necessario avere molta pazienza nell'attendere che uno di essi ci arrivasse fra le mani.
Ne cito uno solo, che è confacente all'argomento di cui tratterò.
Si tratta di un proverbio decaduto, tanto che oggi potrebbe sembrare una beffa, ma è ancora presente nelle varie raccolte tramandateci dai nostri saggi progenitori: Sarba la pezza ppi quannu arriva lu pirtusu. A tal proposito, sento il dovere di citare mia nonna Angelina, che ogni qual volta citava un proverbio, aggiungeva: "…e si nunn'era vero, l'anticu nun lu diciva".
 Nelle situazioni difficili del passato comprare un vestito era un serio problema: spesso gli sposi poveri, persino al matrimonio comparivano col vestito prestato loro da comprensive persone, che umanamente ne percepivano la seria difficoltà.  
Nella mia infanzia vivemmo il triste periodo della guerra e del dopoguerra che costrinse, fra l'altro, la mia mamma, come ho trattato in altro testo, a confezionarmi uno sfortunato vestitino, confezionato con il fodero, in tela gialla, della sua macchina per cucire.
Ricordo pure che la stessa mia cara donna di casa, mentre una mattina si era affacciata al balcone per stendere pochi panni e indossava un vestito non di tutti i giorni, fu apostrofata benevolmente dalla dirimpettaia Adelina, con queste parole:"Quannu  u povìru si vesti di lussu si vidi ca je arrivatu all'ussu".
Quello fu un periodo passeggero: grazie a Dio, giunse poco dopo il successivo tempo migliore, che passò presto in quello che fu battezzato "boom economico".
Nei tempi di Peppi Sbintu non si potevano immaginare tali riprese economiche in patria: di conseguenza, fra i cenci che capitavano alla mano, si conservava il meno consunto, per l'inevitabile momento in cui si sarebbe rivelato necessario a rattoppare il buco in qualche indumento.
Un sabato di pomeriggio di fine '800, gli amici di Peppinotarono che il già rilevato buco nei pantaloni del loro brioso amico, si era allargato oltre i limiti accettabili: perciò cominciarono a prenderlo in giro, esponendogli che c'era il pericolo che l' "uccello" trovasse una facile la via di fuga.
Peppi li riassicurò che il loro timore era inammissibile, poiché il volatile cui loro facevano cenno, era saldamente ben radicato.
Subito fecero capolino altre insinuazioni e Peppe aggiunse che, al massimo, la nuova maggiore estensione della fenditura avrebbe favorito l'agevole sbintu del prodotto gassoso che ogni creatura vivente produce in basso.
Risata generale: da quel momento perse il suo legittimo cognome e si ritrovò a esser chiamato Peppi Sbintu, non solamente dagli amici, ma anche d'altri paesani.
Ogni qual volta si parlava del personaggio divertente, pur emigrato in America, si utilizzava col nome proprio, anche il nomignolo, che egli stesso si era appioppato.
Sono passati parecchi decenni dalla dipartita di Peppi Sbintu da questa Terra, non di meno la generosa visita a Villarosa dei suoi nipoti americani, ha fatto riaffiorare, per bocca del mio amico Pino, l'antica 'ngiulia  del loro vivace nonno.
 Io stesso non avrei fatto  caso alla riemersione dell'anticangiulia, se non mi fosse capitato, da qualche anno in qua, di vedere in giro maturi giovani con pantaloni artificiosamente strappati, con piena cognizione e risolutezza.
Si cominciò qualche decennio fa a grattare con la carta vetrata i pantaloni di jeans e… sfrega oggi e sfrega domani, gli sciocconi del nostro tempo sono arrivati al massimo …dellosbintu.
 Oggi mi affido alla collaborazione intenzionale dei lettori, perché contribuiscano a far decadere tale stupida tendenza del momento, che offende quanti subirono, ai tempi della fame più nera, l'involontaria e non meritevole restrizione.





















venerdì 29 dicembre 2017

NOTA: Un nostro concittadino, avanzatissimo in anni, quanto lucidissimo di cervello, leggendo il presente post ha notato un mio errore di distrazione nello scambiare la posizione di due vie, fra loro parallele, Ferruccio con Capponi. Così gentilmente me lo ha segnalato. Tanto mi riempie di soddisfazione e lo ringrazio immensamente, compiacendomi nello stesso tempo della sua precisa capacità di attenzione: egli mi legge a migliaia di Km di distanza dal comune nostro paesello natale, dal quale da tantissimi anni è assente.
Lo ringrazio tanto e me ne compiaccio altrettanto per avermi dato una tirata benevola di orecchio. 
Intanto invito i residenti e me stesso, in prima linea, di stare più attenti a correggere gli errori di distrazione e non. 
Grazie ancora al lontano lettore e a tutti quanti amano il proprio paese. 
Buon anno a tutti.



U PONTI CARAMANNA

Fino a qualche decennio fa era indicato con tale denominazione un comunissimo ponticello sul Corso Garibaldi, sotto il quale scorrevano le acque  convogliate dalla via Ferruccio, che si immettevano nella via Mastro Silivestre. [sic: la seconda i non è stato un errore di battitura, essa è contenuta nella la targa, scolpita in pietra grigia uguale a tutte le altre in paese, che maldestramente è stata coperta, di recente e in parte, dal tubo di scarico delle acque dell'edificio stesso, sul quale essa è murata: il nome, con la seconda "i" ovviamente è un termine dialettale antico, perché non ho mai sentito pronunciare a nessuno il nome così come sta scritto]
Quando quest'ultima via fu raccordata, con la creazione di un lieve piano inclinato, con il Corso Garibaldi, non ci fu più motivo di mantenere la parte in muratura del piccolo parapetto del ponte.
In fondo al pendio naturale, le acque svoltavano, a destra per pendenza, lungo il vallone di contrada "Santo Rocco"; a tal proposito, ritengo atto storicamente utile, sottolineare che tale nome, negli atti pubblici, si completa con l'aggiunta di "spoglia padrone": con questa precisazione gli antichi vollero rilevare la natura aspra e arida del terreno, nel quale ogni lavoro destinatogli risulta inevitabilmente sprecato.
A sinistra aveva inizio l'irta trazzera, detta "da figuredda", che porta alla strada provinciale che conduce a Villapriolo. 
Lo stradale continua ben oltre: verso Alimena (Armena), le Petralie e alle Madonie (al momento fuori uso); a nord-est porta a Cacchiamo (Guacchiamu), Villadoro (Passariddu), Nicosia (Nicusì) ...
A sinistra dello sbocco sulla strada provinciale esiste una seconda figuredda, tutte e due però oggi sono pressoché ignorate, ma non sono state erette in modo casuale: erano il riferimento votivo della religiosità di lavoratori minerari e agricoli che vi transitavano.
Nella nostra epoca dell’automobile, la vecchia trazzera oggi è diventata carrozzabile, ma rimane ugualmente poco frequentata, perché in irta salita: in antico era un'arteria molto trafficata, specialmente in due cruciali momenti della giornata, alba e tramonto, escluse le domeniche e le feste comandate.
Al primo albore del giorno e ancor prima che sorgesse il sole, vi si arrampicava una massa umana di capumastri, pirriatura, armatura, arditura, scarcaratura, panuttara, seguiti da una frotta di carusi, mal coperti, malnutriti, scavuzi e 'nchiagati di rùsuli; tutti insieme si avviavano alle numerosissime miniere di zolfo che sorgevano intorno a Respica-Giurfo, con predominanza verso la zona est della montagna.
Poco più tardi erano i viddrani, in numero inferiore, che salivano per l’erta, fangosa o polverosa, a seconda della stagione per raggiungere Pampiniddru, l’Ariazza, u Vigliu, u Giurfu, San Giuguanniddru...
Se un tempo San Calogero era il limite estremo dell’abitato, il ponte Caramanna aveva pure una certa rilevanza in paese, perché ne segnava la periferia per quanto riguarda il lato nord, infatti a parte qualche casa sul corso, alle spalle c’erano campi coltivati.



                         Zona del ponte Caramanna, dopo il 1930, anno d'installazione 
                                                della corrente elettrica a Villarosa


La prima traversa visibile a sinistra è la via Capponi; al posto della vecchia costruzione in ombra che la precede, oggi sorge il negozio di generi alimentari della famiglia Restivo.
L'impraticabilità dei marciapiedi e la quasi assenza di automobili in transito (è visibile solamente in discesa un furgoncino) induce i passanti a servirsi del fondo stradale, com'è ben testimoniato ancora dalla foto.
Verso sera moltissimi cittadini uscivano da casa per andare in piazza, dove incontravano amici e conoscenti. Quando il buon tempo permetteva, allungavano la passeggiata oltre la piazza fino al ponte Caramanna, senza oltrepassare la pur leggera salita che di lì iniziava.
Ancora oggi, ma meno degli anni passati, la dizione "ponti Caramanna" continua a essere usata.
Io non ho conosciuto nessun Caramanna, né ho avuta notizia da parte di anziani della mia giovinezza che abbiano conosciuto un solo nostro concittadino con tale cognome.
Era usanza nei tempi passati che si assegnassero nomi alle strade a seconda del borghese o politico più ragguardevole che vi aveva abitato. Per fare un solo esempio, che potrebbe sembrare improprio, la via Milano non fu intitolata al capoluogo lombardo ma a una famiglia di cui ho conosciuto un solo rappresentante, don Ciccio: un altro rappresentante della stessa famiglia Milano fu più volte sindaco di Villarosa: nessun Caramanna però fece parte della toponomastica ufficiale del paese
Voglio citare un ordinario evento di cui fui involontario testimone circa venticinque d’anni fa.
Tornavo da scuola a piedi, com'era mia consuetudine; era l’ora di pranzo e i marciapiedi del Corso Garibaldi erano quasi deserti; avevo appena superato la traversa di via Mastro Silivestre, quando si accostò al marciapiede un’auto; il giovane che era alla guida mi apostrofò molto garbatamente e mi chiese dove si trovasse il ponte Caramanna.
Risposi che lo avevano appena attraversato, pochi metri prima.
Precisai subito che qualche decennio precedente era stato eliminato il parapetto che lo rendeva visibile.
Accanto al guidatore era seduta un’anziana signora che, sorridendomi, mi disse:
 - Caramanna era mio nonno.

 Ringraziarono, salutarono e l’auto, targata Ragusa, proseguì la marcia in direzione Palermo.

domenica 8 gennaio 2017

U MMIRNU JÈ NFIRNU     

        Al primo segno di freddo d’autunno si era soliti dire: “Prima di Natali né friddu né fami, duppu Natali lu friddu e la fami”.
       Infatti si dice che l’Epifania tutte le feste porta via: e … ci lascia il freddo.
       Questa Befana, datata 2017, si sarà trovata immersa anch’ella nella presente crisi economica e ha voluto far gioire i bimbi con l’abbondante, quanto gratuita, nevicata che non si vedeva da diversi anni.
        Il detto ripetuto spesso da mia nonna Angelina che è citato nel titolo, a me bambino non suonava correttamente, perché vi trovavo una stridente contraddizione: l’inverno freddo non poteva avere nulla a che fare con le fiamme dell’Inferno, minacciato a tutti i cattivi del mondo.
        Crescendo, d’anno in anno, rielaboravo il detto della nonna sopra citato e intuivo che un nesso c’era: se l’Inferno è un terribile tormento, altrettanto lo sono la fame, le disgrazie, il malessere e ogni altra privazione di generi di assoluta necessità.
          Intanto i tempi miglioravano d’anno in anno e lasciavamo indietro le antiche tristezze economiche e, in particolare quelle belliche.
         La nonna era sensibile ai bisogni dei poveri e di ogni altro sventurato. Fu lei che per prima mi parlò dei ragazzini infreddoliti, malnutriti e spesso piangenti che già prima dell’alba lasciavano il calduccio del misero giaciglio nel freddo pianterreno, u catuiu, per andarsi ad infilare nel buco che portava sottoterra e caricarsi sulle gracili e macilente spalle u stirraturi, pieno di dure pietre per portarle dal profondo buio alla luce del giorno. Questi ragazzi guadagnavano qualche soldino che potavano a casa perché avevano un fisico normale per affrontare, col carico addosso, la risalita dalle viscere della terra.
         Tanti altri deboli maschietti e le femmine in genere che non potevano consegnare a mamma un pur misero guadagno, pativano pure loro la triste povertà dei tempi.
         Nelle case di questa umana gente non esistevano riscaldamenti, non dico come quelli odierni, ma nemmeno gli antichi bracieri, a cunculina, o lo scaldino, u tanginu.
       La mancanza di tale minimo conforto, di un’adeguata alimentazione, e conseguentemente di vitamine, favorivano il formarsi alle estremità corporali, maggiormente nei piedi, dei geloni, i rùsuli, che erano, e forse ancor sono, delle tormentose infiammazioni, che finivano col trasformarsi in piaghe dolenti.
          Mi raccontava pure papà che molti ragazzi, disperati per tali stagionali sofferenze, escogitavano strambi, quanto crudeli modi, per cercare scioccamente di scacciarle.
         Le vecchiette, sole in casa, nel clima freddo dell’inverno andavano a letto presto per trovare conforto fisico accovacciate nel loro scarno giaciglio.
        Al contrario i ragazzi si soffermavano ancora insieme sulla via per trarne una comune distrazione alla sofferenza con giochi e monellerie varie.
        Era frequente fra i ragazzi la bizzarra opinione che i propri geloni si potessero scaricare a qualche altro. Ma a chi? Ovviamente a quante nel rione che non avevano l’abilità fisica di rendere loro pane per focaccia: alle povere vecchiette forse di già crogiolate nel confortevole sonno.
       Gli screanzati, che non tenevano conto che un giorno lontano si sarebbero potuti trovare nelle stesse condizioni delle attempate creature, bussavano rumorosamente alla porta dell’infelice solitaria che, svegliatasi di soprassalto, agitata gridava: - Cu jè?... Cu jè?
Gli scostumati rispondevano: - Cci lassu i rùsuli e minni vàjiu!
         Queste storie antiche sembrano sorpassate e che non torneranno mai più…. Lo voglio sperare con tutta l’anima.
Intanto mentre sto scrivendo, s’è fatto buio: la neve di Villarosa stenta a sciogliersi perché resiste per la bassa temperatura.
         Grazie a Dio il riscaldamento di casa mia, al momento, è a posto…

         Il pensiero intanto mi porta lontano, a tutta la parte imprecisa- bile del mondo che vive ancora come ai tempi dei nostri nonni, ma soprattutto ho in cima ai pensieri i terremotati dell’Italia Centrale, che, dopo già tante sofferenze fisiche e morali, sono entrati, con fioche speranze, nno nfirnu do mmirnu.

mercoledì 23 novembre 2016


UMANE CREATURE ALLO SBARAGLIO


La dolorosa storia che segue, una fra le tantissime, è rivolta principalmente a quanti (e non sono pochi) sostengono che i sindacati sono la causa principale della crisi dell’odierna economia e chiudono gli occhi sui tempi duri in cui i datori di lavoro si arricchivano alle spalle dei lavoratori, che quando perdevano la vita o acquisivano sul lavoro un’invalidità permanente, lasciavano le rispettive famiglie nelle più terribili delle necessità.

Il tragico caso che propongo è del 1913, ma prima d’allora ne erano accaduti di già tantissimi; ancora oggi, sia pure in minor misura, continuano mietendo vittime innocenti anche se sono presenti varie forme di tutela da parte di molteplici attività sindacali.

 L’economia villarosana d’un secolo fa, e anche prima, era in massima parte sostenuta dalle miniere di zolfo che a decine, fra grandi e piccole, offrivano occupazione a molte centinaia di cittadini, dalla puerizia all’avanzata età, nelle varie mansioni attinenti l’industria estrattiva.

Don Carmelo Albanese, meccanico tornitore, lavorava in una di quelle miniere molto distante dall’abitato. Il suo felice matrimonio era stato di già allietato dalla nascita di una bimba e quattro anni dopo la moglie era in imminente attesa di nuovo erede, ovviamente sperato maschio.

I parenti più stretti non erano eccessivamente preoccupati per i gravi pericoli della miniera dal momento che ben sapevano che la sede di lavoro del proprio familiare non era nel ventre della terra ma nell’officina piazzata in superficie.

Raramente fabbri e meccanici erano chiamati ad eseguire lavori nelle gallerie, salvo quando, per lo più rotaie e vagoni, necessitavano di qualche rabberciatura o di sostituzione di pezzi, ma sempre operavano lontani dalla linea di avanzamento.

Don Carmelo scendendo qualche volta giù nel cuore della miniera aveva notato un leggero scricchiolio dei cavi della gabbia, la cui attività era necessariamente quasi continua. Di conseguenza aveva fatto notare più volte a capomastri e proprietari il rischio che poteva scaturire da quel significativo indizio: tutti si mostravano pronti ad assicurare che al più presto si sarebbe provveduto, non appena sarebbero arrivati i “varrà”, il nome sicilianizzato dell’inglese warrant, cioè l’attestato che il corrispettivo in moneta dello zolfo venduto era stato versato in banca e quindi disponibile al prelievo da parte della ditta.

I “varrà” arrivavano, ma di nuove funi, manco a parlarne.

Si risparmiava su tutto, meno che sulle vite umane: i minatori spesso lamentavano il rischio imminente di crolli, ma si lesinava persino sulle armature dei punti avanzati, per le quali spesso erano utilizzate travi logore o rabberciate.

Quando giunse l’ottobre del 2013, centenario della vicenda che segue, più volte mi sono accinto a scrivere in merito, però mi cadeva la penna dalla mano, per usare una espressione oggi quasi in disuso.

Oggi invece non ho più intenzione di indugiare e mi dò forza a far rivivere la presente tragica storia e nello stesso tempo per lasciare memoria delle altre centinaia piombate sull’esistenza di altrettante famiglie nei due secoli di piena attività mineraria siciliana.

La funesta vicenda che segue aveva colpito particolarmente il ramo materno della mia famiglia. Fin da piccolino ogni tanto ne sentivo accennare con brevi e desolanti allusioni, ma io, pur curioso per natura, non osai mai far rievocare il funesto evento.

La triste storia ebbe inizio proprio nello stesso giorno della venuta al mondo di mia madre.

I nove mesi della gestazione erano sullo scoccare: una mattina, già prima dell’alba, il nonno aveva intuito che la cara consorte era prossima al parto.

Stette al lavoro tutta la giornata in forte ansia; poi provò a chiedere di potere anticipare eccezionalmente di qualche ora la fine del turno: l’ottenne. Mentre però si preparava a raccogliere frettolosamente le cosette personali nella sacca d’olona, all’improvviso fu chiamato d’urgenza per un intervento assolutamente improrogabile nella galleria.

Mio nonno e due fabbri avevano appena cominciato a calarsi dentro il gabbione, quando improvvisamente, quelle stesse funi che avevano da tempo dato segni di deterioramento, si spezzarono facendo precipitare il tutto fino in fondo, con la sfrecciante velocità che può imprimere la libera forza di gravità: nessuno dei tre si salvò.

Intanto in quelle funeste ore la nonna aveva partorito la mia mamma, la seconda femminuccia.

         La poverina attendeva l’arrivo del caro marito: le ore passavano e le ansie aumentavano, fino a diventare angoscia e progressivamente completo struggimento.

Intanto la fatale notizia era pervenuta in famiglia, ma nessuno trovava l’ardire di comunicarla alla puerpera, che dal letto bramava per il ritardo inconsueto dell’amato consorte.

La poverina leggeva negli occhi dei familiari che le stavano attorno che qualcosa di grave era avvenuto e cominciò a piangere l’amato sposo come morto. Poi quando s’accorse la sventurata che nessuno osava smentirla, ebbe la chiara conferma dell’immane perdita.

Allorquando la disperazione era arrivata al culmine, toccò alla sua stessa madre di confermare la tremenda sciagura appena accaduta.

La neonata, mia futura mamma, doveva chiamarsi Virginia come la nonna materna, invece le fu imposto il nome, al femminile, del padre che non conobbe mai, Carmela.

Apparirebbe inutile ripetere le tristi conseguenze di questo tragico evento nei riguardi dei familiari che dall’oggi al domani venivano a trovarsi colpiti nel cuore e caduti nella miseria più nera conseguente al mancato, sia pur inadeguato, guadagno.

Forse il Creatore immise nel mondo una percentuale di coppie sterili perché queste si prendessero cura, con pari amore, di quanti avevano perduto i naturali genitori.

La famigliola incompleta di mia nonna Angelina entrò nel numero dei graziati: zia Rosina e zio Calogero furono pronti ad annettere alla propria l’altra delle tre sventurate creature, vittime del destino e soprattutto dell’ingordigia umana.

 Dieci anni prima in Villarosa era stata creata la “Lega di miglioramento tra operai e zolfatai”. Questa a quel tempo sembrò una conquista, ma era sostenuta unicamente dall’apporto mensile di una lira da parte d’ogni operaio e di 50 centesimi di ciascun carusu: i padroni delle miniere non contribuirono a questa magra Cassa nemmeno con nessun pur misero versamento.

Mia nonna ricevette dalla “Lega di Miglioramento”, a seguito dell’incidente mortale del marito, 300 lire soltanto, valevoli per tutta l’intera esistenza sua e delle figlie.

Faccio ora un salto temporale nel successivo mezzo secolo, a metà circa degli anni ’60, quando mia nonna era ormai ultra settantenne e viveva con i mei genitori. L’Italia del cosiddetto boom economico si ricordò di quanti ancora sopravvivevano a quell’immane ingiustizia e volle concedere un contentino riparatore; mia mamma però non volle accettare assolutamente quella tardiva offerta della Stato, dopo un’intera esistenza di sofferenze indescrivibili e quindi non volle categoricamente far inoltrare istanza alcuna alla nonna.

A quanti tra parenti, amici e vicine di casa le facevano notare che nessuno dei presenti governanti si sarebbe accorto del suo sprezzante gesto, rispondeva secca:

 - Troppo tardi! Mia mamma già sta bene con noi: oggi non le manca niente.

Nonna, papà e noi maturi nipoti non c’ intromettemmo nell’ esprimere un pur semplice giudizio relativo all’orgogliosa e sdegnosa decisione di mamma, effettivamente la più martoriata fra tutte.

martedì 25 ottobre 2016

UN'ESPERIENZA IMPREVISTA
nell’officina  do zzi Turiddu Profeta

I tempi della Guerra furono duri, ma i successivi all'invasione lo furono ancora di più perché le ostilità continuarono per altri due anni nella parte continentale della Penisola, dove erano ubicate quasi tutte le più importanti industrie, comprese le manifatturiere.
Ai tempi della mia infanzia e prima giovinezza le scarpe confezionate erano molto rare, tant'è vero che da noi non esistevano negozi del genere, mentre abbondava il numero dei calzolai che le confezionavano a mano, servendosi di forme lignee della adeguata misura del piede del cliente, sulle quali venivano impunturate le varie componenti.
Protagonisti iniziali di questo post sono le calzature, ovviamente per chi aveva la possibilità economica di procurarsele in un modo o un altro.
Su internet sono tante le foto di gruppo raffiguranti ragazzi scalzi, non solo per colpa della guerra ma per la diffusa povertà che prosperava in tempi non propriamente antichi.
Io stesso ricordo quei poveracci che riparavano le estremità inferiori con scarpi quasati: queste erano costruite con la cotica del maiale, che stagionata a dovere veniva tagliata a misura approssimativa allo scopo di potersene servire più familiari (C’era a tal proposito un detto tra lo scherzoso e l’amaro: Cu si susi ppi prima si mitti i scarpi a matina).
Erano cucite a mano con dei fili di pelle ritagliati dalla cotica stessa; questi stessi, legati alla parte superiore della calzatura, trattenevano degli stracci di vario genere, attorcigliati sugli stinchi.
Questo primitivo tipo di calzature, durante la mia infanzia, restò una rarità per il sopraggiungere di quelle ricavate dagli usurati copertoni di auto abbandonate e poi riusati a protezione delle estremità inferiori di poveri, in gran parte lavoratori della terra.
Le scarpe difficilmente erano buttate via quando avevano concluso il ciclo previsto: si riparavano in ogni scucitura, strappo, risolatura.
Al momento del bisogno, relativa a una mia calzatura la cui tomaia con l’uso era rovinata al massimo, i miei si ricordarono che in casa, da qualche parte, ci doveva essere una vecchia borsa maschile nera in pelle zigrinata, di già fuori uso perché logorata in molta parte della superficie.
Papà fece adattare dal calzolaio un ritaglio della parte della pelle meno compromessa.
Nessuno di noi se l’aspettava, ma alla mia prima uscita domenicale con le scarpine ben lucidate con la crema adatta (in dialetto ciruttu), ottenni un inaspettato figurone nel mio modesto ambiente socio-economico.
Ma non ci fu tanto da stare allegri, perché alle prime piogge furono le suole a "cantarsela": era un vero peccato dismettere le attraenti, per quei tempi, calzature a causa di pericolosi buchi, perché, oltre a bagnarsi i piedi, c'era anche il rischio di ferirsi con chiodi arrugginiti, schegge di vetri o pietruzze acute.
Urgeva quindi trovare due suole.
Rintracciarle di cuoio era pressoché impossibile. Che fare?
Si parlava in giro di suole ricavate da tagli a solette sottili di vecchie grosse gomme di mezzi militari, distrutti di recente da attacchi aerei nemici.
Ma chi poteva possedere tali materiali da adattare a un uso civile? 
A papà la risposta apparve ovvia: il “cugino” Turiddru Profeta, ultimo carrozziere villarosano degli antichi e declinanti mezzi classici, i “carretti siciliani”.
In quel tempo i termini cuscjì , zzi  e cumpà erano molto comuni anche quando non esisteva una forma di parentela o di comparatico, ma, ovviamente, ci doveva essere stato un antico amichevole e durevole rapporto.
U cuscjinu Turiddru diede a papà la conferma d’una favorevole possibilità di risolvere tale problema, così lo invitò a mandare me all’officina.
Il mattino seguente mi presentai nell’officina e mi avvicinai al tanto affaccendato artigiano, che mi rispose che quanto prima mi avrebbe servito.
La prima giornata trascorse in attesa di aver tra le mani le tante desiderate suole da portare al calzolaio. Mi ripresentai sempre speranzoso il mattino seguente e alle mie più frequenti sollecitazioni, u zzi Turiddru, indaffarato com’era sempre, mi rispondeva ogni volta:
- Tecchia di pacinzia, u niputi!
La terza mattina la pazienza resisteva ancora grazie all’impellente bisogno di quelle benedette suole. Ad un certo momento stavo per tagliare la corda, quando fra le tante manovre tecniche all’aperto, una mi colpì particolarmente: vedevo che i giovani aiutanti disponevano a circonferenza, con misurazioni accurate e controlli continui, tantissime pietre annerite dal fumo, ovviamente a causa di numerose bruciature precedenti.
Alla fine della messa in posa di tali massetti, cominciò la collocazione con maggiore cura di neri e lucidissimi pezzi di carbone fossile, che io avevo visto solamente nella forgia di qualche fabbro, dal momento che allora non ero ancora potuto arrivare fino alla Stazione ferroviaria, dove le locomotive a vapore, per quanto avevo sentito, funzionavano a carbone.
La mia fresca curiosità distrasse intensamente la mia pregressa snervante attesa e mi chiedevo, tra me e me, a che mirasse tutto quell’apparato sempre più misterioso.
Tutto il carbone poco dopo fu acceso formando un cerchio di fuoco, per me ancora più incomprensibile. Quando l’inspiegabile braciere a circonferenza divenne abbastanza vivo, vidi avvicinarvisi quattro, tra mastri e apprendisti (i “giùvini), che reggevano con altrettanti tenaglioni un cerchione di ferro che andarono a collocare, con scrupolosa accortezza, sull’ eccezionale rogo circolare infocato.
La mia attenzione era altamente attiva, tanto che non registravo più con impazienza il tempo sprecato nell’ attendere le benedette suole.
Pian piano il fuoco diveniva sempre più vivo e l’anello ferreo più arroventato, quando vidi depositare accanto al rogo circolare una ben nota raggiera lignea di ruota di carretto, priva però della componente marginale in ferro.
Cominciai un po’ a capire, ma mi rimaneva qualche dubbio in merito al fatto che si potesse tenere vicini il ferro infocato accanto all’infiammabile legno: tanto a me appariva come tenere vicini il diavolo e l’Acqua Santa…
Tutti i lavoranti erano lì, sempre allertati, aspettando che il cerchione divenisse incandescente al massimo; poi, pian piano ripresero in mano i tenaglioni, con i quali tolsero dal rogo il rotondo metallo e lo posero con estrema cautela attorno al robusto cerchio ligneo. Con mazze e martelli, accompagnati da maestria e attenzione, i due elementi diametralmente opposti per natura si unirono. Man mano poi che la parte rovente andava raffreddandosi, s’avvinghiava alla parte legnosa, fino a formare un tutt’uno con i due costituenti di natura diversa.
Da quel momento capii perché non vidi mai un tale anellone metallico sfilarsi da una ruota di carretto.
Appresi così prematuramente che il calore dilata i corpi e il successivo restringimento incastra ben bene corpi sia pur dissimili.
Non passò molto tempo che u zzi Turiddu mi mise in mano le sgobbate suole. Ringraziai, salutai e sfrecciai verso il calzolaio.

Quella casuale esperienza adolescenziale nel futuro contribuì molto a farmi capire la necessità dell’accoppiamento dell’impegno scolastico con ogni tipo di conoscenza diretta nella realtà. 

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