Il momento critico che attraversa oggi il nostro Paese
in merito alla crisi morale della Politica (e non solo), mi riporta agli inizi
della mia adolescenza.
Primavera 1946, io, ex Balilla, m’avviavo a compiere
dodici anni ed ero interessato alla novità della riconquistata democrazia ed in
particolare dell’imminente referendum istituzionale tra Monarchia o Repubblica.
Ascoltavo quasi tutti i comizi dell’una e dell’altra
parte e mi convinsi a simpatizzare per la seconda dopo aver seguito il comizio
di un noto avvocato della nostra Provincia, di cui oggi mi sfugge il cognome.
In poche parole la sua argomentazione base era la seguente: se il figlio
primogenito del Re è sostanzialmente un cretino, egli necessariamente un giorno
diverrà sovrano di tutti noi; al contrario, è difficilissimo, addirittura impossibile,
che un comune sciocco possa arrivare all’alta carica di Presidente della
Repubblica.
Cercavo conferme nei discorsi dei grandi e molti di
loro, come mio padre, erano ben convinti dell’argomentazione repubblicana ma
temevano di fare un “salto nel buio” specialmente per via del fatto che il
Partito Comunista, allora d’ispirazione sovietica, era un deciso sostenitore
della forma repubblicana: eravamo appena usciti da una dittatura e si temeva
fortemente di andare a sfociare in un’altra.
Laddove c’era un crocchio di persone che trattava
simili argomenti, in particolare comodamente seduti fuori al fresco accanto ad associazioni
come la Società dei Combattenti e Reduci, la Società “Umberto I°” o altre
ancora, io vi mi soffermavo per seguire le varie tesi. Tante erano le
discussioni che s’intrecciavano e fra queste un particolare argomento affiorava
più spesso, quello dell’onestà dei politici. Alcuni sostenevano che, entrati nel
contesto pluripartitico in cui ora ci trovavamo, il controllo si sarebbe raggiunto
più facilmente per mezzo del voto popolare che avrebbe castigato, con l’eliminazione,
gli indegni alla successiva elezione.
Molti pensavano come me, ma non tutti però erano
d’accordo.
Uno di costoro era don Turiddu Palumbo, sfortunato
“principale” di pirreri, che circa un
decennio dopo sarebbe stato costretto ad emigrare in Brasile con tutta la
famiglia. Il suo pensiero era quello che difficilmente la natura umana potesse
mutare perchè “munnu à statu e munnu jè”.
Conoscevo don Turiddu fin da quando ero bambino e con
lui avevo avuto più occasioni d’interloquire e sentivo che egli mi ammirasse proprio
per via degli interessi da me manifestati, che in genere si addicono ai più grandi.
L’anziano signore cercava in ogni modo di convincermi che l’umanità è sempre la
stessa in democrazia o in dittatura; è vero sì che la prima è maggiormente da
preferire, ma le magagne sono similmente presenti in un modo o l’altro.
Ad un certo punto don Turiddu si mostrò ancora più suadente
e mi disse:
- Tinuzzu, mittiti
n’testa chiddru ca ti staiu dicinnu: si vo vidiri si na pirsuna jè veramenti
onesta, cci à taliari la chianta di li manu. Si cci criscinu pila, chiddu jè sicuramenti
n’omu perbeni.
Restai un po’ smarrito ma subito mi ripresi, sorrisi e
tacqui.
Mentre sono in argomento voglio citare un distico
dialettale, ugualmente pessimistico, che qualche decennio dopo mi fece conoscere
don Pippiniddu Casali, l’elettricista, che abitava nella parte alta del corso
Regina Margherita. Egli era stato dirimpettaio d’un fratello di mio nonno che purtroppo
io non arrivai a conoscere, u zzi
Vastianu, che si dilettava di poesia ed era solito citare questi due suoi
versi:
Cu mitti i pidi n’terra e nunn’è latru
O jè di stuccu o jè di vitru.
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