Ho avuto modo di parlare di don Peppino Profeta, commerciante di
grano, fave e simili in Villarosa, quando nei tempi difficili della
prima guerra mondiale fu defraudato, con un futile espediente dal
suo dipendente Cola A., di piccole quantità di grano e da questo
irrisorio fatto nacque e s'affermò il detto “O da porta o do
purtiddru a vo nnèsciri u furmintiddu”.
Ovviamente non solamente per questo quasi trascurabile episodio egli
merita una collocazione nella storia degli abitanti d'un centro già
minerario oggi ridotto a un paesino di pensionati. Egli fu anche
sindaco del Comune per due volte in momenti particolarmente difficili
della vita della nostra cittadina e dell'Italia tutta.
Fu sindaco ininterrottamente tra gli ultimi due anni della Grande
Guerra e i primi quasi cinque del corrispondente dopoguerra: un
periodo non interrotto di miseria e tristezze. In uno dei momenti più
critici fra questi i molti poveri del paese soffrirono la fame più
nera e intanto il grano preannunciato dal Prefetto ritardava
considerevolmente ad arrivare. Don Peppino vedeva i suoi personali
magazzini colmi di grano e sentiva il rimorso di non poterli
utilizzare per il più umano degli scopi.
Una mattina, deciso, annunciò che avrebbe anticipato il grano duro
della nostra terra per sfamare i più bisognosi, già ridotti
all’osso.
Non mi dilungo a descrivere l’impatto che ebbe la notizia sulla
popolazione bisognosa, ma anche su quanti avevano di che vivere ma
possedevano un'altruistica sensibilità.
Tale gesto filantropico rimase scolpito nella memoria dei
concittadini per i venti anni che seguirono durante il fascismo,
durante i quali don Peppino restò completamente estraneo alla
politica e tornò alle sue attività commerciali.
Primavera 1946, il popolo italiano tutto è chiamato a scegliere tra
Monarchia o Repubblica ed eleggere il Sindaco del proprio Comune.
L'evento fu eclatante non solo perché, dopo un ventennio di
dittatura fascista, si tornava a votare, ma soprattutto per la
circostanza che potevano esprimere liberamente il loro pensiero
tutti i cittadini d'ogni censo e cultura dai ventuno anni in su. E,
ancor di più, il fatto fu più clamoroso perché poterono votare,
per la prima volta in assoluto, le donne già ghettizzate da sempre
dal pieno diritto all'elezione attiva e passiva.
Al momento della scelta dei candidati il primo pensiero dei
villarosani andò a don Peppino che, pesante d'anni e d'acciacchi,
non si sentiva in grado di portare a termine un mandato come
vent'anni prima: ma non si sentì di deluderli ed accettò. Quasi
tutti i partiti rinunciarono ai rispettivi simboli per far risorgere
l'antico e popolare “leone”, già raffigurato nello stemma dei
Notarbartolo, fondatori della nostra cittadina. Mi pare di ricordare
che solamente il rinominato partito dei cattolici la “Democrazia
Cristiana”, già “Partito Popolare” fondato da don Sturzo, non
accettò la candidatura del benefattore Profeta; credevano di farcela
da soli a fare eleggere il loro candidato e poi perché da rigidi
moralisti quali essi erano non tolleravano l'unione more uxorio
del vecchio sindaco con una donna non legata dal vincolo
sacramentale.
I candidati a consiglieri furono scelti fra le varie categorie di
cittadini. Mio padre fu chiamato a questo dovere civico; fu eletto
tra i primi, ma non volle impegnarsi in nessun assessorato.
Lo spoglio completo delle schede si concluse verso sera con una
strepitosa vittoria della lista del “leone”; d'incanto si formò
uno spontaneo e interminabile corteo con in testa il malfermo neo
sindaco che fece il girò del paese seguendo il tipico tragitto delle
processioni religiose.
Io camminavo accanto a mio padre quando gli si avvicinò un
conoscente che gli disse: - Fra tutta questa folla non c'è un solo
cappello!
Io curioso salii sugli scalini esterni d'un portone di via Milano e
appurai la giustezza dell'osservazione. Più tardi papà mi precisò
che non avevano votato per il sindaco Profeta solo operai e
contadini ma anche borghesi, solo che la manifestazione avveniva di
lunedì e per giunta spontanea; non si trattava quindi di una festa a
cui ci si prepara prima e vi si partecipa col vestito d'occasione.
Avevo solamente quasi dodici anni e non ero in grado di giudicare la
condotta politico-amministrativa; bisognava capire che si trattava
d'un anziano ottantenne in un' epoca in cui gli anni pesavano di più
rispetto ad oggi, perché grazie a Dio abbiamo a disposizione
medicamenti e miracoli di chirurgia molto decisivi.
Don Peppino non poté completare il suo secondo mandato a causa della
fine dei suoi giorni; gli successe il suo vice don Niniddru Tripi,
fine sarto di Villarosa.
Don Peppino non aveva figli né nipoti, ma fu sensibile ad
incrementare la scuola nel nostro paese al fine di offrire gli studi
a tutti i figli del popolo che altrimenti non avrebbero avuto la
possibilità economica per frequentare collegi lontani; ne si può
dire che egli lo facesse per raccogliere voti: non ne aveva più
bisogno lui e nemmeno il suo inesistente partito.
Nell'anno scolastico 1944-45 il Preside Carcione del collegio
“Plutia” di Piazza Armerina aveva creato in Villarosa la prima
classe di scuola media privata. L'Amministrazione comunale fece di
tutto per renderla comunale e dare sempre più possibilità ai
piccoli cittadini di frequentarla col pagamento di una modica rata
trimestrale.
Negli anni scolastici successivi io e qualche centinaio di ragazzi e
ragazze di Villarosa, Villapriolo e di Alimena, grazie a questa
iniziativa, potemmo fruire per l'appunto di tale opportunità:
tanto per quei tempi non fu poca cosa: l’obbligo scolastico a 14
anni sarebbe arrivato soltanto nel 1962, cioè quando io nel
frattempo ero diventato padre.
Per questi motivi, per conto mio, sono grato a quell’Amministrazione
e in particolare a quel Sindaco che, senza specifici interessi di
famiglia, mi consentì di realizzare il mio grande sogno, poter
studiare.
Ora voglio chiudere la storia di don Peppino con un quasi futile
episodio che delinea la sua personalità vecchio tipo, d'un tempo non
tanto lontano.
Mio padre come consigliere comunale fu chiamato a far parte della
commissione comunale per la nuova scuola e così io fin d'allora
seguii passo passo l'evolversi della nuova istituzione da me tanto
agognata.
Il plesso “Silvio Pellico”, unica scuola allora esistente, non
aveva aule da offrire; il Comune concesse i pianterreni del Municipio
che guardano a nord: i due piccolissimi locali funsero da segreteria
e presidenza; la palestra già del Fascio, rivolta ad est, divenne
la nostra.
I banchi per gli alunni, altro problema. Si reperirono rottami di
quelli di quinta classe elementare abbandonati nella vecchia mai
utilizzata palestra del “Pellico” e si affidarono ad un falegname
che li mettesse a sesto per la somma di £ 30.000 (trentamila lire!).
Nel momento in cui fu pattuita tale somma un membro della Commissione
disse al falegname:
- Manda a prendere dal bar un bottiglia di vermuth che ce la beviamo al buon esito della nuova scuola e alla nostra salute.
Si sentì una
voce ferma e vibrante:
- Cca dintra guantèri ccu buttigli nun nni tràsinu...!A genti cchi po' pinsari?... Ca cca si mangia e si vivi a sbafu?
Era il
sindaco Profeta. La proposta cadde in un silente vuoto.
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