CENNI
SUL MONDO SOCIALE ANTERIORE AGLI ANNI ‘50
I
segni più vistosi d'una certa distinzione sociale ai tempi della mia infanzia e
prima giovinezza erano i copricapo, "cuppuli e cappedda", che però
non erano obbligati come una divisa.
Decenni
prima era stato comune un copricapo di panno dalla forma cilindrica coperto in
alto e senza fondo in basso per consentirgli di adagiarsi sulla testa,
era “a scuzzitta”[Il berretto tipico di Giuseppe Garibaldi,
anche se non di origine siciliano, si può considerare una
"scuzzitta"] . Il colore della stoffa era scuro ma poco
identificabile perché quei pochi che sono riuscito da ragazzo a vedere sul capo
di qualche vecchietto erano molto unti per la scarsa igiene praticata in quel
tempo. Oggi per sciccheria la porta qualche uomo di cultura legato alle
tradizioni della nostra terra. Ricordo che alla celebrazione del Centenario
della nascita di Vincenzo De Simone fu invitato il poeta Ignazio Buttitta,
grande estimatore ed amico del Nostro. L’ospite si presentò al Cinema Italia
dove si svolse la celebrazione con una “scuzzitta” di colore blu
tradizionale con dei ricami in filo dorato. Qualche anno più tardi rividi un
simile copricapo rosso e fregiato dei soliti ricami dorati indossato da un
antiquario di Taormina, amante della cultura e amico di personalità del gotha
internazionale e, per citare la più ragguardevole per arte e notorietà,
dell’attrice Greta Garbo.
Fino a
un decennio dopo la fine dell’ultima guerra, era impensabile che un operaio o
un contadino, sia pur benestante, portasse il cappello. Di festa invece qualche
artigiano l’indossava. A tal proposito ho un ricordo indelebile. Era il
1946: prime elezioni amministrative. A Villarosa erano in lizza due liste:
quella della Democrazia Cristiana e quella civica con emblema “il Leone”
capeggiata da un ex sindaco del periodo prefascista, don Peppino Profeta, a cui
s'erano unite le sinistre.
Mio padre fu invitato a candidarsi, non chiese il voto a nessuno, non tanto per
superbia ma per il principio della libertà di scelta: fu eletto ugualmente e
con moltissimi suffragi. Io dodicenne seguivo le manifestazioni democratiche
che per me, e non solo, erano assolute novità.
Vinse la lista popolare e subito a scrutinio completato spontaneamente si formò
un immenso e composto corteo che fece il giro del paese lungo il tragitto delle
processioni. Mi colpì la frase di un signore che rivolgendosi a mio padre disse: - Nun cc'è
mancu un cappiddu!
Io curioso salii su degli scalini esterni d’una casa della via Milano e appurai
l'affermazione appena sentita.
Altra
distinzione sociale, a parte certe professioni particolari, dottore, professore
o avvocato, era il modo di nominare le persone: Don e Donna, Mastru e Gnura.
Artigiani, commercianti, impiegati e rispettive mogli erano chiamati col Don e
Donna, il resto della popolazione con mastru e gnura. C'era pure una zona intermedia fra il Don e il Mastro, che si risolveva
con “zzi”, appellativi confidenziali che non
presupponevano l'esistenza di parentela: zzi Pe', zzi Turì,
zzi Marì, zzi Minichì....
Sconfinare da queste regole comportava biasimo ed ironia.
Ricordo
che c'era una donna che proclamava, in italiano: - Io sono la signora Alessi...
Ma la
si compativa come persona un po' stramba...
Fino agli anni '60 i contadini, anche i più facoltosi, d'inverno usavano “ a
scappulara”, scapolare, una specie di mantello di stoffa pesante di color blu
con cappuccio. Gli altri che si volevano distinguere dal popolo minuto usavano
“u palittò”, il cappotto. I più poveri s'arrangiavano come
potevano...
In
tempi più antichi, professionisti e galantuomini, portavano un elegante
mantello con borchia dorata a chiusura alla base del collo, u firriulu.
Come
si evince c'era una scala sociale variegata che ciascuno rispettava per timore
d'essere preso in giro, ma non c'era un obbligo legale: era solamente una
convenzione tacitamente rispettata.
In fondo era il reddito che creava il discrimine. In ogni categoria c'era anche una scala di valori a seconda delle capacità professionali o dal modo di proporsi al prossimo.
I vari mondi sociali erano poco permeabili, ma si poteva passare dall'uno
all'altro nel corso delle generazioni. Importante era la
considerazione morale della famiglia, ma il reddito e il potere erano più
attraenti, come anche oggi del resto.
Della scala agricola l'ultimo era, ed è ancora, “u jurnataru”; di quella
zolfifera “ u panuttaru”, quello che impastava le polveri inerti miste a
scagliette di zolfo che asciugate venivano infornate per trarne un minimo
di zolfo liquido. I “panutti” sbriciolati concorrevano a formare “u ginisi”, lo
scarto inerte che rimane dalla combustione e liquefazione dello zolfo; esso era
un ottimo materiale idrorepellente molto adatto per costruire stradelle.
A
proposito “do ginisi” sono ancora visibili sullo sfondo del corso Regina
Margherita verso nord dei grandissimi coni di deiezione di color rosa formati
da tali rosticci. Oggi hanno perso il color vivo che ancora tengo negli occhi
della mente e sono solcati dall’ erosione delle piogge nei numerosi decenni.
Sempre
a proposito del suolo villarosano tutta la zona ai piedi del monte Respica, a
destra dell’ “Ariazza”, appare come un paesaggio lunare, cumuli irregolari e
buche sempre di color rosa per via dei rosticci, essi sono “i ginisara” di
Verona: così comunemente è chiamata la zona. Da ragazzo mi chiedevo che cosa
c’entrasse la città veneta col nostro paese, ma nessuno mi sapeva dare una
risposta. Col tempo, leggendo, ho scoperto che Verona era il cognome d’una facoltosa
famiglia palermitana di industriali dello zolfo e padroni di miniere nella
zona.
Mi
compiaccio di citare questi particolari che se non fissati nella forma scritta
sono condannati ad inesorabile dimenticanza, come ad esempio l’origine del nome
Respica.
Quand'era ragazzino sentivo chiedere a qualche giovane che scuola avesse frequentato e questi
con un risatella rispondeva: - U quartu ginisaru di Verona! Io
confondevo tale parola con ginnasio, ma i conti non minquadravano perché
l’interpellato non corrispondeva ai canoni dello studente.
Teoricamente
la scuola era aperta a tutti, nella sostanza invece a una striminzita minoranza.
Un solo esempio potrà dare un'idea approssimativa. Nella mia prima classe, anno
scolastico 1940-41, gli iscritti eravamo 56 [ho la fotocopia dell’elenco del
registro]. Non tutti però i nati del 1934 [si tenga presente che allora
al nostro Comune mancavano poche decine di abitanti per arrivare ai 12.000]
varcarono quel primo ottobre il portone del novello palazzo scolastico Silvio
Pellico”, almeno altrettanti erano per le strade del paese o in campagna. Dei
miei 56 compagni originari, quelli che arrivammo in quinta si potevano contare
si e no sulle dita d'una mano, gli altri dieci erano i reduci dalle altre prime
e poi s’era aggiunto qualche ripetente. Restavano inesorabilmente fuori della
scuola i poveri che non possedevano un paio di scarpe. A tal proposito fra le gallerie di foto del sito villarosani.it ce n'è una di gruppo nella quale tanti dei ritratti seduti a terra mostrano con assoluta naturalezza i piedi
nudi, senza poter contare gli altri in piedi, nascosti alle estremità inferiori, da quanti stavano loro davanti. La foto mi pare degli anni '50, lascio immaginare quanti altri piedi scalzi nei
decenni precedenti...
Non si
finirebbe mai di raccontare aspetti tristi del tempo, che si spera tanto che non torni mai
più: voglio lasciare spazio a qualche concittadino di aggiungere particolari
nuovi o correggere eventualmente i miei.
Nessun commento:
Posta un commento